Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: LOVE_sucks    05/02/2014    2 recensioni
Scrutatori, estremi, orditori e limpidi.
Sono una minaccia per la sicurezza del mondo o una salvezza?
Come può un segreto cambiarti per sempre?
Come può una ragazza non conoscere il suo passato?
Cosa si nasconde nel mondo in cui viviamo?
Quanto siamo disposti a perdere per conoscere la verità?
Nessuno è al sicuro.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vedevo le immagini scorrere fuori dal finestrino. Si mischiavano, si separavano e si distorcevano. Mi ricordavano quando andavo sulle giostre con mia madre e mi sporgevo per sentire l’aria che mi graffiava la pelle. Vedevo il mondo intorno a me mutarsi in righe orizzontali che si divertivano a creare piccoli uragani e mulinelli di colore. Quando tornavamo chiedevo a mia madre perché quando la giostra si azionava non riuscivo a vedere il Luna Park, la terra e il cielo. Lei mi rispondeva che tutte le case, le giostre, tutte le cose nelle immediate vicinanze , dopo essere state tutto il giorno ferme nella stessa posizione si divertivano a girare intorno alla giostra trasportati dal vento. Per molti anni avevo creduto che grazie alla giostra loro erano libere. Che la giostra significava libertà. E questo valeva anche per me. La giostra mi dava energia. Era una delle poche volte che trascorrevo del tempo con mia madre, sempre impegnata come era a lavorare per mantenerci. Sentii gli occhi inumidirsi al suo ricordo.

Seguii la scia di una goccia con un dito. Non sapevo come passare il tempo. Ci volevano ben tre ora prima di arrivare a Boston e il mio Ipod mi aveva abbandonato circa mezz’ora dopo la partenza. Mi girai per guardare Bob, l’autista. Era un uomo sulla cinquantina, completamente calvo. Aveva un incarnato bronzeo. Una tonalità più scura della mia. I suoi occhi erano grigi come il cielo in quel particolare giorno. Ma erano caldi e vivaci. Delle piccole rughe si formavano sulla fronte quando era particolarmente concentrato, come in quel momento. Lui non era come gli altri autisti, cercava di essere molto attento nella guida e non parlava. Conoscevo il suo nome solo perché lo portava scritto in una targhetta sopra il taschino destro della camicia. Sentì i miei occhi fissi su di lui. -Dovresti dormire-mi disse. Aveva la voce profonda e calda. Riusciva a infonderti tranquillità anche se il tuo animo era tutt'altro che tranquillo. –Ha figli Bob? Perché lo avevo detto? Sicuramente mi avrebbe preso per una squinternata. E forse lo ero. O forse ero solo una stupida ragazzina che non pensava prima di aprire bocca. Ok, lo ero sicuramente. –Si, ho due bambine. Sorrisi provando ad essere felice per lui. Cosa avrei dovuto aggiungere? Non ero il genere di persona che parlava molto, anzi non parlavo per niente, e quando intrattenevo una conversazione con qualcuno non sapevo mai cosa dire per non far cadere un discorso. -oh...due bambine! Quanti anni hanno? I suoi occhi si illuminarono e la sua bocca si curvò in un sorriso lasciando intravedere una fila di denti dritti e grigiastri, resi così’ dal fumo probabilmente. Delle rughe si formarono quando sorrise incorniciandogli la bocca. -In realtà non sono proprio “bambine”, tutte e due frequentano il liceo, ma per me saranno sempre le mie piccoline, e al pensiero che Chloe, la più grande, l'anno prossimo si trasferirà in California per iscriversi alla facoltà di medicina... Vidi una lacrima rigargli il volto. Era così attaccato alle sue due figlie che per un attimo a mettermi nei loro panni. Dovrebbe essere bello… avere un padre intendo. Io non l’ho mai avuto. Non l'ho mai conosciuto. Mia madre mi aveva avuto a 18 anni e mi aveva cresciuta da sola, senza l'aiuto di nessuno. Mi raccontava che i miei nonni l'avevano cacciata via di casa appena appresa la notizia, e che mio padre era stato allontanato da lei dai genitori a causa della gravidanza, 'frutto di un amore illecito' avevano detto i miei “nonni”, che incombeva come una macchia di olio sul buon nome della sua famiglia. Ergo della mia famiglia.  -Deve amarle molto- conclusi quasi in un sussurro.- Già. Disse lui  allargando ancor di più l'ampio sorriso. -E i tuoi genitori piccola? Ti vogliono bene? Continuò. Ripensai a mia madre.  Che era la mia famiglia. La rividi nel vestito azzurro che indossava quella domenica e quel pensiero mi divorò la mente. Quella domenica. La domenica in cui la persi. La domenica in cui tutto finì. La sua vita che si spense come una candela che aveva arso troppo forte...  e che si era spenta troppo presto. L'avevo persa così, da un giorno all'altro, senza nemmeno rendermene conto. Perché è così quando perdi qualcuno che ami. Non te ne rendi conto. Non te ne vuoi rendere conto. Passano gli anni ma il ricordo di lei è ancora vivo nella tua mente che ti blocca i pensieri come il ghiaccio, che ti annebbia i sensi, ti rende incapace di essere felice, impedendoti di vivere a pieno la tua vita.  Poi c'è chi riesce a ricompensare ciò che ha perso con un bene più grande. Ma io non mi sarei ripresa mai. Ed ora ero lì. Sbattuta su un taxi di terzo ordine che odorava di fumo e di un deodorante per ambienti al pino selvatico misto ad un profumo da uomo troppo dolce, pronta per abbandonare New York. La mia adorata New York. La mia caotica, esuberante, grande mela. Stavo andando a Boston, dove abitava mia zia Emily, la sorella di mia madre. Abitava a Boston per motivi di lavoro, anche se non avevo mai ben capito di cosa si occupava, quando glielo chiedevo mi rispondeva sempre in modo molto vago, comunque sia era qualcosa a che fare con l' amministrazione o la sicurezza, credo. Era sempre molto impegnata per il lavoro e quindi non la vedevo spessissimo. Ci riunivamo solitamente per alcune feste o per i compleanni ed era raro che  veniva a farci visita nei giorni non feriali. Ho sempre avuto una buona impressione su di lei. Ho sempre pensato che fosse una donna simpatica. Aveva sempre il sorriso stampato in faccia e nessun problema sembrava mai sfiorarla. Da piccola volevo essere come lei, un’eterna giovane. Era forte, ed era la mia famiglia, ora.-Mia madre si è suicidata pochi giorni fa. Sentii le parole strozzarmisi in gola, non le avevo mai pronunciate al alta voce prima di allora. E avevano un peso enorme che andò a gravare sul petto. Vidi i suoi occhi sgranarsi. Inchiodò di colpo e mi guardò come si guarda un cucciolo. Non volevo la sua compassione. Non ero fragile.  O almeno non era ciò che mia madre voleva che fossi. –Sai Bob?-Dissi sforzandomi di assumere un tono di voce piatto e naturale-Forse hai ragione. Dovrei dormire. Chiusi gli occhi lasciando fuoriuscire delle lacrime e sprofondai nell’abisso più totale.

 Vidi la lettera sopra al tavolo. Iniziai a leggere.                                                      
Alla mia adorata figlia. Kim, tu sei  sicuramente la persona che ho amato di più in tutta la mia vita. Ti ho cresciuta con la paura di fallire come madre, come donna. Ho sempre voluto solo e soltanto il meglio per te. Volevo che avessi una vita piena e felice, che fossi forte, non come me-mamma tu eri forte-poco tempo fa mi hanno diagnosticato un tumore- perché non me lo hai detto?- dicono che avrei avuto un anno di vita se avessi fatto la chemio.- perché non me lo hai detto?!-Non volevo che mi vedessi soffrire, non volevo farti soffrire. Sappi che se anche la vita ci ha separate noi siamo destinate a essere unite. Per sempre. Abbi cura di te amore mio.                                                                                                                                                          
Vidi il corpo inerme sul divano. Mia madre si era suicidata. La persona che mia aveva dato la vita era morta. E la colpa era anche mia. Non le ero stata vicina nel momento del bisogno. Lei che mi aveva sempre dimostrato tanto amore non aveva ricevuto niente in cambio. Ero troppo preoccupata di me stessa e dei miei bisogni per accorgermi della sua malattia. Ripensai a quando ero più piccola, quei momenti in cui tornava da lavoro e le rinfacciavo il fatto che mi aveva lasciata sola tutto il giorno, o quando doveva fare i turni di notte per comprarmi il cellulare che volevo. Non avevo mai avuto pietà  di lei, non mi ero mai preoccupata della sua salute, non mi ero mai fermata a chiederle se stava bene. Pretendevo e basta. Tutto il male che le avevo fatto ora si stava riversando su di me come un fiume in piena. Quand'è stata l'ultima volta che le ho detto quanto le volevo bene? Quando avevo preteso da lei un ultimo abbraccio? Ero così convinta che fosse una donna forte che con gli anni mi sono dimenticata che anche lei era una persona, che anche lei era umana. Ho sprecato del tempo preoccupandomi solo di cose inutili. Tempo che potevo trascorrere insieme a lei. Tempo che dovevo trascorrere insieme a lei. Con gli occhi appannati dalle lacrime e il respiro affannato mi diressi verso di lei.  Nelle sue mani ancora strette alcune pasticche di veleno. -Destinate ad essere unite per sempre. Ripetei. Afferrai qualche pastiglia e me le conficcai in gola sto arrivando.

  -Svegliati, siamo arrivati. La voce di Bob mi riportò alla realtà. Aprii gli occhi. Il mondo attorno a me appariva offuscato, le immagini erano confuse. Stavo piangendo. Mi toccò un braccio stringendolo leggermente.-Tutto bene piccola? Sii forte le parole di mia madre mi riecheggiavano in testa come frequenze che sbattono e si riproducono in una valle fino a quando il suono non si riduce a un rantolo. Mi scossi leggermente-Mai stata meglio- gli dissi sbadigliando-allora siamo arrivati-continuai accennando un sorriso.-Proprio così- rispose lui, aveva un filo di tristezza nella sua voce probabilmente era ancora toccato dalla mia pietosa storia.-Allora addio piccola- disse solamente. Gli occhi che indugiavano sulla casa a cui davo le spalle. Mi girai per ammirare la mia nuova casa. Una facciata della casa era stata dipinta di un giallo sgargiante che contrastava e si legava al tempo stesso con le persiane verde metallico. Sorrisi pensando alla stravaganza di mia zia Emily -Addio Bob- la mia voce suonava fredda e distaccata, ma dentro il mio corpo era straziato e c’era una voce che urlava pietà e mi si bloccava in gola. C’era una voce che reclamava calore umano. Sprofondai nel sedile come se in qualche modo potesse inghiottirmi e portarmi in una di quelle fantasie in cui mi rifugiavo quando qualcosa non andava, in uno di quei sogni che la notte mi facevano visita. Sogni di persone diverse, di poteri soprannaturali. Sogni in cui anche io per una volta potevo essere chi volevo, potevo essere l'eroina che salvava tutti, potevo essere utile a qualcuno, per una volta. Sarei rimasta lì per sempre. Tutto pur di non affrontare mia zia. Non potevo farmi vedere da Emily così. Anche per lei mia madre tutta la sua famiglia. Lo era sempre stata. Emily era più piccola di mia madre di cinque anni e sin da piccole si prendevano cura l’un l’altra. Stavano sempre insieme. Erano legate, si, ma non era un legame come tanti altri. Alcune volte le vedevo intuirsi con uno sguardo, era come se avessero inventato una specie di codice segreto che riuscivano a comprendere solo loro. Vedendole ero affascinata e quasi invidiosa di quel rapporto. Non avevo fratelli o sorelle e a volte mi divertivo a fantasticare su quanto sarebbe stato bello averne uno. Aprii lo sportello della macchina senza guardami indietro, era mia abitudine farlo.”Mai guardarsi indietro, continuare per la propria strada senza badare agli errori fatti”. Era questo il mio motto. Lo era sempre stato. Era ciò che mi aveva insegnato mia madre sin da quando ero piccola. Quando prendevo un brutto voto a scuola non si arrabbiava molto, anzi, se ne dimenticava quasi nello stesso momento in cui glielo dicevo, ma faceva di tutto per farmi capire che dovevo recuperare, che dovevo rimediare all'errore fatto. È come quando rompi un vaso, non devi piangerci sopra, solo ripararlo. La macchina si era fermata esattamente davanti al cancello di mia zia. C’erano un cancello e una bassa staccionata di legno bianco che lasciavano intravedere un prato inglese ben curato. Dietro la parte destra della casa faceva capolino un grande garage, mentre sul lato sinistro si apriva un varco tra il verde, uno spazio cementato dove erano disposte due sdraio e un basso tavolinetto in vetro, coperti da un gazebo di lino bianco. Aprii il piccolo cancello ritrovandomi a camminare lungo un sentiero di ciottoli. Arrivai al portone salendo una fila di scale in mattoni rossi. Suonai il campanello, qualche minuto dopo comparve sulla soglia mia zia. Aveva i capelli rosso  rame raccolti in uno chignon come era solito portare mia madre, e non potei fare altro che pensare che se lo era fatto proprio per sentirla più vicina. Alcune ciocche le ricadevano davanti agli occhi azzurri. Mi soffermai più del dovuto a guardare la curvatura delle sue labbra. Sembrava il suo solito sorriso ma era forzato. Era sicuramente falso. Emily era una donna che difficilmente mostrava le sue debolezze, anzi era solita infondere forza agli altri indossando il suo magnifico sorriso, facendoti credere che non esisteva alcun male e illudendoti che la vita era come un viaggio meraviglioso e avventuroso, dove alcune volte si incontravano degli ostacoli e bisognava tirare fuori tutto il coraggio di cui uno disponeva per poterli affrontare e superare. Non stava bene come voleva dimostrare. I suoi occhi  erano diversi, quella luce che sprigionavano, quello scintillio di energia che era solito caratterizzarli era spenta. Ora erano vuoti. Due cerchi azzurri, due pozzi senza una fine in cui il suo animo sbarazzino si era perso e vagava cercando la luce che lo avrebbe tirato fuori dall’oscurità. Mi invitò ad entrare con un cenno della testa. Le rivolsi un debole sorriso e lei mi gettò le braccia al collo stringendomi a sé, togliendomi quasi il respiro. Ma non cercai di allontanarla anche se per me era insolito. Mia madre non era una di quelle persone che ti dimostrava l’amore con le parole o con gli abbracci, era piuttosto impacciata in questo. Alcune volte mi stringeva delicatamente un braccio o mi accarezzava una guancia, ma niente di più. Lei l’amore me lo dimostrava giorno dopo giorno, con la pazienza la tolleranza e la perseveranza. Mi aveva imparato a essere forte, a reagire. Avrei dovuto abbandonare il ricordo di mia madre. Non avrei dovuto piangere per lei ma continuare la mia vita. Sarebbe stato ciò che le avrebbe voluto.  E allora perché mi sentivo morire? Sii forte Sentivo ancora la voce di mia madre. Anche se dovevo mandarla via lei sarebbe stata sempre lì con me, nella mia mente, nel mio cuore.  Anche se ero estranea all’affetto fisico, mi resi conto  di quanto il mio corpo avesse bisogno di calore umano, così la strinsi anche io, sentivo il suo odore, di pulito, di vaniglia. Sapeva di casa. Rimanemmo così per un lasso di tempo indeterminato. Nessuna parlava o diceva nulla all’altra fin quando non soffocammo tutte le nostre lacrime in quell’abbraccio. Mi aggrappai alla spalla di mia zia come per cercare un appiglio, per riemergere da quella foschia di emozioni non ben definita. Emily avvicinò la bocca al mio orecchio.-Benvenuta a casa- mi sussurrò.
-Questa è la tua stanza- disse mia zia indicando una porta con gesto teatrale. Il mio sguardo si concentrò sulla maniglia di ottone che era al centro dello scuro rettangolo di legno. L’ abbassai e mi girai verso mia zia con aria di intesa. -Oh be, io  vado a preparare la cena. Ti chiamo io quando è pronto.- Mi mise una mano sulla spalla sfiorandola delicatamente e aggiunse: -prenditi tutto il tempo che ti pare per...-lasciò la frase a metà e mi guardò. Fu solo in quel momento che vidi i suoi occhi stanchi scavati dalle notti che aveva passato in bianco. Fui stupita dal leggero strato lucido che si formò sui suoi occhi. Non avevo mai visto mia zia piangere ed ero arrivata alla conclusione che forse non ne era più capace. Da piccola pensavo che avesse consumato tutte le sue lacrime e che i suoi occhi fossero diventati come dei torrenti prosciugati dal sole. -per sistemare le mie cose.- Dissi continuando la sua frase. Le rivolsi un timido sorriso. Avrei voluto abbracciarla nuovamente, avrei voluto arpionarmi a lei in cerca di consolazione come facevo con mia madre. Lei riusciva sempre a farmi vedere il lato positivo delle cose, riusciva sempre ad infondermi forza. Ma lei non era mia madre. Anche se non l'avevo mai vista piangere sapevo che Emily era totalmente diversa da Victoria Heatfield. Mia madre era una donna forte. Una di quelle donne che non si piegano mai.  Sentii le lacrime bruciarmi dietro agli occhi e mi voltai per nascondermi come se avessi compiuto il peggiore dei peccati. Mi chiusi la porta alle spalle e mi rifugiai in quell'ambiente famigliare. Mia zia aveva risistemato la camera degli ospiti per renderla un pò più accogliente: Le pareti bianche erano state ridipinte di un rosso sgargiante che mi aggredì fino a quando i miei Occhi non si abituarono a quel invasione di colore. Mi sistemai sul letto spiegazzando la trapunta blu che era stata ben tirata. Da una tasca della felpa tirai fuori il cellulare. Il display segnalava 3 chiamate perse. Sheila. Per un attimo immaginai il suo viso puntinato di lentiggini scosso dalla preoccupazione e mi chiesi perché non le avevo mandato un messaggio in cui le dicevo che stavo bene. Forse perché non stavo bene. Non stavo affatto bene. Mi asciugai le guance bagnate dalle lacrime e cercai di respirare regolarmente. Il petto che si abbassava e si alzava. Era semplice, potevo farcela. Mi ripetei che ero piuttosto brava a mentire. 'ma non con lei Kimberly non con lei!' Sheila era l'unica persona a cui non riuscivo a mentire, a cui non riuscivo a fare del male. Con i suoi capelli color carota e la voce squillante era l'unica amica che avessi mai avuto e non volevo deluderla o farla preoccupare. La vedevo spesso piangere e ogni volta anziché consolarla mi mettevo a piangere insieme a lei. Un immagine di Sheila che camminava avanti e indietro per la stanza tappezzata dai poster con la mano che stringeva i capelli si fece largo nella mia mente. Dovevo chiamarla, lei aveva bisogno di sentire che stavo bene. Io avevo bisogno di sentirla. Sapeva sempre trovare le parole giuste per tirarmi un pò su il morale. Mi ricordai la prima volta che la incontrai. Avevo circa 7 anni e facevo la seconda elementare. Quel giorno Julian, il bulletto delle medie, stava aspettando noi bambini nel cortile davanti all'ingresso per derubarci della colazione. Quando arrivai vidi quell'ammasso paffuto di superbia e grasso che scuoteva una ragazzina con due codine rosse e un giubbotto blu elettrico. Subito mi precipitai verso quell'arrogante che strattonava la povera bambina e lo allontanai dicendogli che doveva prendersela con qualcuno della sua taglia. Cosi Julian iniziò a rincorrermi ma la ragazzina gli assestò un calcio che ci fece acquistare giusto il tempo per scappare verso l'ingresso. La bambina mi tese la mano -sono Sheila-. ricordai di come sembrava piccola e indifesa, con gli occhi sgranati, le lentiggini che prima la ricoprivano completamente mentre ora erano quasi scomparse e quel sorriso timido che le adornava la bocca... Sbattei le palpebre riacquistando lucidità. Con la mano che tremava cercai il suo nome nella rubrica. Stavo per selezionare quel nome tanto familiare quando il cellulare inizio a vibrare -Sheila. Prenditi coraggio Kimberly, fallo.- Feci appena in tempo a ripetermi per l'ennesima volta queste parole prima di essere travolta da un'ondata di domande. -Dove sei? Come stai? Mi hai fatto preoccupare lo sai? Pensavo ti fosse accaduto qualcosa di brutto che avessi fatto qualche sciocchezza...- sentivo il filo di preoccupazione nella sua voce, nascosto dalla sua esuberanza. -Sto bene Sheila, sto bene.- Tagliai corto. ‘Chi vuoi prendere in giro Kimberly?? Devi Impegnarti!’ -Sto bene, davvero- cercavo di trattenere le lacrime, di nascondere la voce rotta dal pianto, di fingere di stare bene, di cercare di rassicurarla in qualche modo, di farle capire che ero forte, che niente mi poteva abbattere, di dimostrarle che non ero cambiata affatto. Sapevo che non ci avrebbe creduto. Mi conosceva troppo bene e riusciva a capire quando mentivo. Non sarei riuscita a camuffare le ore di pianto con un semplice sto bene, dovevo fare del mio meglio. Lei era la mia coscienza. E in quel momento avevo bisogno di tutto tranne di ascoltare l'urlo che cercava di farsi strada nel mio petto. -so che non stai bene Kim, lo capisco. Sai che di me ti puoi fidare, che su di me puoi sempre contare, che puoi sempre sfogarti con me. Lo sai vero?? Metti da parte l'orgoglio per una volta e chiedi aiuto, ti prego.- La sua voce si fece ancora più preoccupata. -Te lo chiederei se ne avessi bisogno, ma è tutto ok. Te lo giuro. Ciao Sheila-. Attaccai il telefono e lo gettai sul letto. Sentivo di nuovo le lacrime bruciarmi le guance come se fossero state fuoco vivo. Mi voltai e fissai la mia immagine nello specchio. Le ciocche nere che mi contornavano il viso erano bagnate e appiattite dal peso delle lacrime che avevo versato, I miei occhi  erano cerchiati di rosso e la matita aveva lasciato una scia scura sulle mie guance. Non mi ero mai vista così. E non volevo vedermi più in quelle condizioni. Cosi promisi a me stessa di non piangere più per nessun motivo. Continuai a fissare la mia immagine nello specchio, ma questa volta c'era qualcosa di diverso in me. La luce sprigionata dai miei occhi si era spenta, ma al suo posto potevo vedere qualcos'altro che veniva irradiato dai miei Occhi. Non c'era più il solito luccichio di gioia e spensieratezza che era tipico del mio essere, ma si erano fatto largo indifferenza e freddezza.

Aprii la valigia e iniziai ad estrarre I vestiti e a sistemarli sul letto. Afferrai un maglioncino verde con ricami in Oro sulle maniche e mentre stavo per posizionarlo accanto alla pila di panni si spiegò. Vidi un rettangolino cadere volteggiando fino a toccare terra. Mi avvicinai e lo raccolsi. Era una foto. Vi erano raffigurate due ragazze, una poco più grande dell'altra. Victoria ed Emily Hetfield. Mamma. Di nuovo il calore mi pervase il volto. Era così bella...così diversa dame. I capelli biondi che solitamente teneva legati in uno chignon alto erano sciolti e le ricadevano sulle spalle in grossi boccoli morbidi. I suoi occhi erano di un azzurro vivo e luminoso, la pupilla era quasi totalmente inghiottita dall'iride, le sue labbra erano rosa e soffici con un'insolita forma a cuore. Stringeva zia con foga. il braccio attorno alle sue spalle come a rassicurarla. Pensai che forse era sempre stata l'ancora di salvezza di tutti, la persona a cui aggrapparsi quando qualcosa non andava. Come volevo somigliarle. Avrei voluto avere un quarto della bellezza e un quarto della sua forza. Le lacrime continuavano a scendere lasciando solchi incandescenti. 'No Kimberly, no. Devi smetterla di piangere. Non era ciò che avrebbe voluto tua madre.' Afferrai la foto di mia madre con due mani e tracciai il profilo del volto straordinariamente piccolo di mia madre con un dito. Una lacrima cadde poco distante dal mio dito e non feci niente per asciugare il volto di mia madre,  perché per un attimo pensai che fosse ancora capace di piangere, di provare emozioni. Che era ancora viva. 'Ma non è viva Kimberly, lasciala andare.' Non ricordai nemmeno di averlo pensato ma la mia mano corse alla tasca dei jeans ancora prima che potessi rendermi conto di ciò che stavo per fare. Le mani frugarono all'interno della tasca finché non si strinsero attorno ad un piccolo oggetto di dura plastica e ferro. Estrassi l'accendino dalla tasca portandolo sotto alla foto. Questo era uno dei pochi vantaggi di fumare. La gola mi bruciò implorante per una sigaretta, avevo bisogno di fumare, di sentire l'odore del tabacco nelle vie respiratorie. Sentii di nuovo le lacrime crearmi un fitto strato di nebbia attraverso il quale mi era quasi impossibile distinguere con nitidezza le figure. Avevo quasi diciotto anni ed era non normale ma neanche così strano che avessi questo vizio. Tuttavia non avevo mai avuto il coraggio di dirlo a mia madre poiché ai suoi occhi ero perfetta, ed era come se il tabacco potesse inquinarmi le vene come veleno, ai suoi occhi. Ora non lo avrebbe saputo mai. E non c'era modo di tornare indietro. Le lacrime si ispessirono. Ora era impossibile vedere. Non seppi come ma in qualche modo riuscii a girare la rotella. La foto iniziò a bruciare. I volti di mia madre mia zia a sciogliersi e deformarsi. Poi prese fuoco fino a ridursi in un mucchio di cenere, lo strinsi tra le mani e lo feci scivolare nel ciondolo cavo a forma di sfera che portavo al collo. Così era come se fosse stata sempre con me, in un certo senso.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: LOVE_sucks