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Autore: Minuialwen    06/02/2014    4 recensioni
Ogni azione, assunzione, rituale che abbia un effettivo o presunto valore terapeutico implica delle aspettative di guarigione in grado di influenzare corpo e psiche.
È questo ciò che si intende per "effetto placebo": una serie di reazioni dell’organismo ad uno stimolo o terapia non derivante da veri e propri principi attivi, ma dalle attese dell’individuo.
Una falsa cura, se vogliamo, ma con gli stessi - e a volte più potenti – effetti benefici di una cura reale, anche se artificiali e ingannevoli.
Bilbo Baggins della Contea, Elrond di Gran Burrone e Thranduil di Bosco Atro avranno ognuno a che fare col proprio effetto placebo personale.
[Concepita inizialmente per essere una OS di media lunghezza, si è poi trasformata in una storia suddivisa in più capitoli. Pairing principale: Bilbo/Thorin, con consistenti accenni di Fìli/Kìli e Thorin/Thranduil. Vaghi accenni inoltre di Elrond?/?Elros, Legolas/Aragorn, Erestor/Glorfindel e Lanthir (OC by Enedhil)/Eldarion.
Oltre ai generi indicati in basso, c'è da aggiungere un po' di fluff e anche un bel po' di angst, in particolar modo verso la fine. Sarà riservato un certo spazio anche ai fratelli di Thorin: Dìs e Frerin.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bilbo, Fili, Kili, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: Incest, Spoiler!
Capitoli:
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La seguente storia è coperta da licenza creative commons. È pertanto assolutamente vietato copiare l’intero contenuto o parti di esso altrove senza il mio specifico consenso.
 
Disclaimer: non scrivo a scopo di lucro. I personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e di chiunque altro ne detenga i diritti.
 
Nota dell’autrice: Per scrivere la storia mi sono attenuta strettamente (per quanto una storia slash lo permetta) alle informazioni contenute ne Il Simarillion, Lo Hobbit e le Appendici de Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Poco altro è stato invece ricavato dagli adattamenti cinematografici di P. Jackson.
In virtù di questo, nella mia storia Kìli non sarà ferito e anziché rimanere ad Esgaroth, insieme al resto della compagnia giungerà vivo ed incolume ad Erebor.
La stessa motivazione giustifica l’assenza di Tauriel (OC creato da PJ & Company.) Al suo posto, come Capitano delle Guardie di Bosco Atro ci sarà Lanthir (OC di Enedhil che ha spopolato nel fandom e che personalmente adoro!) Più informazioni su di lui, nel caso in cui qualcuno/a di voi non lo conoscesse ancora, saranno fornite nel capitolo in cui apparirà.
Commenti e critiche costruttive sono sempre bene accetti ^_^
Vi auguro una piacevole lettura,
vostra Minu
 
 
 
Effetto Placebo

**Prima Parte**

 
 
 
Da quanto tempo si era liberato dell’Anello?
Quanti giorni, o mesi, erano trascorsi da quando, dentro si sé, era riuscito a trovare la forza di allontanarsene una volta per sempre?
 
Ricordava, Bilbo, di come lanciandogli un’ultima occhiata, un’ondata di smania l’aveva pervaso: un senso di frenetico, malato accanimento che l’aveva costantemente accompagnato nell’arco degli ultimi sessant’anni della sua vita.
L’oggettino dorato che aveva custodito nella tasca del suo panciotto per sei intere decadi, giaceva immobile sul pavimento, davanti alla soglia di casa Baggins, dopo che una forza più potente di quella che l’aveva soggiogato al terrore di separarsi dal gingillo, aveva guidato la sua mano.
Con fermezza, con caparbietà, quella forza accorsa improvvisamente in suo aiuto, l’aveva spinto, un secondo dopo l’altro, a schiudere il pugno, ad inclinare il palmo e a lasciare che l’Anello scivolasse via dalla sua presa e dalla sua anima.
Non senza una punta di vergogna rammentava di come, per un attimo, aveva avvertito la volontà vacillare e le gambe cedere, nel bisogno spudorato che l’avrebbe costretto in ginocchio, davanti allo stregone, a lanciarsi sul cerchio di metallo come un viandante assetato sull’acqua nel deserto. Ma, ancora, ecco che quella forza accorreva nuovamente in suo aiuto: una calma rasserenante che si espandeva placida nel suo petto, regolarizzandone il battito impazzito; e lui, allora, si era finalmente potuto permettere di tirare un sospiro di sollievo, inspirando a pieni polmoni l’aria fresca della sera.
Gli aveva voltato le spalle, una volta per tutte, e nel farlo quasi non riusciva a credere alle sue stesse azioni.
 
Poi era andato a stare a Gran Burrone per qualche tempo e da allora, ogni giorno che era passato, l’aveva avvertito su di sé come cento. Debilitato nel fisico come se in poche ore avesse compiuto le fatiche di un intero mese, ma sollevato finalmente di poter dare un senso a quel suo sentirsi sottilecome il burro spalmato su troppo pane – e grato, al di sopra di qualunque altra cosa, della consapevolezza che, finalmente, lo stava facendo riemergere dall’abisso desolato della sua anima, vera e oscura dimora di Bilbo Baggins da quando il mai fu Re sotto la Montagna aveva esalato l’ultimo respiro…
La morte stava infine sopraggiungendo anche su di lui e mai, durante i primi cinquantun anni della sua vita, prima che il suo destino si legasse indissolubilmente a quello di Thorin Scudodiquercia, avrebbe pensato che potesse avere un sapore tanto dolce.
 
“So che sei stato tu a darmi la forza di liberarmene una volta per tutte!”
 
Parlava, Bilbo, come se si rivolgesse ad un immaginario interlocutore o - agli occhi di chi avesse assistito a tale scena - come se stesse esprimendo i suoi pensieri ad alta voce.
 
“Saresti potuto arrivare con qualche annetto d’anticipo, sai? Non mi sarebbe affatto dispiaciuto potermi risparmiare qualche anno d’acciacchi, così come, d’altronde, non mi sarebbe dispiaciuto avere la possibilità di poter vivere il resto della mia vita accanto a te, brutto testone di un Nano!”
 
A questo punto, all’ipotetico spettatore che si fosse ritrovato calato nel contesto, sarebbe venuto spontaneo pensare che Bilbo non stesse solamente esprimendo i suoi pensieri ad alta voce, ma che, probabilmente, non avesse tutte le rotelle apposto.
 
In realtà, da quando Thorin se n’era andato onorevolmente - combattendo per la patria ritrovata, ma gettando Bilbo in una feroce disperazione – il “non più rispettabile Hobbit” aveva iniziato ad avvertire accanto a sé una presenza che non l’aveva più abbandonato. Da allora non fu mai in grado di dire con certezza se si trattasse di una sensazione veritiera o se, piuttosto, interloquendoci con una cadenza che era pure alquanto regolare, stesse man mano progredendo verso una pazzia senza scampo. Il cuore però gli aveva sempre urlato che non poteva sbagliarsi poiché quella forza emanava la stessa energia che sentiva sprigionarsi da Thorin ogni qualvolta gli fosse stato abbastanza vicino da poterlo toccare e…durante il viaggio verso la Montagna Solitaria – vera, unica e sciocca motivazione per cui, agli occhi della sua gente, Bilbo risultava non più rispettabile - lui e l’erede della stirpe di Durin non si erano limitati soltanto a quello…
 
Quando si era svegliato, il mattino successivo all’invasione della sua casa da parte di tredici Nani che, dal nulla,  gli avevano offerto di seguirli in una missione potenzialmente suicida; non trovandoli più, si era precipitato ad inseguirli.
Nell’esatto momento in cui aveva realizzato che la compagnia aveva levato le tende, la sua parte Baggins aveva preso a scontrarsi con la sua parte Tuc poiché se l’una aveva tirato un sospiro di sollievo, meditando, come sempre, sulle leccornie che si sarebbe potuto preparare per la colazione, l’altra aveva iniziato ad agitarsi nella smania di preparare i bagagli il più in fretta possibile.
Alla fine lo scontro era stato vinto dalla sua parte Tuc, ma solo dopo essersi ritrovato tra le braccia di Thorin ne aveva capito a pieno il motivo. Non era solo la voglia  - in lui innata sin dall’infanzia, ma messa a tacere dalla comodità della conformazione alle regole sociali - di evadere i confini dell’ordinario e la pacatezza di una vita abitudinaria. Ciò che più di ogni altra cosa era stata decisiva nel spingerlo fuori dalla porta, era stata la paura di non rivedere più quei magnetici e penetranti occhi azzurri che, soltanto la sera prima, si erano posati su di lui.
 
Mai come in quel momento si era sentito più piccolo, timido e impacciato di quanto in realtà fosse.
 
Subito dopo aver aperto la porta della propria casa, all’ennesimo suonare del campanello, si era inspiegabilmente sentito avvampare. Uno sfarfallio all’altezza dello stomaco gli era rimbalzato in gola, facendogli perdere qualche battito e colorandogli le guance fino alla punta delle orecchie.
Abbassare lo sguardo verso il pavimento era stato un gesto talmente spontaneo da non accorgersene nemmeno mentre, in modalità altrettanto automatica, la sua intera persona si scansava di lato per permettere all’ultimo Nano presentatosi davanti alla sua casa, di accomodarsi all’interno.
 
“Mastro Baggins permettimi di presentarti il capo della nostra compagnia…” aveva esordito Gandalf, con un tono di voce che tradiva la non proprio velata intenzione di toglierlo dall’impaccio di continuare a fissarsi i piedi “Thorin Scudodiquercia.”
 
A stento aveva recepito il suono della voce dello stregone perché, nell’esatto momento in cui aveva incrociato lo sguardo di colui che gli era appena stato presentato – tra tutti, quello dall’aspetto più maestoso e dal portamento fiero e regale – ogni cosa era passata in secondo piano. La casa stracolma di Nani che, oltre a non aver mai visto e conosciuto prima, gli stavano letteralmente saccheggiando la dispensa; per non parlare del fatto che, in tutto quel marasma, ancora non aveva capito un accidenti del motivo di quell’improvvisa ed inaspettata incursione notturna!
 
Quando, un’ora dopo, i piani erano stati svelati e ogni dettaglio più o meno discusso, Bilbo non sapeva se sentirsi più inadeguato per il ruolo di scassinatore che gli stavano offrendo o per il modo con cui Thorin continuava a scrutarlo: dall’alto in basso – e senza la benché minima preoccupazione di non farsi notare – come se cercasse di leggergli dentro e di scrutare tra i recessi più profondi della sua anima.
 
Quella sera, dopo essersi preparato una tisana rilassante per via delle descrizioni ben poco rassicuranti a proposito di Smaug il terribile, Bilbo si era addormentato cullato dalle voci dei Nani, radunatisi nel frattempo davanti al camino del suo soggiorno. Un canto profondo, il loro, che raccontava del dolore e dell’esilio di un popolo e del ricordo mai sopito di un’incendiaria desolazione che aveva cambiato per sempre le loro vite.
 
Al risveglio, e nel più completo imbarazzo, l’intensità con cui durante la notte aveva sognato di Thorin era ancora chiara e vivida dentro di lui. Il viso del Re lo sovrastava da un’insolita posizione perché – e qui Bilbo non poté fare a meno di avvampare - i loro corpi si trovavano l’uno sopra l’altro. Ciocche intrecciate di capelli scuri gli solleticavano il volto e benché gli occhi azzurri del Nano lo fissassero seriamente, al loro interno non c’era né biasimo, né sfiducia. Solo un’infinita ed inconsueta dolcezza mentre, carezzandogli il viso, Thorin gli sussurrava “…sarò sempre con te…”
Lui, allora, aveva chiuso gli occhi, spingendo la guancia contro il palmo di quella mano, ma quando anche la sua era salita con l’intenzione di stringergliela nella propria, tutto ciò che aveva afferrato era stata solo aria. Sentendosi mancare, aveva riaperto gli occhi di scatto e con sgomento aveva osservato impotente il paesaggio tutt’attorno farsi di un colore sfocato, indefinito, come se una luce abbagliante rendesse vago ogni contorno. Sullo sfondo di quel non-luogo aveva potuto percepire distintamente una cosa soltanto: le placide onde di un mare cristallino, una baia racchiusa tra fini pareti di roccia scoscesa oltre le quali la sagoma di Thorin si faceva via via sempre più confusa…
 
Quando s’era destato nel silenzio della propria casa, realizzando che lo stregone e i tredici, inaspettati ospiti se n’erano andati senza aspettarlo; la sensazione di vuoto iniziale s’era fatta ancora più pungente. Sulle prime aveva cercato di non farci caso, ricacciando indietro non solo quel senso d’incompletezza che aveva preso ad aleggiargli sul petto, ma anche lo strano sogno che aveva fatto e, con esso, il ricordo inebriante della possenza di quel corpo contro al proprio. Una sensazione talmente reale da far male, come se, senza, niente avesse più potuto avere alcun senso…
Era stato in quell’esatto momento che la sua parte Baggins era accorsa in suo aiuto, suggerendogli che in quel suo continuo ed inutile rigirarsi per casa, ancora non aveva fatto neanche la prima colazione!
Il tempo di fare un unico, piccolo passo in direzione della cucina che, all’improvviso, la sua parte Tuc lo aveva assalito, costringendolo a fare dietro front e a buttare alla rinfusa i primi abiti che gli capitavano a tiro dentro ad una sacca che, da chissà quanti anni, giaceva dimenticata sul fondo di un armadio.
Nessuna domanda, nessun ripensamento. In testa un unico pensiero fisso: raggiungere la compagnia di Thorin Scudodiquercia il più in fretta possibile.
 
Così era iniziata la sua personale avventura per il mondo e proprio come gli aveva predetto lo stregone, al ritorno non sarebbe più stato lo stesso Bilbo Baggins di allora.
 
All’inizio del viaggio si era limitato ad adeguarsi alla vita di gruppo e sopra ad ogni altra cosa, al cucinare e al dormire all’aria aperta. Cucinare all’aperto non era poi così terribile, considerando che erano i Nani a trasportare il peso delle provviste e ad occuparsi di trovare la legna per il fuoco. Inoltre, anche se non era esattamente lo stesso, mangiare all’aria aperta gli faceva venire in mente le numerose feste che si organizzavano ad Hobbiville durante la primavera e l’estate.
Era il dormire all’aperto che si era rivelata una questione piuttosto complicata, almeno durante i primi tempi. Tra Nani che russavano come se in cielo ci fossero state intere sinfonie di tuoni, sassi e radici che si infilavano in ogni vertebra della schiena, rumori sinistri che echeggiavano da qualche angolo sperduto di un circondario sempre più inospitale e, per finire, strani, equivoci ansiti e fruscii provenienti dal giaciglio dei due nipoti di Thorin; riuscire a dormire, molto spesso, risultava un’impresa quasi impossibile.
 
Sin dall’inizio Bilbo era rimasto particolarmente affascinato dai due giovani Durin: l’uno l’esatto opposto dell’altro in quanto ad aspetto fisico, ma entrambi belli come due raggi di sole a testimonianza della nobile stirpe dalla quale discendevano.
Fìli, il maggiore tra i due ed erede al trono subito dopo Thorin, aveva una cascata di capelli biondi come l’oro; una tonalità che aveva ereditato dal padre e che, come Bilbo venne a sapere in seguito, era piuttosto rara da trovare tra i Nani. Per la maniera in cui gli scendeva sulle spalle però – in morbide onde vaporose – ricordava molto quella dello zio. Gli occhi assomigliavano a due gemme che, rispetto a quelli più chiari di Thorin, parevano due spicchi di cielo estivo che – così come aveva sentito dire da Kìli – erano stati strappati dalla volta celeste per essere incastonati nel gioiello più splendente di Moria ed Erebor insieme.
Fiero, regale e apparentemente più pacato rispetto a suo fratello minore Kìli; Fìli sembrava incarnare alla perfezione tutti i requisiti necessari ad innalzarlo al ruolo di principe ereditario.
Kìli, più piccolo di cinque anni rispetto a Fìli, sembrava avere l’argento vivo addosso. Bilbo se n’era reso conto sin dal momento in cui, assieme al fratello, si era presentato davanti alla sua casa, appellandosi a lui come “Signor Boggins” e introducendosi all’interno senza attendere alcun invito.
Poco più alto di Fìli, Kìli aveva capelli e occhi scuri. Ciocche castane leggermente più chiare rispetto a quelle di Thorin, gli scendevano ribelli e disordinate oltre le spalle, prive di trecce e ornamenti tipici della sua gente. A parte un piccolo fermaglio di mithril intarsiato che, identico a quello di Fìli e nella medesima posizione gli fermava due ciocche di capelli dietro alla testa; Kìli sembrava non poter tollerare nient’altro. Per tutta la vita, sin da quando era solo un nanetto dai capelli impossibili da domare, aveva fatto di quel fermaglio il solo ornamento tollerabile poiché, assieme a quello di Fìli, erano stati forgiati da Thorin in persona, fusi col metallo di un ornamento da barba del loro scomparso padre, caduto onorevolmente durante una battaglia di tanti anni prima, quando Kìli aveva appena due anni.
La sua espressione vivace culminava in uno sguardo che era sbarazzino per la maggior parte del tempo, ma che, nell’attimo che stava a precedere uno scontro, era in grado di assumere una tale freddezza che, al solo ricordo, Bilbo non poteva fare a meno di rabbrividire.
Infine, rispetto a tutti gli altri Nani della compagnia, Kìli possedeva solo un minimo accenno di barba rada a colorargli vagamente il volto; motivazione, quest’ultima, per cui lo si sentiva spesso lamentarsi. Tra i Nani, infatti, una barba abbondante e ben curata era considerata motivo di orgoglio; fatto stava che ogni singola volta in cui, qualcuno dei loro compagni o lo stesso Kìli tirava in ballo la questione, Fìli, senza neanche rendersene conto, correva al fianco del fratello e lo prendeva sotto braccio come per consolarlo o difenderlo da chissà quale gravissimo pericolo imminente! Nonostante l’apprensione però, spesso capitava che non gli dicesse nulla, limitandosi a stringerlo a sé con forza e senza che per questo destasse clamore alcuno tra gli altri Nani, abituati com’erano a vederli sin da piccoli costantemente appiccicati l’uno all’altro. Altre volte invece - complice l’udito fine che, in quanto Hobbit,  possedeva per natura - Bilbo aveva sentito chiaramente Fìli rivolgersi a Kìli con un tono di voce dolcissimo mentre gli sussurrava all’orecchio smancerie tipo “per me sei bellissimo così”, “non esiste tesoro più splendente di te” o “al diavolo le vecchie credenze! Con o senza barba sei il più bel Nano che Erebor, Moria, i Colli Ferrosi e le Montagne Azzurre abbiano mai visto!”
Non c’era proprio nulla da fare: che Fìli lo volesse o no, tutta la compostezza che di solito esibiva andava a nascondersi da qualche parte molto lontano quando si trattava di Kìli e, pur contro a tutti i princìpi che gli erano stati inculcati sin dalla più tenera infanzia – in quanto primogenito, con molta più autorità rispetto a quella che era stata utilizzata con Kìli – si lasciava trasportare molto spesso dall’indomabile esuberanza del fratello minore.
Tanta era la sua vitalità che neanche quando dormiva, Kìli riusciva ad essere posato, anzi! Durante il sonno tutta quell’energia si esprimeva nell’assunzione di pose a dir poco impossibili e tutte, rigorosamente, addosso a Fìli.
 
Inizialmente, Bilbo aveva pensato che fosse un’usanza tipica dei Nani quella di dormire, tra fratelli, nello stesso letto o giaciglio; solo che, sebbene fossero tutti imparentati tra di loro – ad eccezione di Bofur, Bombur e Bifur che, invece, appartenevano ad un clan diverso dai Durin – e seppur ci fossero altre coppie di fratelli presenti nella compagnia – come ad esempio gli stessi Bofur e Bombur, Balin e Dwalin o anche Oìn e Gloìn – ognuno di loro dormiva per conto proprio. Certo, poi c’erano Dori, Nori ed Ori che - ad esclusione di Nori il quale, a differenza degli altri due fratelli, aveva sviluppato un’indole più indipendente – stavano sempre appiccicati a loro volta. O meglio: Dori, il maggiore dei tre, si comportava con Ori - il Nano più giovane di tutta la compagnia – come una chioccia coi suoi pulcini, mentre quest’ultimo si limitava a subire passivamente il suo modo di fare. Bilbo non ci mise molto a capire, poco più in là nel tempo che, inconsciamente, Dori riversava su Ori la frustrazione del fallimento ottenuto nell’educazione di Nori.
Appartenenti alla stirpe di Durin per parte di madre, ma figli di tre padri differenti, quando la loro opulenta ed egocentrica genitrice era scomparsa prematuramente, era toccato a Dori rimboccarsi le maniche ed assumersi la responsabilità di tirar su i due fratelli minori. Solo che Nori era diventato un ladro di professione e nonostante il disperarsi di Dori che, seppur con meno attaccamento di quello che manifestava con Ori, continuava a riprenderlo e a cercare di riportarlo sulla retta via; non riusciva proprio a fare a meno di rubare qualunque cosa che, apparentemente, avesse un minimo di valore. A tutti i suoi compagni di viaggio – specialmente a Dori, e non erano esclusi neanche Gandalf e Thorin - il contenuto dell’erba pipa nei loro sacchetti si assottigliava con più rapidità del normale. A Gran Burrone era sparito un antico candelabro d’ottone appartenente alla collezione privata di Sire Elrond. A casa di Bilbo, due soprammobili d’argento massiccio che si trovavano sopra la mensola del camino, si erano improvvisamente volatilizzati. Bilbo lo venne a sapere soltanto dopo che furono riusciti a scappare dalle prigioni di Re Thranduil, su confessione non proprio spontanea di Nori, considerando lo sguardo truce che, in lontananza, Dori continuava a tenere puntato addosso al fratello; ma non li ebbe mai indietro poiché finirono assieme al denaro consegnato a Bard per pagargli il traghettamento fino alla città di Esgaroth.
Paradossalmente – ricordava di aver pensato in quel momento - il fatto che Nori avesse rubato in casa sua, si era rivelato un gran colpo di fortuna, poiché era stato proprio il peso di quei due soprammobili ad essere decisivo sulla contrattazione del passaggio; e, ancor più paradossale, era il fatto che in tutta onestà – cosa che il Bilbo di qualche mese prima non avrebbe mai e poi mai immaginato – di quel furto non gliene importava un accidenti!
 
Così, tornando ai due giovani Durin ed andando per esclusione, lo Hobbit aveva continuato ad ipotizzare che, molto probabilmente, Fìli e Kìli dormissero ancora insieme per via della loro giovane età, ma era stato involontariamente smentito da Dwalin che - cugino in terzo grado di Thorin, e dunque cugino in quarto grado di Fìli e Kìli, poteva permettersi una certa autorità nei loro riguardi - una sera, prima di coricarsi, li aveva ripresi con un sonoro “alla vostra età io e Balin già non dormivamo più insieme da almeno un paio di decenni!”
Al che Kìli si era stretto ancora di più a Fìli, senza rispondere nulla, ma portando - con una certa stizza – fin sotto al proprio mento e a quello di suo fratello, la pesante coperta doppia che proteggeva il loro riposo sin da quando erano due nanetti e che Dìs - madre amorevole e sorella minore di Thorin, oltre che suo flagello - aveva riposto in una delle loro sacche assieme al resto delle altre cose che si erano portati appresso per il viaggio.
Fu proprio per via di Dìs che, sebbene avesse assistito a tale scena, Thorin aveva lasciato ampiamente correre. Nonostante la sua proverbiale rigidità su determinate questioni infatti, il capo della compagnia, sul fatto che i suoi due nipoti continuassero ancora a dormire insieme nonostante gli ottantadue e i settantasette anni suonati – circa diciannove e diciott’anni se rapportati all’età degli Uomini - non aveva mai avuto nulla da obiettare…
Ovviamente, Thorin Scudodiquercia, non avrebbe mai rivelato a nessuno – a parte, più in là nel tempo, ad un alquanto divertito Bilbo – che il solo pensiero di incappare nelle ire della sorella per aver impedito ai suoi due piccoli di perpetrare un’abitudine che conservavano sin dalla più tenera infanzia – e sulla quale lei non aveva assolutamente nulla da obiettare – lo faceva a dir poco sudare freddo.
 
E così non era passata notte in cui Bilbo non avesse avvertito all’improvviso gemiti trattenuti ed ansiti a stento soffocati provenienti dall’unico giaciglio doppio di tutta la compagnia – sì perché, nonostante il comportamento da chioccia, Dori non aveva pensato a portare con sé un giaciglio doppio, limitandosi, suo malgrado, a dormire accanto al fratello più piccolo - e preparato, ogni sera, negli angoli più discostati dal resto dell’accampamento. 
 
I suoi dubbi in merito furono sciolti verso la fine di un pomeriggio, poco prima di guadare il Fiume Bianco, nei pressi di Gran Burrone.
In vista del tramonto, Thorin e Gandalf avevano convenuto di fermarsi in una piccola radura tra gli alberi e di proseguire il viaggio l’indomani, alle prime luci dell’alba. Fìli e Kìli si erano subito offerti volontari per andare a cercare la legna per il fuoco. Al che, piuttosto che stare con le mani in mano e continuare a sentirsi in imbarazzo per lo sguardo indagatorio di Thorin puntato addosso, Bilbo si era alzato e afferrando una delle pentole si era dileguato con la scusa di recuperare l’acqua per la cena.
Incamminandosi nella direzione in cui, a poca distanza, sentiva scorrere il fiume, continuò a rimuginare sulle inconsuete sensazioni che gli sguardi di Thorin gli provocavano. Perso com’era nei suoi pensieri, si accorse della scena che gli si era parata dinanzi soltanto all’ultimo momento e, se per una frazione di secondo lo sbalordimento provato gli impedì di compiere qualsiasi movimento, l’attimo successivo, e il più silenziosamente possibile, s’era già acquattato dietro ad un basso cespuglio di felci.
 
Con la schiena appoggiata contro al tronco di un albero, Kìli si stava stringendo al fratello in un abbraccio a dir poco possessivo. Una delle sue mani era sparita sotto la pesante giubba di Fìli, mentre l’altra era affondata nei suoi capelli, all’altezza della nuca. Tale era il trasporto del bacio che si stavano scambiando da non accorgersi, imprudentemente, di tutto ciò che stava loro attorno, compresi un paio d’occhi indiscreti e curiosi che, dal loro nascondiglio, non potevano fare a meno di continuare, rapiti, ad appropriarsi indebitamente di quella scena.
Gli ultimi raggi di sole filtravano dalle alte fronde degli alberi e la luce crepuscolare che si irradiava tra i capelli dei due fratelli faceva sembrare quell’unione oro ed ambra colati che, stringendosi e cercandosi, cercavano di fondersi tra loro.
 
Bilbo si decise infine a distogliere lo sguardo e ad allontanarsi furtivamente da lì soltanto quando il calore che aveva preso a bruciargli nel basso ventre iniziò a farsi insopportabile; ovvero nel momento in cui le labbra di Fìli scesero, passionali, a baciare il collo di Kìli mentre una delle sue mani, strappandogli un gemito, aveva preso a strusciarsi tra le sue gambe.
 
Dopo essersi distanziato di un bel po’ dal luogo del misfatto e vergognandosi come un ladro, Bilbo aveva proseguito a muoversi in direzione del fiume. Incontratene la sponda, sulle prime pensò che se non avesse fatto tanto freddo, prima di recuperare l’acqua per la cena, si sarebbe volentieri fatto un bagno – anche con tutti i vestiti addosso - per cercare di spegnere, almeno in parte, l’incendio che gli era divampato dentro.
Arrivati a quel punto inoltre, ciò che più lo stupì non fu tanto il fatto che quelle brucianti sensazioni andassero di pari passo con l’immagine di Thorin che continuava ad apparirgli nella mente, quanto il rendersi conto che nonostante sapesse benissimo che Fìli e Kìli fossero non solo entrambi appartenenti al genere maschile, ma anche e soprattutto fratelli di sangue, anziché scandalizzarsi o giudicarli male, tutto ciò che la sua mente riusciva ad articolare era un’unica considerazione riassumibile in un trasognato ‘…bellissimi…’
Con tutta probabilità – e nonostante fosse passato a malapena un mese da quando, con la fretta di un indemoniato, aveva abbandonato la propria stabile, prevedibile vita per andarsi ad impelagare in una missione potenzialmente suicida – gli sovvenne che il cambiamento a proposito del quale aveva parlato lo stregone, era già progredito di parecchio e il tutto senza che lui neanche se ne accorgesse. O forse, continuò a rimuginare immergendo la pentola nella corrente e facendo attenzione a dove mettesse i piedi, in fondo era sempre stato così e se ne stava accorgendo solo ora che si trovava a miglia e miglia di distanza dalla comunità in cui viveva e dove – da quando era diventato adulto - aveva sempre prestato la massima attenzione alle facciate di apparenza che stabilivano i ruoli sociali di ognuno.
 
Rincamminandosi per tornare all’accampamento, si chiese se Thorin fosse a conoscenza di quella decisamente alquanto particolare e delicata questione riguardante i suoi nipoti…
Ovviamente non aveva nessuna intenzione di chiederglielo direttamente, né tantomeno - ponendo che non ne sapesse nulla - sarebbe stato lui a metterlo al corrente della cosa! L’istinto però gli diceva che, con ogni probabilità, avendoli cresciuti come un padre, egli sapesse tutto ciò che c’era da sapere su quelle due adorabili canaglie e che, per pudore o affetto, facesse solo finta di esserne all’oscuro per poterne mantenere meglio il segreto.
Qualche mese più tardi la conferma positiva alle sue supposizioni l’avrebbe avuta spontaneamente dal diretto interessato, ivi compresa la motivazione del suo silenzio. Non condivideva, gli aveva detto, non solo perché erano fratelli, ma soprattutto perché, un giorno, Fìli sarebbe dovuto diventare re e il trono accanto al suo sarebbe stato occupato da una regina. Allora sia lui che Kìli avrebbero sofferto enormemente, ancor meno liberi rispetto a prima di poter vivere il loro amore alla luce del giorno. Ciononostante non poteva impedir loro di amarsi, anche perché imporsi in tal senso sarebbe stato del tutto inutile e avrebbe finito col ricavarne soltanto ulteriore e prematura sofferenza.
Poi però Thorin aveva troncato l’argomento, liquidandolo con un secco “ma c’è ancora tanto tempo davanti a tutti noi prima che queste preoccupazioni diventino problemi reali! Finché possono, è mio desiderio che Fìli e Kìli siano felici il più a lungo possibile…”
Sul finire del suo discorso, Bilbo aveva avuto l’impressione che il Nano soffermasse lo sguardo su di lui un po’ più a lungo del necessario, come se, con quelle parole, non intendesse riferirsi specificatamente soltanto ai suoi due nipoti…
Inutile dire che la cosa lo aveva mandato immediatamente nel pallone più completo per via delle troppe sollecitazioni manifestatesi tutte insieme. Imbarazzo, battito accelerato, rossore estremo, improvvise vampate di calore, incapacità di aprir bocca senza farne uscire frasi sconnesse e pressoché insensate.
Ancora una volta, per l’ennesima volta, con una scusa qualunque lo Hobbit non riuscì proprio a fare a meno di allontanarsi dalla fonte di ogni suo più profondo tumulto interiore…
 
Dopo quel breve incidente di percorso – ovvero la scoperta inaspettata in cui Bilbo si era imbattuto suo malgrado – il viaggio verso la Montagna Solitaria era ripreso tra innumerevoli intoppi e peripezie. Lungo la via, si erano imbattuti in un gruppo di troll avventuratisi fin dove normalmente non avrebbero mai osato metter piede e, per poco, non finivano a far loro da cena. Mentre una metà dei Nani girava legata ad un enorme spiedo, l’altra metà era stata ammonticchiata in un angolo come sacchi di patate, in attesa che arrivasse anche il loro turno di finire arrosto.
Temporeggiando con storie a proposito di quali fossero i condimenti più azzeccati per cucinare bene un Nano ed altre inerenti ad infestazioni di parassiti nelle loro…tubature, Bilbo aveva saputo protrarre il suo gioco fino all’alba, momento in cui, grazie al provvidenziale intervento di Gandalf, i troll erano stati trasformati in pietra. Nelle loro cavarne avevano scoperto grandi quantità di tesori – molto probabilmente bottini sottratti ad ignari viandanti attaccati durante le ore notturne – ma tra gli oggetti più belli spiccavano senza dubbio due antichissime spade di fabbricazione elfica, forgiate nella città scomparsa di Gondolin, dagli Alti Elfi della prima era. Glamdring, l’Abbattinemici, della quale si appropriò Gandalf ed Orcrist, la Fendiorchi, di cui s’impossessò Thorin. In mezzo ad esse venne ritrovata anche una piccola daga elfica la cui lama, come le altre, aveva la particolarità d’illuminarsi di blu quando c’erano orchi nelle vicinanze. Venne affidata a Bilbo che, poco più in là, dopo aver avuto a che fare con i ragni giganti di Bosco Atro - i quali credevano che lo Hobbit avesse un pungiglione con cui li infilzava - le diede nome Pungolo. Fu ben lieto di battezzarla a quel modo – con un nome cioè che non fosse particolarmente altisonante come per le altre due, ma che suonasse piuttosto come un termine tipicamente hobbit, anche se non per questo meno nobile – soprattutto dopo che Balin ebbe a definire la sua daga molto più simile ad un tagliacarte che ad una spada. In quell’occasione, il vecchio Nano gli aveva spiegato che le armi prendevano il nome dalle grandi azioni compiute in battaglia tramite di esse, motivo per cui quella che era stata affidata a lui, vista la scarsa mole, non poteva certo aver mai avuto nessun nome.
Ebbene – considerò Bilbo subito dopo aver salvato tutti i suoi compagni proprio grazie a quella piccola spada – un nome adesso proprio lo meritava e vista l’impresa compiuta tramite di essa, non avrebbe potuto darle nome migliore di Pungolo!
 
Ripresa la marcia, il loro cammino si era poi incrociato con quello di Radagast il Bruno, un altro degli Istari e cugino di Gandalf, che li aveva messi al corrente di strani fenomeni verificatisi a Dol Goldur, la vecchia fortezza abbandonata ai margini sudoccidentali di Bosco Atro.
Poco dopo, sulle steppe che circondavano Gran Burrone, erano scampati ad un inseguimento di orchi e mannari incaricati di mettersi sulle loro tracce e, a loro insaputa, guidati da Gandalf, avevano trovato riparo presso gli Elfi di Sire Elrond.
La meraviglia che lo colse nel momento in cui, fuoriuscito dalla stretto corridoio di roccia che, a mo’ di passaggio segreto conduceva dalle steppe alla valle, fu talmente grande da lasciare Bilbo a bocca aperta per almeno una manciata di minuti. Il regno di Imladris – Gran Burrone nella lingua corrente – si ergeva a picco sulla valle come una città incantata. Sospesa su degli speroni di roccia a ridosso del Fiume Bruinen, le costruzioni dall’elegante e sinuosa architettura elfica s’incastravano alla perfezione con gli anfratti naturali di ogni più piccolo ruscello che, serpeggiando tra le pareti delle alture e tra i pianali su cui poggiavano le case, si trasformavano in tante piccole cascate che si gettavano nel fiume.
In tutta la sua vita Bilbo non aveva mai visto delle dimore costruite non solo con così tanta armonia rispetto alla natura in cui erano immerse, ma che destassero, solo a vederle, una sensazione di pace interiore e la conseguente necessità di perdersi in essa.
Non così tra i Nani o, almeno, non tra tutti. I più giovani – Fìli, Kìli e Ori – e coloro che non erano originari di Erebor – Bofur, suo fratello Bombur e persino il loro sgangherato cugino Bifur – si guardavano attorno con la stessa meraviglia che brillava negli occhi di Bilbo. Tutti gli altri, in particolar modo Thorin e Dwalin, presero ad avviarsi giù per la valle con evidenti espressioni di malcontento stampate sulla faccia, adottando, contemporaneamente, un atteggiamento circospetto e pieno di tutta la spocchia di cui i Nani, talvolta, sono capaci. Ma a differenza delle torve aspettative sull’accoglienza che avrebbero ricevuto da parte degli Elfi, lì in quel luogo, ad attenderli, trovarono tutt’altro: cibo per gli stomaci mezzi vuoti e riparo per le loro stanche membra.
 
Sin da subito la calma e la tranquillità di cui poterono godere portarono molti di loro a sperare di poter soggiornare presso la dimora di Sire Elrond il più a lungo possibile. Invece, appena qualche ora dopo il loro arrivo, una volta interpretate le antiche rune sulla mappa di Thror e scoperte quelle lunari, seppero che per trovare la porta nascosta che fungeva da accesso secondario alla Montagna Solitaria, avrebbero dovuto trovarsi in quel luogo non più tardi del Dì di Durin.
Quel giorno, secondo il calendario dei Nani, rappresentava l’ultimo giorno dell’anno. Pochi mesi li separavano da quella data: il tempo a disposizione non era molto; tuttavia Thorin e Balin convennero che almeno una settimana di riposo dall’impresa l’avrebbero, e se la sarebbero, potuta concedere.
Fu così che trascorsero pranzi allietati dalla soave musica degli Elfi o, almeno, questo per i primi due giorni. La prima occasione di mangiare tutti insieme infatti, era finita con la pazienza di Re Elrond portata a limiti estremi per via di un pasticcio di verdure che solo per poco aveva schivato il suo volto, andando poi a spiaccicarsi sulla parete alle sue spalle; e con un’ancella altamente stizzita perché Nori, nel bel mezzo del pasto – e dopo aver fatto sparire di soppiatto  il candelabro di Re Elrond nella tasca interna della sua casacca – le aveva detto di cambiare melodia in quanto, più che ad un pranzo, con quella musica sembrava che stessero partecipando ad un funerale! Stranamente, Dori – impegnato fino a qualche attimo prima a cercare di imboccare Ori con una forchettata del cibo prettamente verde che gli Elfi mangiavano e che avevano servito anche ai Nani - non aveva avuto nulla da obiettare. Al che, Bofur, aveva preso in mano la situazione ed era finita con lui arrampicato sopra al tavolo a cantare canzoni folkloristiche di Moria, luogo originario da cui discendevano lui, Bombur e Bifur. Il resto del disastro avevano contribuito a crearlo gli altri Nani, tra cibo che volava, risate sguaiate e posate utilizzate a mo’ di percussioni.
Il giorno dopo ci avevano riprovato; più che altro perché non era minimamente intenzione da parte degli Elfi di Imladris apportare un’onta di disdicevole maleducazione sulla loro proverbiale raffinatezza e signorilità.
Quasi che fosse in competizione con gli Elfi, Thorin – a cui, comunque, nonostante il benvenuto, continuava a non andar giù più di tanto il fatto di aver trovato riparo proprio presso gli Elfi – per tutta la durata del pasto non smise più di lanciare occhiate ammonitrici ad ognuno dei suoi compagni, non appena qualcuno alzava il gomito più del dovuto o si lasciava prendere dall’esuberanza tipica dei Nani in occasione di banchetti e simili. Così, involontariamente, fu Bilbo a dare il colpo di grazia all’apparente calma che si era venuta a creare. Scolandosi un intero boccale di miruvor – un fortissimo liquore elfico – finì col perdere il senso della realtà e, come Bofur il giorno prima, s’arrampicò sul tavolo, intonò una tipica canzone hobbit da osteria e, non pago, iniziò a ballare allegramente, tracannando, nel contempo, il contenuto dei boccali degli altri commensali.
Gandalf, Thorin e gli altri Nani, non sapevano se continuare a far finta di essere pietrificati come gli Elfi presenti o se, piuttosto, scoppiare in una sonora risata. Alla fine fu Kìli a cedere per primo, distruggendo, nello sbottare a ridere, le fragili mura di apparente contegno che il resto di tutta la sua combriccola cercava, miseramente, di tenere in piedi.
Al secondo tentativo fallito, ciascuna delle due parti comprese che non si facevano nessun torto vicendevole se, chiudendo un occhio nei confronti del galateo, ognuno veniva lasciato libero di mangiare per conto proprio. Così, all’ora dei pasti, per il resto della settimana, se da una parte si diffondevano delicate melodie di arpe e flauti traversi, dall’altra risuonava l’allegro vociare dei Nani mischiato a dubbiosi rumori di legna che sfrigolava in un falò.
In realtà, tali rumori, erano tutt’altro che dubbiosi: gli Elfi addetti a risistemare gli alloggi che erano stati concessi ai Nani, scoprirono, quando questi ultimi si furono rimessi in cammino, che lo sfrigolare di legna sul fuoco che era parso loro di avvertire nell’arco dell’intera settimana, non era solo un’equivoca  impressione. I Nani avevano effettivamente bivaccato all’interno del palazzo come se si fossero trovati all’aria aperta, utilizzando, per cuocere parte dei loro stessi viveri e parte del cibo verde degli Elfi, alcuni dei mobili antichi che si trovavano nelle loro stanze e che, a loro giudizio, erano parsi come nient’altro che legname ormai buono soltanto da far ardere.
 
Il giorno successivo, dopo essersi ripreso dalla sbornia, Bilbo aveva passato a letto l’intera mattinata. Gandalf gli aveva portato un intruglio di erbe per ridurre il mal di testa e affievolire la forte sensazione di nausea che lo attanagliava.
Sin da quando si era svegliato, sul fondo di sé aleggiava una vaga consapevolezza di aver fatto qualcosa di eccessivamente stupido o sbagliato, solo che non ricordava esattamente cosa. Lo stregone lo aveva rassicurato dicendogli di non preoccuparsi poiché non aveva fatto né l’una né l’altra cosa. “Semmai” gli aveva confidato “al contrario di noi tutti, impegnati a tenere alta una facciata d’apparenza che non ci appartiene; tu sei stato l’unico ad essere veramente te stesso, ed essere sé stessi non è mai né stupido, né sbagliato.”
“Certo…” aveva soggiunto poi “non v’è dubbio che la tua spontaneità sia stata aiutata e sollecitata dal prezioso miruvor che solo gli Elfi possono bere in grandi quantità senza risentirne eccessivamente; ma…ciò che conta è come sempre il risultato.”
Aveva sorriso, Bilbo, a quelle parole e non appena nel pomeriggio s’era sentito sufficientemente in forze per alzarsi dal letto, ne aveva approfittato per farsi un giro nei dintorni e riempirsi gli occhi ed il cuore della stessa meraviglia che lo aveva colto due giorni prima, quando aveva scorto la magica valle di Imladris dall’alto del passaggio segreto.
 
I colori dell’autunno brillavano alla luce del sole, una lieve brezza non eccessivamente fredda frusciava tra le fronde rosse e dorate degli alberi producendo un dolce mormorio in grado di distendere i nervi e sciogliere qualunque preoccupazione.
Camminò a lungo su stradine e viottoli, attraversò ponticelli elegantemente scolpiti e sospesi su vari livelli della città, scorse passaggi situati dietro alle innumerevoli cascate che si gettavano nel Bruinen sottostante e, allungando le mani, ne bevve l’acqua limpida; finché l’allegro vociare dei suoi compagni lo condusse nei pressi di una grande fontana, dove, inaspettatamente, li trovò tutti  intenti a fare il bagno.
Abiti e stivali erano stati gettati a terra senza cura alcuna ed i Nani, completamente nudi, s’atteggiavano, per la maggior parte, ad un branco di bambini indisciplinati.
Dori, Balin, Oìn e Gloìn si erano messi in un angolo della vasca e con la schiena poggiata contro una delle pareti interne, fumavano tranquillamente la pipa, godendo dell’allegria che si sprigionava dalle risate dei loro compari. Ori sedeva accanto al fratello maggiore, ma a differenza dei quattro anziani del gruppo, era seduto sul bordo della vasca, con soltanto i piedi immersi nell’acqua ed in mano il suo inseparabile taccuino per immortalare la scena in un disegno. Bombur e Bifur si erano arrampicati fin sopra le vasche più piccole, poste in cima alla struttura della fontana, e da lì, mentre il primo si carambolava in acqua provocando delle grosse ondate che avevano sommerso l’intera pavimentazione circostante, l’altro sedeva con soltanto metà del corpo ammollo, le gambe incrociate, i gomiti puntati sul bordo della vasca ed il viso tra le mani. A vederlo sembrava completamente immerso in chissà quali riflessioni e, lì per lì, a Bilbo venne da chiedersi di quanto e in che modo la coscienza potesse essere influenzata dall’avere un’ascia conficcata in testa. Ovviamente non riuscì mai a trovare risposta, a parte quella che sapeva già, ovvero che Bifur aveva perso la capacità di esprimersi nella lingua corrente, conservando intatto il solo uso del Khuzdul, la lingua originaria dei Nani.
Per finire – cosa che più di tutte fece avvampare lo Hobbit e che lo costrinse a filarsela senza farsi vedere – fu la vista del corpo nudo di Thorin.
Il capo della compagnia teneva sulle spalle Fìli il quale, a sua volta, teneva sulle proprie Kìli. A fronteggiarli, sulle spalle di Dwalin c’era Nori e sulle spalle di Nori c’era Bofur.
I sei, al centro della fontana, si sfidavano spintonandosi l’un l’altro e a giudicare dal grido di esultanza lanciato da Kìli, la sfida che Bilbo aveva intravisto poco prima di battere in ritirata, era stata vinta dalla squadra degli eredi al trono.
 
Mentre s’allontanava - preda per metà di un’euforia che stava pian piano imparando a conoscere ogni qualvolta si trattava di Thorin e, per l’altra metà, vittima costante di un imbarazzo che proprio non riusciva a gestire – un sorriso ebete gli increspò le labbra poiché si rese conto con piacere di non aver mai visto Thorin così di buonumore, né, inizialmente, avrebbe mai pensato che un tipo come lui sapesse godere di un momento di svago tanto infantile come quello.
Solitamente, l’autorità di cui era investito, lo portava ad avere un’aurea che se da una parte incuteva un accentuato timore reverenziale, dall’altra induceva chiunque non lo conoscesse più che bene a girare a largo. La sua espressione, oltre che profonda, aveva un che di perennemente rabbuiato e spesso, anziché parlare, indipendentemente da ciò che dicesse, sembrava abbaiare ordini indiscutibili.
Dopo quel breve periodo a Gran Burrone, Bilbo dovette decisamente ricredersi e, la cosa, non fece altro che attirarlo ancora di più verso colui che, a poco a poco, stava inesorabilmente cominciando ad occupare gran parte dei suoi pensieri…
Della sua storia sapeva ovviamente della parte concernente la venuta di Smaug, così come sapeva che da quel momento, Thorin non aveva vissuto un solo attimo senza covare dentro di sé un opprimente desiderio di vendetta per la patria perduta e per tutti coloro che in quel funesto giorno avevano perso la vita.
Tramite i racconti di Balin, inoltre, sapeva anche di tutte le battaglie quotidiane che avevano combattuto da esuli, assieme a ciò che era rimasto del popolo di Durin, fermandosi ovunque si potessero adoperare per guadagnarsi la giornata, durante il loro peregrinare di terra in terra. Fabbri, minatori, maniscalchi, mercenari, cuoche e sarte: ognuno dei sopravvissuti si era rimboccato le maniche come meglio poteva per garantire il sostentamento dei più piccoli, dei feriti e dei più anziani. Poi era venuto a sapere della presa di Moria – uno dei più antichi tra i Regni dei Nani - da parte degli orchi di Azog, e della battaglia che, davanti ai suoi cancelli, aveva visto coinvolti anche i superstiti di Erebor per riconquistarla. In tal modo aveva appreso delle ingenti perdite che, nonostante la disperata vittoria, i Nani avevano subìto quel giorno, della scomparsa di Thror – ultimo Re Sotto la Montagna e nonno di Thorin – delle gesta eroiche da cui traeva origine l’appellativo “Scudodiquercia” e del dolore che si aggiungeva al dolore.
Il vecchio Nano aveva poi proseguito con la parte inerente all’arrivo nelle Montagne Azzurre e gli aveva raccontato della loro nuova casa, di una nuova, agognata stabilità che con immensi sacrifici Thorin aveva saputo ricostruire ed offrire alla sua gente, impegnandosi lui stesso a lavorare nelle fucine degli Uomini che, già da molto tempo prima del loro arrivo, abitavano quei luoghi.
Con un sorriso e con un’ancor profonda, vivida commozione, gli aveva detto della gioia con cui tutti loro avevano accolto la nascita di Fìli, seguita qualche anno dopo da quella di Kìli, a sua volta seguito da Ori e poi da Gimli, figlio di Gloìn, il più piccolo di tutta la combriccola che, per la sua decisamente troppo giovane età – e nonostante il martellante lamentarsi sul fatto di voler comunque andare con loro - era stato lasciato a casa con la madre.
La loro nascita in quel luogo tanto lontano da Erebor – aveva detto Balin – era stata presa a simbolo di una speranza che sorgeva a nuova luce per tutto il popolo di Durin, per questo la venuta al mondo di ciascuno di loro era stata celebrata con festeggiamenti che si erano protratti per settimane.
Infine, le ultime notizie che aveva appreso, avevano a che fare con la misteriosa scomparsa di Thrain – padre di Thorin – nelle Terre Selvagge a ridosso dei confini di Bosco Atro mentre, con una sola guardia al proprio seguito, s’accingeva nell’impresa disperata di rimettere piede ad Erebor. “Non tanto per un desiderio di rivalsa nei confronti della patria perduta” gli aveva confidato Balin in uno slancio forse troppo azzardato di sincerità “ma, a mio avviso, considerata l’inquietudine fissa che, nell’ultimo periodo aveva soggiogato la sua mente; per la smania di rivedere l’oro che gli era stato sottratto dal drago.”
 
Oltre a tutto ciò, c’erano anche altre cose di cui Bilbo era al corrente e non perché qualcuno gliele avesse raccontate, ma semplicemente perché le aveva intuite da solo.
Ad esempio sapeva che Thorin aveva paura di qualcosa e anche se capiva che non era nulla che avesse a che fare con scontri e battaglie, ancora non riusciva a spiegarsi cosa fosse di preciso. Sapeva inoltre che il costante desiderio di vendetta - benché, probabilmente, Thorin non lo avrebbe mai ammesso davanti ad anima viva – era un fardello che lo logorava dall’interno; così come percepiva che l’insofferenza nei confronti degli Elfi non avesse semplicemente a che fare con la risaputa faziosità che voleva le due razze – quella degli Elfi e quella dei Nani – acerrime nemiche tra di loro, né riguardasse il solo fatto che Re Thranduil, sovrano degli Elfi Silvani di Bosco Atro, gli avesse negato il proprio aiuto quando Smaug era improvvisamente piombato su Erebor.
Intuiva, Bilbo, che c’era qualcosa di ben più profondo sotto a quella manifesta ostentazione d’intolleranza, solo che, di nuovo, non sapeva ancora spiegarsi cosa fosse.
Infine, sebbene non lo facesse quasi mai, aveva capito che a Thorin piaceva ridere e a questo pro voleva scoprire cos’altro avesse il potere di rallegrarlo poiché - si disse senza neanche rendersene conto – lui stesso si sentiva felice quando l’altro sorrideva.
  
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