Questa è
colpa della terza stagione.
E prendetevela con Eli e Mars
che mi hanno incitata a pubblicarla.
Grazie a Eli per il betaggio <3
Just
an ordinary evening
« No, pensavano davvero che sarei morto lì » dice John,
sorridendo.
Sherlock aggrotta le sopracciglia. Si sente la testa
leggera. « Davvero? »
« Già » commenta John, finendo quel che rimaneva del terzo
bicchiere di rhum e martini in una sorsata.
Sherlock strizza gli occhi. « Che delusione devi essere
stato per loro, John Watson » dice, sollevando l'angolo destro della bocca in
un'imitazione di sorriso.
« Già » asserisce John, lasciandosi cadere pesantemente
sul suo gomito poggiato al tavolino.
Sherlock ingoia il cocktail del suo bicchiere
velocemente, trasalendo leggermente al retrogusto amarognolo – ormai familiare
– del martini.
Poi si alza, e il movimento gli provoca per un istante
un giramento di testa.
Si avvia verso il bar con un passo incerto.
John lo segue un attimo con lo sguardo, prima di
decidersi a seguirlo – i riflessi rallentati dalla quantità non indifferente di
alcool in corpo.
« Altri due, da portare » ordina Sherlock, preparando
già il portafoglio.
« Ah no, fermo lì » lo blocca John, afferrandogli il
polso. La pelle di Sherlock è fredda, nonostante in quel pub facesse abbastanza
caldo.
Sherlock si blocca e lo fissa. Non osa muovere la mano,
e dopo qualche secondo si libera.
John gli lascia il polso. « È il mio anniversario, pago
io ».
Sherlock alza gli occhi al cielo, ma rimette in tasca
il portafoglio. « Appunto. Ancora non capisco perché sono qui. Non dovresti
passarlo con tua moglie? »
John sospira. Come spiegargli? Non aveva voglia di
stare con Mary quel giorno. Dopo due anni di matrimonio ancora non era riuscito
a perdonarla del tutto. Ma era lì per festeggiarlo, giusto? Con il suo ...
Migliore amico? Dio, non è chiaro neanche
nella mia testa. « Lo festeggiamo domenica » commenta, semplicemente. Non
l'hanno davvero stabilito.
Sherlock, nonostante l'alcool in corpo, non se la beve.
« E lei ha semplicemente acconsentito? »
« Sì. Lo sai che ti vuole bene » nonostante ti abbia sparato. Quelle parole riecheggiano nell'aria
forti e chiare, sebbene non pronunciate. Una semi bugia che focalizza
l'attenzione sul contenuto non detto veritiero, in modo da sviarlo
dall'affermazione che non sa neanche lui se è vera o falsa.
Sherlock si limita a non commentare, guardando altrove.
***
« Quindi come hai conosciuto questo posto? »
« Già stufo del blackout? »
« Era una semplice domanda. »
« Preferisco il buio alla luce stroboscopica di quel
locale, ma se vuoi possiamo rientrare. »
« Era una semplice domanda. »
« È molto vicino a Regent's
Park. »
« Tu non frequenti Regent's
Park. »
« Era per un caso. »
« Come sempre ». John lo dice senza pensarci, prendendo
un sorso dal suo bicchiere.
Sherlock stringe le labbra, la testa piacevolmente
leggera che lo distrae per un attimo dalla risposta di John.
Il vento fresco di primavera fa rabbrividire entrambi,
abituati al calore del pub, e si avvicinano inconsciamente. Entrambi attratti
dalla fonte di calore più prossima, entrambi attratti l'un l'altro, come è
sempre stato, come dovrebbe essere. Come non è.
John prende il bicchiere e lo finisce in un sorso,
strizzando gli occhi per il bruciore alla gola.
Sherlock lo imita, dopodiché si allunga sulla panchina
e lascia cadere le braccia ai lati del corpo.
John ciondola un po' col capo, rilassandosi anche lui,
riflettendo i movimenti del detective.
Rimangono in silenzio per qualche minuto, ascoltando il
chiacchiericcio del pub subito alla loro destra. Le loro spalle e le mani
poggiate sulla panchina quasi si sfiorano, ma nessuno dei due ci fa caso.
È John a rompere il silenzio. « Se potessi tornare
indietro, c'è qualcosa che diresti al tuo te del passato? »
Sherlock aggrotta le sopracciglia e si gira lentamente
verso John. Si limita a fissarlo, sbigottito, desideroso di esprimere la sua
incredulità e le sue obiezioni razionali verso la domanda in talmente tanti
modi che non sa neppure cosa dire prima.
John ricambia lo sguardo. L'alcool in corpo gli
permette di non dare molto peso alla faccenda, quindi scrolla le spalle. « Sì,
cosa ti diresti? » chiede, concentrandosi sul neo sulla fronte di Sherlock.
Sherlock fa un movimento con il capo come per
dissimulare l'assurda e irrazionale
domanda. « Non c'è modo di tornare indietro e parlare con il proprio io
passato, John, non essere assurdo » constata, voltandosi di fronte a sé.
John ci resta male, il punto della destinazione del suo
sguardo attento che scompare da davanti a sé, perciò si volta anch'egli. Incrocia
poi le braccia sul petto. « In una situazione ipotetica », spiega, come se
fosse ovvio.
« Per quale motivo vuoi saperlo? » Non è pronto a
parlare del suo passato davanti a John,
che ha dimostrato di non importarsene poi tanto riguardo quello della moglie,
che sarebbe stato un suo diritto sapere. Non crede sarà mai pronto a farlo.
« Parlavamo di me e dei miei amici, dei tempi dell'università,
perciò mi è venuto in mente. Anche tu devi essere stato non-perfetto, in
qualche periodo della tua vita » dice John, senza pensarci, senza accorgersene.
Perfetto? È questo ciò che pensa John di lui? Che sia perfetto? Sherlock è sbigottito, cerca
di non darlo a vedere continuando a guardare davanti a sé, ma si irrigidisce
impercettibilmente. La perfezione gli ha sempre dato fastidio. « Non sono mai
stato perfetto, non lo sono neanche ora » dice Sherlock, serio. L'alcool gli fa
girare di tanto in tanto la testa, e quando succede è costretto a chiuder gli
occhi.
« Non ho detto questo » commenta John, sorpreso,
voltandosi brusco verso di lui. Il movimento gli provoca un giramento di testa
abbastanza intenso, ed è costretto a chiudere gli occhi e ad appoggiarsi a
qualcosa per far smettere la sensazione di sbilanciamento. Sherlock è
apparentemente la cosa più vicina a
John in quel momento, perciò gli risulta naturale appoggiarsi col gomito sul suo
braccio.
Quando riapre gli occhi, Sherlock è lì e lo sta
fissando, le pupille dilatate a causa dell'oscurità della sera e annebbiate a
causa dell'alcool. « Sì, lo hai fatto » dice solo.
John è troppo poco lucido per controbattere a Sherlock
e cercare di averla vinta, quindi scrolla le spalle e si stacca dall'amico. «
Allora? » chiede, la sua domanda alla quale ora vuole una risposta.
Sherlock si volta lentamente davanti a sé e alza
l'angolo destro della bocca in un'imitazione di sorriso. « Prima tu ».
È il turno di John quello di aggrottare le
sopracciglia. « Ti diresti "prima tu"? » chiede, scettico.
Sherlock rotea gli
occhi al cielo. « No, John, volevo dire "rispondi prima tu".
Parlavamo di te, non di me, mi sembra giusto continuare su quella linea » E poi voglio saperlo.
« Tu sai già tutto di me. »
« Non è vero. »
« Sì che è vero, e se non lo sai puoi dedurlo. »
« Non è vero. »
« Sì che è vero. »
« John. »
In questo scambio di battute si sono voltati lentamente
l'uno verso l'altro, e adesso si ritrovano a guardarsi, a scrutarsi, a dedursi
quanto più possibile nel buio totale di quella via illuminata solo dalla luce
debole della luna, quando questa riesce a penetrare la coltre di nuvole
onnipresente a Londra, e da pallide luci che filtrano dall'interno del locale
dal quale sono usciti.
John sospira quando realizza che se vuole sapere la
risposta alla domanda posta a Sherlock, deve fare come vuole l'altro. Deve
rispondergli per primo.
Poi volta il capo e torna a guardare davanti a sé. «
Okay » acconsente. Lascia andare indietro la testa, lasciandola ciondolare,
chiudendo poi gli occhi. Il vento fresco si infila nel colletto del giubbotto,
e riesce a penetrare dentro la camicia attraverso il collo, e John
rabbrividisce.
Si ricorda di quando, con la stessa testa leggera, si
lasciava andare allo stesso modo sulla panchina più vicina allo squallido pub nella
periferia a sud di Londra che era solito frequentare. La mente che cercava
disperatamente di non pensare, di non pensarci,
e ingoiava sorso dopo sorso, prima di lasciarsi cadere indietro esattamente in
quel modo, esattamente con lo stesso lieve giramento di testa, e si rendeva
conto di cosa stesse facendo. E si diceva di fermarsi, perché lui non lo avrebbe voluto, perché lui gli avrebbe rimproverato questa sua
orribile debolezza così ordinariamente umana. Quindi si rialzava e tornava nel
suo appartamento nuovo di zecca, e si chiudeva in bagno ed aspettava che la nausea
lo sopraffacesse. E giungeva ogni volta, come meccanismo ad orologeria, ed ogni
volta non vomitava nulla, erano solo i crampi allo stomaco a farlo piegare in due
sul pavimento freddo.
John torna con la testa al presente e apre gli occhi, facendo
oggetto del suo sguardo l'oscurità che avvolge tutto ciò che è attorno a loro.
« Mi sarei detto, "tieni duro. Tieni duro perché arriverà il giorno in cui
salverai la tua prima vita, e poi altre, ed altre ancora" » inizia a
parlare John, la voce bassa come a voler fare una confessione che non può
permettersi che semplici passanti ascoltino. « "Tieni duro, perché i
giorni di merda arriveranno. Arriveranno, e ti colpiranno come una pallottola
nella spalla, e tu sarai lì a sanguinare per vivere. Tieni duro, perché
nonostante tutto, passeggerai per i giardini di Russel
Square[1] un
giorno, e verrai salvato. Così tante volte, in così tanti modi differenti.
Verrai salvato e salverai, e sarà la cosa più bella che ti possa capitare"
» continua John, che sembra non essere consapevole di ciò che sta dicendo. È
così naturale farlo, per lui, che non si accorge del fatto che adesso Sherlock
lo stia fissando ad occhi più larghi del normale. Né tantomeno del luccichio a
malapena visibile nell'oscurità. « "Tieni duro, perché tutto andrà per il
meglio. E quando ti sembrerà che tutto andrà per il meglio, ecco che verrai
riportato bruscamente alla realtà, sull'altalena della vita che ha scelto
proprio quel momento per abbassarsi di colpo. E sarà in quel momento che dovrai
avere più forza di tutte le altre volte. Perché niente ti preparerà a quel
dolore, niente potrebbe mai riuscirci nell'impresa. E tu ti sentirai morire
dentro, ancora e ancora, ma dovrai continuare a tenere duro" ».
Sherlock inspira bruscamente dal naso e si volta verso
sinistra, distogliendo lo sguardo da John, appena in tempo per nascondergli la
smorfia che è costretto a fare dai muscoli facciali che pizzicano, pur di non
lasciar sfuggire alcuna lacrima. Espira lentamente dalla bocca, cercando di
esser più silenzioso possibile. Non c'è causa al mondo per la quale non possa
finire di ascoltare quello che John sta dicendo, però, così si volta di nuovo
verso l'uomo accanto a lui, che sta continuando a parlare. Fingendo di non
notare il fatto che gli si sia avvicinato, nel farlo.
« "Tieni duro, perché allora l'altalena tornerà in
alto, e tu sarai tutto ciò che hai sempre sognato essere. Un uomo con una
famiglia, con una moglie, una figlia, degli amici – un amico, uno tra tutti – e semplicemente felice" ». Qui si ferma per qualche istante, meditabondo.
Sherlock, senza realizzarlo, si scosta leggermente e
distoglie lo sguardo da John. Non gli
appartiene, gliel'ha appena ricordato. Non ha alcun diritto di essergli
così vicino. « "Ma tieni duro soprattutto allora, perché non sarà ciò che
tu vuoi davvero. Potrai metterci anni a capirlo, ma lo farai. E allora tutte le
vite che hai salvato, nel corso della tua, dovranno pur servire a qualcosa.
Dovranno pur aggiustare un karma che sembra prenderti perennemente per il culo.
E credici, ragazzo. Credici, perché solo quello ti farà andare avanti." »
conclude, l'ultima parte di quel piccolo monologo mormorata in fretta, quasi
mangiandosi le parole.
Sherlock non si è reso conto, ancora una volta, di
essersi nuovamente voltato. Sta fissando John a bocca aperta, adesso, e non
appena se ne rende conto cerca di darsi un contegno, riuscendoci solo in parte.
John prende un grosso respiro, e sembra tornare in sé
in quel momento. « Cavolo, avresti dovuto fermarmi mezzora prima » commenta,
ironico. La gola gli brucia leggermente.
« Non l'avrei fatto neanche se mio fratello mi avesse
obbligato » risponde Sherlock, ora il suo turno di distogliere lo sguardo e
farlo vagare in basso a sinistra. Sentimenti,
avrebbe commentato, a ragione, Mycroft.
John sceglie di ignorare quella risposta, facendo finta
che tutto ciò che era uscito dalla sua bocca fosse stato detto da qualcun altro
e che parlasse di qualcun altro, e non di lui stesso. Si schiarisce la gola. «
Bene, adesso è il tuo turno » commenta con un sorrisetto soddisfatto. La
sensazione di aver detto troppo non lo abbandona, ma continua, diligentemente,
ad ignorarla.
Sherlock non dà cenno di voler rispondere a breve. Rimane
con lo sguardo fisso in basso a sinistra, ripetendo nella sua mente le parole
di John – tutte le parole di John, le
ultime in particolare con una frequenza maggiore rispetto le altre. "Non
sarà ciò che tu vuoi davvero". Non sarà ciò che tu vuoi davvero, non sarà
ciò che tu vuoi davvero, non sarà ciò che
tu vuoi davvero. È un continuo loop nella mente
di Sherlock, la stanza dedicata a John nel suo Mind Palace che cambia da sola
la posizione dei mobili – le basi morali
di John e semplicemente la costante John – e delle foto – immagini di esso custodite su quei mobili
incrollabili –, delle deduzioni – fogli
appesi ai muri di ogni più piccola sfaccettatura del suo carattere – e dell'enorme
schermo tv – nel quale i momenti migliori
di loro due continuano a proiettarsi senza sosta.
Le loro posizioni sono stravolte senza che Sherlock
alzi un solo dito per spostarle, quasi come se la forza vitale di John si fosse
infiltrata nei più reconditi meandri della sua memoria, e Sherlock può solo
aspettare che si sistemino nel nuovo ordine, per riuscire a capirne le nuove
ubicazioni e interpretare il loro senso reale.
Nel frattempo, però, un John impaziente è al suo
fianco, e sta aspettando la risposta alla sua domanda già da qualche minuto. « Non fare finta di
esserti perso nel tuo Mind Palace per cercare di non rispondermi. Ti ho
aspettato per due anni, dannazione, qualche ora di silenzio non mi fermerà »
dice, annuendo a se stesso e rilassandosi contro la spalliera della panchina.
« Non mi hai aspettato per due anni, sei andato avanti
con la tua vita » ribatte automaticamente Sherlock. Solo dopo si rende conto di
essere sembrato più aspro di come intendeva essere.
John si irrigidisce. « Ti ho aspettato, Sherlock, e lo sai, maledizione. L'ho fatto per così
tanto tempo che non mi ero reso neanche conto che qualcun altro si stesse
infilando nella mia vita, finché lei non ha cominciato a fare battute sul
sistemarsi definitivamente. E ovviamente sono andato fino in fondo, perché
dimmi, cosa avrei dovuto fare? L'amavo, e avevo già perso troppe occasioni,
nella mia vita, per sprecare anche quella » conclude, parlando in fretta.
Silenzio.
« La ami » lo
corregge Sherlock.
Silenzio. « Sì, la amo. »
Ancora silenzio.
Nessuno dei due si permette di alterare
quell'equilibrio teso dal quale sono sommersi quasi quotidianamente, ora. Se
prima l'alcool aveva avuto qualche effetto sui loro freni inibitori, col
progredire della serata questo via via scemava,
lasciando spazio ad una consapevolezza amara. Come il Martini.
Passano cinque minuti abbondanti, dopodiché John
sospira profondamente.
Sherlock sa che quello è il segnale che annuncia che
John sta per tornare a casa – ma non demorderà, oh no: quella domanda aleggerà
tra loro finché Sherlock non si deciderà a rispondere, e John non si risparmierà
certo le pressioni affinché ciò avvenga quanto prima.
Sherlock sa che adesso ha sei secondi esatti di tempo
prima che John si alzi, lo saluti e si avvii verso casa.
Sa che ha sei secondi per far fermare la stanza
"John" dal muoversi vorticosamente, e sa che non ci riuscirà.
Sa anche che non può lasciarlo andare, perché sebbene
John vorrà comunque sapere la risposta, si sentirà sempre un po' ingannato –
poco, infinitesimamente – dalla sua non risposta
immediata, e Sherlock non può permettere che accada.
Perciò prende la decisione di voltarsi verso di lui, la
stanza "John" del suo Mind Palace che ancora richiede un'attenzione
significativa, e di iniziare a parlare. « "Un giorno ci sarà qualcuno che
riuscirà ad apprezzarti per quello che sei. Sarà una persona, una ed una sola,
perciò sta' attento. Non lasciartela
scappare" » finisce, sussurrando. Non sta guardando John, sta solo
guardando a terra, e vorrebbe solo non essere lì, in quel momento. Si rende
conto, però, che la stanza "John" ora è ferma.
Secondo un ordine del tutto nuovo, inaspettato.
John lo sta guardando con consapevolezza, e con una
punta di colpevolezza. Non può fare a meno di pensare al fatto che sia colpa
sua, solo colpa sua se quel genio poco avvezzo ai sentimenti che si ritrova
come migliore amico adesso sia solo, l'unica persona al mondo che lo abbia mai
apprezzato che l'ha abbandonato anch'egli. A pensarci bene, si sente
tremendamente in colpa.
Eppure non può fare nulla. Cosa potrebbe fare? Lasciare
la sua famiglia per tornare ad essere il partner dell'unico consulente
investigativo al mondo? La vita spesso mette davanti a sacrifici, e a persone
impotenti come John Watson non è dato avere tutto. Bisogna accettare compromessi.
Ma proprio la felicità del suo migliore amico – del
quale non riesce più a fare a meno, però: non riesce a ricordarsi una sera,
nell'ultimo anno, nella quale è a casa con Mary e sua figlia. Solo Baker Street
è la regina di quei pensieri, e occasionalmente qualche scena del crimine o pub
come quello di quella sera – dev'essere sacrificata?
Sherlock scuote le spalle, interrompendo i pensieri di
John. Sa che la sua occasione è sfumata tempo fa. « È tutto. Misera come
rivelazione, eh? » scherza, alzandosi ed infilandosi i guanti.
John si alza in piedi, guadandolo con enorme tristezza,
gli angoli degli occhi che iniziano a pungere inevitabilmente. « Sherlock ... »
Sherlock alza l'angolo sinistro delle labbra. Poi
scuote la testa. « Auguri, John. Cento di questi giorni » mormora. La stanza
"John" è lì a fissarlo e a sbattergli in faccia quanto entrambi siano
idioti, perciò, senza pensarci, Sherlock si avvicina a John.
In un istante le sue labbra sono su quelle di John,
leggere come un alito di vento. John è colto impreparato, ha gli occhi spalancati,
e non fa in tempo a rendersene pienamente conto che Sherlock si è già
allontanato.
John rimane impietrito. Non riesce a distogliere lo
sguardo da su di lui, e Sherlock semplicemente sorride, una smorfia che non
raggiunge gli occhi. Alza una mano verso la guancia di John, e con la punta
delle dita fasciate nel cuoio gli sfiora la guancia, leggermente.
Poi si allontana in direzione della strada.
John è fermo lì, non riesce a battere ciglio. Il cuore
gli batte all'impazzata – corre come mai ha fatto con Mary – e la mano sinistra
è stoicamente ferma. Da lontano gli giunge la voce di Sherlock, ovattata. « Ci
vediamo domani » dice solo.
Una promessa.
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[1] Dove John incontra Mike Stamford nella 1x01.