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Autore: Ghevurah    09/02/2014    7 recensioni
Non hai alternative, Findekáno. Non ne abbiamo. Uccidimi e salvati.
E allora lui capisce. Non è la catena di Moringotto ciò che sta tentando di spezzare, ma la maledizione a cui sono avvinti, un'ombra ben più oscura e terribile di quella che lì radica.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Enrë - Un giorno ancora'
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Personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien. Nessuna violazione di copyright è qui intesa.

Note: Questa è una sorta di reinterpretazione dell’episodio relativo al salvataggio di Maedhros, arricchito da introspezioni del tutto soggettive. La storia fa parte della serie Enrë - Un giorno ancora.
Per la sua stesura ho tenuto conto delle correzioni e degli ampliamenti fatti a Il Silmarillion edito con The History of Middle-earth.
Infine perdonatemi qualunque errore relativo all’universo Tolkieniano, ne sono una modesta conoscitrice.
Il resto delle note vi aspetta alla fine della storia!











 
Enrë - Un giorno ancora

All'alba


















Ecco il vallo del non ritorno, porte di tenebra al centro del mondo. Lui le varca, leggiadro, come sospeso in quell’ aria satura di malefici. Vittima sacrificale offertasi spontaneamente alle fauci dell’incubo: un gigantesco organo pulsante percorso da oscuri interstizi venosi.
Creature ataviche languiscono nel buio. Lui non le vede, ma avverte i loro respiri innalzarsi in un miasma che avvelena il cielo, lambendo i primi singhiozzi dell’alba. Un covo d’orrori sopiti sopra il quale scivola lesto.
Non è lì con l’intento di combattere ciò che radica in quelle terre perdute, eppure ne sfida lo sguardo d’ombra, infiltrandosi nel suo regno con un’audacia che appartiene solo ai folli.



Il tempo è immobile, scorre attraverso di lui in tocchi impalpabili. Le foglie avvizziscono e rinascono su rami sempre più alti, la vita si consuma e si rinnova, ma queste sono sottigliezze che solo animi sereni possono cogliere. E lui, alla serenità, ha rinunciato da anni. Così le percezioni si confondono; il passato radica nel presente, i ricordi si intersecano alle speranze future ed ogni cosa rimane sospesa, in un limbo distorto e immutabile.
Giunto nel Beleriand avverte ancora i morsi del gelo, vede lande assiderate allungarsi, lugubri, all'orizzonte. Cieli piatti e cupi in cui la luce delle stelle altro non è che un riverbero stantio. Tutto giace inerte come il suo tempo, osteggiando il movimento che appare un’indesiderata pulsione vitale, una minaccia alla maestosità del silenzio. Le memorie dello Helcaraxë appannano la visione di ciò che ora lo circonda. Gli artigli del gelo hanno scavato nelle sue carni, fino a raggiungere il cuore e piantarvi un germe oscuro. Non è quello del risentimento che ha posseduto suo padre e i suoi fratelli, ma una sensazione di vuoto in grado di risucchiare qualunque felicità. Lo allontana dal mondo, isolandolo nella stasi del suo tempo. Un tempo che si è fatto ancora più statico, più intangibile, di quello dei suoi simili; neppure la guerra e le morti ne agitano la superficie atarassica. Tutto scivola senza lasciare traccia, ombre vaghe si rincorrono lungo le pareti della sua esistenza per poi dissolversi in una luce vitrea.
E nulla cambia quando tornano i giorni di una chimerica pace e la sua gente, la sua famiglia, popola lo Hithlum. Lui passa ore, notti, lungo le sponde di un lago che riverbera l’immobilità del suo tempo, e non solo. Uno specchio a cui s’affacciano, su rive opposte, due riflessi della medesima immagine separati da un destino bieco, dal risentimento che aleggia come bruma nell’aria.
Basterebbe così poco, si dice. Socchiude le palpebre e allunga una mano dinnanzi a sé, ottenendo l’illusione di sfiorare le roccaforti che svettano all’orizzonte, sopra la acque placide del lago. Basterebbe così poco. Un richiamo, forse. Un semplice gesto. Un sorriso.
Ma questi sono echi di pensieri vuoti fra le pieghe d’un tempo stagnante. Il passato s’accavalla al momento presente e lui si ritrova asserragliato dalla staticità dei ricordi. Hanno colori diversi, sfumature opalescenti che si amalgamano fra loro, dando vita ad un unico disegno dai contorni informi.
La vita sguscia ancora fra le sue mani, pietrificate da un tempo che non sembra mai tornare a scorrere. E lui ha ormai perduto ogni contatto con la vitalità del mondo, quando una voce lo raggiunge. Sottile come la cruna d’un ago trapela attraverso lo strato nebuloso, trincea della sua esistenza immota. Non è una voce lieta e forse per questo riesce a smuovere la superficie del lago, della distesa piatta e tagliente entro cui il tempo è stato raggelato. Lui, udendola, percepisce il vuoto che scavava il suo animo, colmarsi d’una disperazione opprimente. Essa lo segue, strisciante, annidandosi nel limbo tra passato e presente e quivi radica e pulsa sino a dolere come una ferita della carne. Infine, quando l’acume diviene insopportabile, l’apatia della sua esistenza si dissolve nell’urgenza di porre fine a tali sofferenze. Il tempo freme, iniziando a oscillare d’un moto lieve a continuo. Lui ne avverte improvvisamente il fluire e questo lo scuote, lo sconvolge, perché aveva dimenticato cosa significasse. Ciò che gli era parso tristemente immobile, condannato ad una tragica eternità, ora si fa troppo breve, troppo volubile. Per questo, forse, compie azioni avventate, quasi folli. Tutto in una manciata di giorni, mentre il suo tempo scorrere, impetuoso.



L’oscurità è una morsa asfissiante, i profili affilati e cupi delle rocce pervase dalla malvagità che dimora in quei luoghi, svettano dinnanzi a lui impedendogli il cammino. Qualcosa si muove negli intestini della montagna, nugoli d’ombra vagano nelle gallerie. Ma il suo nemico non è la paura, bensì l’impotenza pronta a ghermirlo quando ancora volge lo sguardo alla maestosità delle montagne sorte, ripide, a protezione di quella fortezza.
Pensa al padre e ai fratelli lasciati nello Hithlum, pensa alle roccaforti al di là del lago. Non tornerà mai più sulle sue sponde, si è rassegnato ad una simile eventualità. Eppure gli piacerebbe che lo facessero altri. Che la sua gente le attraversasse, un giorno, riunendosi con quei congiunti, quei quasi fratelli, che dimorano sulle rive opposte. È il suo unico pensiero, questo, oltre al pressante desiderio di farsi strada tra le vette oscure e arroganti del Thangorodrim.
Ma quando l’alba s’affaccia alle porte delle notte e singhiozza là, fra le cime, serica e illividita, lui s’accorge d’essere al termine del proprio tempo. Il giorno sta arrivando, e per quanto quelle terre siano avvolte da un’oscurità anomala, essa sarà in parte diluita dai riverberi del nuovo sole. La sua copertura verrà a meno e le creature che strisciano nell’ombra si accorgeranno della sua presenza. Mai avrebbe creduto di trovarsi a desiderare più tempo, di dipendere da una manciata di ore, lui che ha assistito immobile allo scorrere di secoli, lasciando che il presente gli scivolasse fra le dita come acqua. Ma ha rinunciato per sempre a quel torpore: s’aggrappa con caparbieria agli istanti crepuscolari che lo dividono dall’alba. Sa che presto lo scoveranno e una simile consapevolezza si fa strada nel suo animo portandolo a commettere un nuovo gesto sconsiderato. È stata la disperazione a guidarlo fin lì ed è questa, ancora, a tendergli la mano.
Raccoglie le memorie che l’hanno reso schiavo d’un tempo ineluttabile, ma lo fa affinché ora, nel presente in cui è calato, rischiarino il destino della sua gente, rievocando un affetto offuscato da inganni e afasie. Così il suo canto ha inizio.



È nel Valinor e sono giorni dorati e le foglie smosse sembrano ridere al vento, rischiarate da una luce tiepida, autunnale, che le fa splendere come le più preziose delle gemme. Lui, in punta di piedi, non arriva ai rami più bassi degli alberi e il suo viso possiede ancora i tratti morbidi dell’infanzia. Non ha bisogno d’una ragione per sorridere: è il mondo che lo circonda a ispirargli felicità. S’aggira per i giardini, curioso, mentre i moniti di suo padre echeggiano lontani. Parole vaghe che si perdono nella meraviglia per le ombre frastagliate delle fronde, per i profumi dell’aria e gli spicchi di cielo azzurrissimo filtrati attraverso la cupola d’alberi. Tutto ai suoi occhi appare magnifico; tutto è creazione dei Valar che sente d’amare d’un amore inesplicabile, totale.
È nel Valinor e sono giorni dorati e le foglie crepitano, indossando vesti d’un rosso prezioso, quando una fra quelle mille creazioni attira la sua attenzione come mai nulla aveva fatto.
È nel Valinor, è poco più che un bambino, quando lo incontra per la prima volta.
Alto, altissimo, cammina nel giardino a passo lento, controllato, e seppure la sua figura imponente trasmetta soggezione lui non si ritira, rimane esposto allo sguardo, incantato dai riflessi di Laurelin che incendiano i suoi capelli.
Non ha mai veduto capelli così, sono del colore che le foglie autunnali raggiungono solo in tarda stagione, un rosso scurissimo e prezioso, simile al sangue, al vino più corposo: onde di fiamma intarsiate a riflessi aurei. Il suo viso, però, non viene intaccato dall’incendio che l’incornicia; la pelle nivea risplende di quel fulgore, culminante nella fierezza dello sguardo. Sbatte le palpebre, vedendolo, ed è come se qualcuno vi avesse incastonato una manciata di stelle incandescenti, prossime ad esplodere.
Solo quando gli si avvicina, lui s’accorge che è giovane, molto più di quanto la sua maestosa presenza non lasci trasparire.
Il ragazzo lo guarda, lasciandolo sgomento ed assieme affascinato da quel fuoco che pare ardergli dentro, trasmettendo il proprio fervore ad ogni tratto del suo essere. Infine lui riesce a trovare le giuste parole per presentarsi e nota una luce divertita balenare negli occhi dell’altro. Poi il profilo delineato e bianchissimo della sua mascella si tende, mentre le labbra piene s’arricciano in un sorriso.
So chi sei, dice. E lui, raggiunto da quella voce che risuona bassa e morbida eppure insinuante come sottili lingue incendiarie, ricorda all’improvviso i moniti di suo padre.
Non addentrarti nel giardino dov’è solito recarsi mio fratello Curufinwë. Non arrecare disturbo né a lui né ai suoi figli.
Rivolge un’occhiata incerta al giovane che sorride, ancora, e gli si presenta, pronunciando il proprio nome in un soffio.
È nel Valinor e sono giorni dorati e nonostante gli avvertimenti di suo padre, continua a recarsi in quel giardino ad incontrare un giovane nato dalle profondità infuocate della terra o da lontane stelle incandescenti.
Nolofinwë li scorge all’ombra d’un cedro, seduti l’uno accanto all’altro, sente le sua risata di bambino e da lì in poi tace qualsiasi monito, si limita ad andare a cercarlo di tanto in tanto, rimanendo in disparte a guardare.



Il suo canto s’irradia nell’oscurità, veleggia sopra le gole di quelle terre disgraziate ed infine vi cala, districando matasse di tenebra. L’ombra freme; è abituata ad accogliere e soffocare solo grida strazianti, non conosce altro. Lui percepisce il risveglio delle creature che l’abitano, ma non lo teme. La sua disperazione è ben più terribile di quell’incubo.
Le rocce gli sbarrano il cammino, quando un’altra voce fende l'oscurità. Sembra provenire dalle profondità di un abisso, eppure le parole che pronuncia sono famigliari: completano il suo canto e vi si armonizzano, spezzandosi in brevi respiri addolorati. E lui sente i battiti del proprio cuore accelerare perché quella voce anche se debole, sofferta, è ancora pregna di un antico fuoco, lo stesso che le ha permesso d’innalzarsi nell’oscurità e giungere alle sue orecchie. Ha tentato di odiarla nella morsa dei ghiacci, con il vento polare ad incidere la carne e una scia di lutti a gravare sulle spalle. Ogni qual volta ricordava l’eco del suo tono profondo, ardente, cercava di sostituirne la memoria con l’immagine delle terre spietate entro cui vagava. I fumi neri di Losgar, scorti in lontananza, il volto emaciato e gelido di Elenwë, le lacrime di suo fratello. Ma per quanto la sua determinazione fosse ferrea a nulla erano valsi simili tentativi. Quella voce era divenuta il suo baluardo, la stella che guidava i suoi passi e splendeva laggiù, oltre i ghiacciai, richiamandolo a sé. Ed ora, sentendola prossima e reale, deve raccoglie ogni briciola di autocontrollo per frenare l’impazienza. Ascolta, si dice. Lasciati guidare.
Ancora una volta la strada è tracciata, non più fra terre algide, ma fra ripidi tornanti affacciati a baratri d’ombra, ove la luce è solo leggenda. Così la segue, mentre continua il proprio canto, sperando d’essere, a propria volta, un appiglio nell’oscurità.



È nel Valinor e sono giorni dorati mai più così celeri e lui trascorre il proprio tempo accanto a quel giovane che ha in sé i colori delle fiamme, ignorando ciò che alcuni sussurrano.
È nel Valinor e le fronde fanno loro da quinte, quando un’altra figura si sofferma ad osservarli. Non passeggia discreta fra gli alberi com’è solito fare suo padre, ma siede poco distante da loro. Le braccia conserte e gli occhi screziati da freddi oceani in tempesta. Possiede gli stessi tratti fini e taglienti di suo padre, gli stessi capelli scuri: lucenti ali di corvo, eppure non potrebbero apparire più diverso. La grazia è soppiantata dall’alterità racchiusa in ogni sguardo, dalla fierezza di cui è ammantato. Lui pensa che, al pari del giovane al suo fianco, sembri animato d’un imprevedibile fuoco interiore. Ma questo suo fuoco arde differentemente: scevro di calore, è gelido e ustionante come ghiaccio.
Li osserva da quella breve distanza ed infine si alza in piedi, camminando sino a loro. Chiama il giovane con una famigliarità che risuona velata d’una peculiare nota affettuosa, in pieno contrasto con il suo tono roco, simile a nuvole crepate. Il giovane gli sorride e i suoi occhi sembrano farsi ancora più luminosi.
L’Elda è a pochi passi, ora. Sposta la propria attenzione su di lui, sovrastandolo.
Non mi riconosci? Gli chiede, ma non ha risposta se non il suo sguardo spaesato. Inarca un sopracciglio, allora, ricordandogli l’espressione di disappunto che a volte calca il viso di suo padre.
Io mi ricordo di te, continua. Findekáno, figlio di Nolofinwë, mio fratello a mezzo nel sangue.
E quella semplice frase, alle sue orecchie bambine, risuona pregna di sfumature oscure, difficili da decifrare.



Il crepuscolo è serico, le maglie dell’ombra si assottigliano: un’esile filigrana che s’oppone all’albore. I profili delle montagne sono guglie di cinta invalicabili, tese verso il cielo cangiante. Ed è alla più alta e impervia di quelle vette che la voce sorta dalle tenebre lo conduce.
Lui alza lo sguardo troppo presto, quando ancora la curva del tornante si avviluppa al fianco del crinale. Alza lo sguardo e lo vede all’orizzonte, sospeso, e sente la terra mancargli sotto i piedi. Perde l’equilibrio, scivola: le mani sulla roccia umida e tagliante. Si rialza a fatica, arranca. Calma, dice. Serra le palpebre e ancora: calma. Ma la visione di quella figura in bilico è un marchio a fuoco impresso sulle retine. Apre gli occhi, il tornante compie l’ultima svolta. E quel corpo e quella voce sono là, dinnanzi a lui.
Valar, è questa l’ultima essenza della mia disperazione?
Il cielo serotino preme attorno al corpo sospeso, i suoi contorni sono tratti fragili, stagliati su quinte di roccia. Una visione spiritica sorta nell’oscurità della montagna. Le membra abbandonate, torte in una posizione innaturale, hanno perduto il loro antico candore. L’ombra le ha strette nella propria morsa, lasciandovi impresso un mosaico di lividi ed intarsi sanguigni.
Lui guarda la pelle nuda, esposta alle irregolarità taglienti della pietra e rabbrividisce. Persino i capelli che scivolano a celare il volto sembrano essersi spenti: i loro riflessi vividi, corposi, sono stati divorati dall’ombra. Ed è bieca l’alba che si erge ansante sopra i crinali, che s’allunga a sfiorare quel corpo martoriato e lo attraversa, restituendo alla vista la trasparenza della suo incarnato: uno spettro su cui la luce non s’infrange. Solo la catena che lo tiene sospeso ne viene colpita, emettendo un bagliore sinistro.
Lui fa scivolare il proprio sguardo su quelle membra straziate, guardandole può immaginare ogni sofferenza, ogni tortura e si morde le labbra affinché i singhiozzi che gli squassano il petto rimangano silenti. Più volte, prima che la disperazione lo cogliesse annichilendo ogni cosa, ha pensato al momento in cui avrebbe rincontrato la creatura che ora trova sospesa dinnanzi a sé. Ha pensato alle parole da pronunciare, ai gesti, agli sguardi, ma ogni pensiero si frantuma dinnanzi all’atrocità della realtà, all’immagine cruda di una sofferenza che è anche sua.
Scuote il capo, sentendo il tracciato delle lacrime farsi gelido a contatto con l’aria. Si passa una mano sul viso e si volta, cercando un passaggio che già sa di non trovare.
La voce sorta dalle tenebra s’alza nuovamente, ma così come la sua ha abbandonato il canto e ora risuona più flebile.
Findekáno, esala e lui sente quel richiamo irradiarsi in ogni anfratto della propria anima, quasi avesse il potere di evocarne la più completa essenza.
Findekáno, dimostrami di non essere l’ultima illusione della mia mentre prostrata dalla sofferenza: uccidimi. Te ne prego, uccidimi.
Lui serra le palpebre, mentre nuove lacrime si impigliano fra le ciglia. Prova a rispondere, ma le parole inaridiscono sulle labbra. Alza lo sguardo, allora, verso quel cielo impietoso, affinché sia il sussurro del suo cuore a farsi verbo. Ripercorre ogni istante passato, ogni bagliore di fiamma, ogni sorriso. E da principio avverte un calore nel petto, un'implosione interiore che lo infiamma e sale sino a riempirgli mente e corpo. È balsamo lungo la sua gola e carezza la lingua come un bacio dolcissimo, arrotolandosi in una manciata di sillabe che sgusciano dalla sua bocca, divenendo parola.
Russandol.  
Lo dice e lo ripete.
Russandol.
Quanto tempo è passato da che ha pronunciato questo nome? Quante volte lo ha sentito crescere dentro di sé, soffocandolo prima che potesse prender suono. Ed ora lì, affacciato ad un baratro, riesce finalmente a sentirlo scandire dalla propria voce.
Russandol, ora che ti ho trovato come posso avere la forza per fare ciò che mi chiedi?
Il suo tono è intriso di pianto, le parole spezzate dai singhiozzi. Ma la voce di Russandol lo raggiunge ancora una volta, lambendogli i timpani in un sussurro che sente vibrare sin nell’animo.
So che la troverai. Non c’è nulla che ti sia impossibile e il tuo essere qui n’è la prova, Astaldo.
Lui alza lo sguardo verso lo sperone, i ricordi sfumano sotto un velo di lacrime, ma riesce comunque a vedere il volto di Russandol sollevarsi a fatica. I suoi occhi sono intorbiditi da un dolore che ha ridotto in cenere le antiche fiamme.
Lui si porta una mano al petto, avvertendo la disperazione che lo ha colmato trascinarlo in un vortice da cui è impossibile risorgere. Non vi oppone resistenza, perché il suo corpo si è fatto infinitamente pesante, invischiato nel fango d’un impotenza ben più turpe dell’oscurità che affligge quelle terre. L’illusione di poter salvare Russandol cade, inesorabile: foglie di un fine autunno passato, polvere dispersa nel vento.
Vorrebbe rimanere lì, affacciato al baratro, dimentico delle promesse fatte a sé stesso. Vorrebbe congelare di nuovo il proprio tempo e passare ere a languire in quel luogo. Ma la sofferenza di Russandol è viva anche in lui.
Alza il braccio destro, portandoselo alle spalle. Nel pugno sinistro la presa che ha sul proprio arco, prima del tutto ignorata, sembra essersi fatta incandescente. Con la mano libera sfila una freccia dalla faretra. La solleva e l’abbassa di nuovo, facendola aderire all’arco. Vuole guardarle assieme, le armi con cui ucciderà colui che è venuto a salvare. Le osserva nelle proprie mani, oscure quanto armi forgiate in quelle terre maledette. Sente bruciare la loro immagine nelle pupille, poi le lacrime scorrono ad annebbiargli la vista. Trema, venendo colto dall’improvviso terrore di sbagliare bersaglio, di non riuscire a concedere quella fine agognata, di divenire causa di ulteriori sofferenze, lui che mai ha mancato un nemico. E sta scivolando nell’abisso d'un panico irrazionale, quando la voce di Russandol lo scuote, come se nelle sue infinite sofferenze avesse conservato il potere di leggergli l’anima.
Findekáno, chiama. Perdonami se ti chiedo tanto. Perdonami, ma sappi che sono grato ai Valar per questa fine. Per avermi permesso di vederti un'ultima volta.
Lui alza lo sguardo a quelle parole, gemendo fra le lacrime. Vede gli occhi spenti di Russandol lambirlo un’ultima volta, ricolmi d’un affetto che vince la vacuità e fa splendere un'antica luce nelle loro iridi. È un solo balenio, timido quanto il chiarore dell’alba, eppure riesce a infondergli la determinazione necessaria ad incoccare la freccia.
Forse, se la disperazione non fosse così pressante, ora sarebbe la rabbia a coglierlo, a fargli pronunciare quelle stesse parole di rancore e sdegno che furono di Curufinwë in Tirion. Ma mentre fa scorrere le dita lungo la freccia, sfiorandone l’estremità piumata, l’angoscia e il rimpianto soverchiano qualunque altro sentimento. Tenta di arginare i ricordi, ma essi sgusciano e scorrono nella sua mente ricolmi d’un amore che ora riverbera una sofferenza ancora più opprimente.  
O Valar, rinuncio al desiderio di poter essere ancora con lui. Rinuncio ai tempi passati. Rinuncio alla sua voce, al calore che lo anima. Rinuncio alle danze, alle lunghe passeggiate; al profilo solido delle sue spalle. Rinuncio al suo sguardo bruciante. Rinuncio al disegno pieno delle sue labbra, tese in radi sorrisi. Rinuncio alle sue mani, alla sua risata bassa e roca come il crepitare d’un fuoco. Rinuncio. Io rinuncio. Ma vi prego, concedetemi la forza per porre freno alle sue sofferenze. Fate sì che la sua fine sia indolore. E tu, O Súlimo, Re al quale tutti gli uccelli sono cari, accelera il volo di quest’asta piumata, e abbi pietà di noi.
I suoi pensieri e le sue parole s’innalzano nella cortina albeggiante, risalendo i misteriosi sentieri del cielo. Lui stringe la presa sull’arco, appoggiandovi la freccia. Tende le braccia e socchiude gli occhi per prendere la mira. Il cuore che batte stanco nel petto di Russandol è il suo obbiettivo.
Prendo il tuo cuore, pensa un ultima volta. Per te e per me, prendo il tuo cuore.
Poi trattiene il respiro. Alza il gomito e tende i muscoli. Avverte già il sibilo spietato di quella freccia straziargli l’anima, quando alle sue spalle s’alza una violenta raffica di vento. In lui balena il terrore d’un nuovo ostacolo alla sua penosa impresa. Si volta, desolato, mentre le sue lacrime vengono asciugate dal vento. E dal cielo, intriso della flebile luce di uno spettro d’alba, vede discendere la grazia dei Valar.



È alle porte dello Helcaraxë, agli inizi di un Inverno infinito e spietato, quando lo vede per l’ultima volta. Sono stati allontanati dai sussurri insinuatisi nella Casa dei loro padri, da un esilio estenuante che ha logorato gli animi, portando con sé il velo della morte. Una lontananza alimentata persino dalla condivisione: la condivisione di una fuga, di un terribile fratricidio. Degli antichi giorni dorati rimane solo il ricordo, una sfumatura vaga che aleggia fra loro: uno sguardo fugace, l’ombra d’un sorriso, parole rade scambiate con un'attenzione che travalica la mera convenienza.
Lui è circondato dai suoi fratelli quando solleva lo sguardo per cercarlo all’orizzonte, tra le file di Curufinwë. Lo vede troneggiare sulla schiera, vestito di un’armatura che attira a sé i tristi bagliori delle stelle. Il suo dorso bardato è un altura immensa, sormontata dai clivi delineati e ampli delle spalle: l’opera più bella che le mani di sua madre abbiano scolpito, il più prezioso gioiello che abbia lasciato le fucine di suo padre. Lo pensa, soffocando un sorriso, chiedendosi se sia consono, per lui, formulare simili pensieri. Poi torna a lambire quella figura maestosa. Per anni ha conservato la vana speranza, data la sua ascendenza, di superarlo o almeno equipararlo in altezza, e ancora ora ne invidia la prestanza. Un rimasuglio d’infanzia, forse, o qualcosa di diverso. Più volte ha avvertito il desiderio di poterlo sostenere con la propria forza, sollevandolo, anche se per poco, da quel peso che sembra nato per portare. E non importa se il suo animo forte e il suo corpo solido, immenso, non hanno mai mostrato segni di cedimento, perché lui sa senza bisogno di vedere.
Sussurra il suo nome al vento, carezzando con lo sguardo il profilo delle sue spalle. Guarda i suoi capelli che s’agitano ribelli: fiamme nell’orizzonte amorfo, e un lieve sorriso gli increspa le labbra.



Sul dorso piumato di Thorondor, vede la rupe farsi sempre più prossima e la frenesia che aveva provato udendo la voce di Russandol fendere la tenebra, lo assale di nuovo. A quell’altitudine l’alba sembra essersi fatta più densa: è ancora un riverbero pallido, incapace di vincere l’oscurità, ma tenta comunque di insinuarsi nel giogo delle sue ombre.
Quando il corpo di Russandol è così vicino da permettergli di scorgere il profilo slabbrato degli sfregi che lo deturpano, il suo cuore si contrae tanto da mozzargli il respiro. Si sporge dal dorso di Thorondor e trova appiglio nella roccia nuda, avvertendone il gelo insinuarsi sin nelle ossa. Ma il respiro che s’alza faticosamente accanto a lui è un brivido ben più agghiacciante. Si volta, seguendolo, e per qualche istante rimane immobile, incapace di fare altro se non prendere coscienza della vicinanza di Russandol. Il suo corpo sospeso palpita a pochi centimetri da lui in una torsione di muscoli e tendini che nonostante le torture subite hanno in parte conservato l’originaria prestanza. Un'ultima ed ostinata opposizione a quel crudele supplizio.
Lui si riempie lo sguardo della sua sofferenza, della visione degli ematomi tumefatti, di quel braccio incatenato lungo cui scorre un rivo di sangue scuro e incrostato. Poi Russandol solleva il volto emaciato, mostrandogli l’ombra d'un dolore tirannico a impregnare i suoi tratti perfetti.
Findekáno, mormora con voce spezzata, mentre il vento agita i loro capelli, intrecciandoli in un groviglio di filamenti notturni e lingue ramate.
Lui freme nel tentativo di sfiorargli il volto: è passato così tanto tempo dall’ultima volta che l’irrazionale timore di aver dimenticato come toccarlo rallenta il movimento della sua mano. Poi le sue dita prendono coraggio: ne incontrano l’incarnato, scorrendo tiepide e tremanti sul suo viso. Sospirano assieme, quando lui carezza il profilo della sua mandibola e sfiora la superficie irregolare di una ferita che, spietata, squarcia l’armonia dei lineamenti.
Maitimo, sussurra e attira il suo volto a sé, preso dal dolore di quella scoperta. Scandisce il suo nome con devozione, vincendo la titubanza che sempre ha usato nel pronunciarlo, poiché il nome dato da una madre è quanto di più intimo e prezioso.
Si allunga in avanti, poi, portando l’altra mano alla catena che imprigiona il braccio destro di Russandol. La vede colpita dalla luce, splendente come un gioiello di metallo e disperazione, ostinatamente intatta sotto la lama del suo pugnale. Così, in bilico fra le superne vie del cielo e l’abisso che s’apre sotto di loro, tenta con ogni mezzo di liberare il polso di Russandol da quel terribile vincolo, ignorando lo sferzare dei venti e l’appropinquarsi delle creature che dimorano nell'oscurità.
Ora che mi è stata concessa la possibilità di salvarti, dice, non ti lascerò andare per alcuna ragione.
Ma è ancora una volta la voce di Russandol a distoglierlo da suoi pensieri. Lo raggiunge in un soffio scevro di speranze:
Non hai alternative, Findekáno. Non le abbiamo. Uccidimi e salvati.
E allora lui capisce. Non è la catena di Moringotto ciò che sta tentando di spezzare, ma la maledizione a cui sono avvinti, un'ombra ben più oscura e terribile di quella che lì radica.
Forte di una simile consapevolezza lascia la presa sul vincolo metallico, tornando a cercare il viso di Russandol. Le sue parole, poi, possiedono la placida inflessibilità degli stessi ghiacci che l’hanno veduto vittorioso.
Siamo condannati, ammette. In quanto Noldor, in quanto figli dei nostri padri. In quanto fratricidi. Noi, fautori delle nostre stesse disgrazie. Ma se non possiamo liberarci della nostra maledizione, allora l’affronteremo insieme. Io e te. Congiungeremo le sponde del Mithrim. Saremo uniti nella nostra disgrazia, ora e per sempre.
Stringe la presa sul pugnale, mostrandone la lama argentea a Russandol. Cerca il suo sguardo, specchio della propria angoscia, trasmettendogli la consapevolezza di ciò che sta per accadere.
Perdonami, sussurra insunando la mano libera tra la roccia e la sua schiena inarcata. Lo stringe, ferreo, quasi a simulare con il proprio braccio la costrizione della catena. Combattendo un sentore di nausea, porta il pugnale a contatto con il suo polso.
Perdonami, ripete.
La lama vorace s’abbevera del riverbero di luce che la colpisce ed insopportabile, per lui, riconoscere la propria mano muoverla.
Perdonami. Perdonami. Perdonami: una cantilena dolente, necessaria.
Quello che segue è un movimento deciso, perché cosi deve essere. Lui avverte la lama affondare nella carne e reciderne i tendini come se fosse la sua stessa mano a farlo. Sente l’urlo gutturale che Russandol soffoca contro il tessuto dei suoi abiti, ne avverte il fiato bollente lambirgli il collo, mentre la sua mano sinistra gli afferra la schiena, cingendolo con forza ritrovata. Lo avvolge in una stretta vigorosa, immensa, che preme dolorosamente tra le sue scapole. E solo quando tutto il peso di Russandol gli si riversa addosso, s’accorge di stare trattenendo il fiato. Cerca di sorreggerlo, lasciando cadere il pugnale maledetto nel vuoto, ma le sue braccia sono un effimero appiglio.
Cadono assieme sul dorso di Thorondor. Lui, impacciato, allunga le braccia attorno alla schiena di Russandol per coprirlo con il proprio mantello. Affonda il viso nel suo petto ampio, ascoltando il ritmo lieve e ammorbante del suo cuore. Pensa distrattamente che per una volta sarebbe stato bello essere il più alto, poterlo avvolgere, sovrastare, farlo sentire protetto. Poi si sfila delicatamente da quell’incastro di corpi e l’aiuta a voltarsi. Lo vede fremere e ondeggiare, incapace di padroneggiare i propri movimenti. Lo aiuta goffamente, tentando ancora una volta di sostenerlo, infine strappa la propria casacca e ne cerca il polso amputato. L'afferra esitante, iniziando a medicarlo con i lembi di stoffa. Il respiro di Russandol a sfiorargli le tempie, l’aria gelida a graffiargli il viso. Quando inizia a piangere lo fa silenziosamente, costringendosi a guardare l’arto amputato, le lacrime che cadono sulla stoffa intrisa di sangue e si mischiano ad esso. Avverte lo sguardo di Russandol addosso e anche quando finisce la fasciatura, non riesce a voltarsi per incontrarlo.
Findekáno, lo sente mormorare ad un tratto. E scuote il capo portandosi una mano al volto rigato di lacrime.
Perdonami, biascica contro il proprio palmo. Perdonami. Perdonami. Perdonami.
La sua voce è un mormorio incomprensibile nello sferzare del vento di alta quota, ma Russandol alza il braccio sinistro in un movimento stanco, pesante, e lo fa ricadere sul suo capo, abbassandolo verso di sé. Lui sussulta, sente il suo corpo ancora intirizzito e con un gesto impacciato cerca di spogliarsi del mantello che avvolge entrambi per coprirlo meglio. L'abbraccio di Russandol, però, è opprimente e inamovibile, e lo costringe di nuovo contro il suo petto.
Mi hai salvato, dice. Mi hai salvato, Findekáno. Sono io l’unico a doverti chiedere perdono.
E lui, avvertendo le sue parole, lascia che i singhiozzi sguscino, rumorosi, dalle labbra, riempiendo quel minuscolo spazio di respiri che ancora li divide.



Lontano dall’innaturale oscurità di quelle terre, il bagliore dell’alba si fa più vivido. Un empito iridescente, puro, che rischiara il cielo crepuscolare e si tende sulle valli, incontrando, infine, lo specchio cristallino del Mithrim. Lì, dove un gruppo di persone giunte da entrambe le sponde si è radunato, e guarda l’avanzare dell’alba.














 
Note:

- Il discorso relativo al “tempo di Fingon” è una parentesi a cui sono oltremodo legata. Vorrei evitare di eviscerarla, perché mi piacerebbe che ognuno ne cogliesse (o non ne cogliesse) liberamente. Dico solo che il riferimento non va esclusivamente al periodo trascorso nel Beleriand, prima del salvataggio di Maedhros, bensì affonda le proprie radici negli anni (secoli) passati nel Valinor. Figon rimane immobile davanti ai dissidi fra i Noldor, crogiolandosi nel ricordo dell’amicizia con Maedhros (“interrotta” dall’esilio di Fëanor). E quando s’accorge di ciò che li divide, il “suo tempo” si congela del tutto, impedendogli di cercare un contatto immediato con Maedhros e, allo stesso modo, di prendere posizione contro i figli di Fëanor.

- Ho idee abbastanza precise, quanto personali, relative all’aspetto dei personaggi e questo, forse, mi ha portata a “forzare un po’ la mano” nelle descrizioni. È mia abitudine identificare i suddetti con le stagioni e se Maedhros è l’Autunno, Fëanor, a mio avviso, è un rigido Inverno. Mentre Fingon e Fingolfin, non possono che essere, rispettivamente, Estate e Primavera. Abbonatemi l’assurdità della cosa…

- Sì, come avrete notata non faccio cenno all’arpa di Fingon, la mia è una scelta infelice e del tutto arbitraria, ma - lo ammetto - non avrei saputo gestire il momento in cui Fingon “tira fuori”, non si sa bene da dove, un arpa!

- Nomi ed epessë:
Ho deciso di far utilizzare a Fingon l’epessë “Russandol” (“testa di rame”), riferito a Maedhros, in quanto è stato dato a questi dai suoi fratelli e sembrerebbe il più informale tra i suoi nomi. Anche se “Maitimo” (“il ben fatto”) è quello che prediligo, mentre “Nelyafinwë“ (“il terzo Finwë”) è a mio avviso un triste frutto di una delle varie ossessioni di Fëanor.
Con Fingon la scelta è stata più semplice, in quanto sono a conoscenza del solo nome paterno “Findekáno”; “Astaldo” (“il valente”) è un soprannome (come può essere “lo scuro” in riferimento a Caranthir), datogli da Maedhros.
Per Fëanor e Fingolfin, invece, ho semplicemente utilizzato i più “ufficiali” nomi paterni.



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