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Autore: OpunziaEspinosa    09/02/2014    18 recensioni
Edward e Bella sono vicini di casa.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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!!! AVVISO IMPORTANTE !!!
Di recente ho fatto delle scelte, scelte che hanno ridotto drasticamente il mio già limitato tempo libero, quindi la possibilità di continuare a scrivere fanfiction.
Onestamente non sono ancora pronta a lasciarmi alle spalle Edward e Bella, ma devo farlo, almeno per ora.
Non scomparirò del tutto, continuerò ad essere presente qui su facebook, ma non aggiornerò più La Ragazza dell’Interno 23B.
Grazie a chi mi è stato vicino in questi anni, a chi ha le
tto e commentato le mie storie, a chi mi ha aiutata a migliorare. 
Vi porto nel cuore 
Opu


 




Capitolo 1
 
Di tre cose Edward era certo.
Uno. Non sarebbe tornato all’università, e non si sarebbe laureato in medicina, come suo padre. La sua vera passione era la musica, non la chirurgia. La sola vista del sangue lo inorridiva. Perché continuare a soffrire? Lavorare in un ospedale lo avrebbe reso infelice. Forse ricco, ma infelice. E lui aveva altri piani per sé.
Due. Il suo gruppo avrebbe sfondato. Lui, Emmet, Jasper e Rosalie avevano troppo talento per continuare ad arrancare nell’ombra. Non avrebbero passato il resto della vita a suonare in squallidi locali o nei salotti delle confraternite. Presto o tardi, una casa discografica si sarebbe accorta di loro, ed avrebbe messo i Breaking Dawn sotto contratto.
Tre. Se il moccioso dell’interno 23B non avesse smesso di piangere all’istante, avrebbe buttato giù la porta dei vicini ed assassinato l’intera famiglia.
Ovviamente non l’avrebbe fatto, non era un pazzo psicolabile, e l’unica autopsia a cui aveva assistito lo aveva fatto correre in bagno, a vomitare il latte caldo e muffin al cioccolato che aveva mangiato a colazione. Tuttavia, questa era la terza notte consecutiva che passava in bianco, ed aveva un disperato bisogno di dormire.
Esasperato, Edward chiuse gli occhi e cacciò la testa sotto il cuscino, sperando in questo modo di creare una barriera tra sé e quell’indemoniato che piangeva ininterrottamente da ore, ma non funzionò. Anzi, ebbe l’impressione di ottenere l’effetto contrario.
Vaffanculo, pensò, non mi aveva mai creato tanti problemi neppure la puttana che abitava qui prima di loro. E alcuni clienti di Heidi erano davvero fuori di testa!
Edward non conosceva bene i nuovi vicini. Li aveva incrociati sul pianerottolo il giorno del trasloco, un paio di settimane prima, e poi non li aveva più rivisti. Ad essere onesti, aveva incrociato soltanto lui: un ragazzone alto e grosso, con i capelli e gli occhi scuri, e l’aria perennemente incazzata. Jacob, si chiamava. Si erano presentati, scambiati un paio di convenevoli, e poi Edward aveva raggiunto i ragazzi in sala prove.
Mai e poi mai avrebbe immaginato che quei due avessero già un bambino! Malgrado la stazza, Jacob aveva l’aspetto di uno appena uscito dal liceo. E lei… be’, Edward non aveva ancora incontrato Isabella, e di lei non sapeva nulla, solo il nome di battesimo, che aveva letto sulla cassetta delle lettere giù all’ingresso. Ma se la immaginava altrettanto giovane: a volte, quando giocava con il figlio, la sentiva ridere attraverso la parete, e la sua voce gli sembrava quella di una ragazzina.
Edward si sollevò sui gomiti e, con gli occhi gonfi e doloranti, afferrò l’orologio sul comodino. Le quattro e quaranta… Merda. Tra meno di un’ora e mezza avrebbe dovuto alzarsi per andare al lavoro.
Non aveva un impiego fisso – la musica era tutta la sua vita –, ma il gruppo non gli consentiva né di pagare l’affitto né di comprarsi da mangiare. E poi lui e i ragazzi avevano un accordo: tutto quello che i Breaking Dawn guadagnavano – non molto, ad essere onesti – andava reinvestito nel gruppo.
Edward faceva quello che gli capitava: il cameriere, il barista, il pony‒express, l’imbianchino… Al momento, stava ridipingendo l’appartamento di una vedova sin troppo allegra. Quella vecchia baldracca ci aveva provato almeno un paio di volte, arrivando addirittura a pizzicargli il sedere. Lui era stato sul punto di mollare tutto e rovesciarle la vernice in testa, ma doveva pagare un paio di bollette, ed aveva bisogno di soldi. Così aveva fatto buon viso a cattivo gioco. Aveva finto di essere lusingato dalle attenzioni della vedova, ma con dolce fermezza l’aveva respinta, raccontandole di una fidanzata che amava molto e che non voleva tradire.
Non che lui avesse davvero una fidanzata. Aveva solo ventidue anni, un progetto ambizioso, e tutto il tempo per mettere la testa a posto. E poi piaceva alle donne: perché non approfittarne fintantoché era così giovane? Diventare il toyboy di una cinquantenne piena di soldi, però, non gli interessava, anche se questo gli avrebbe di sicuro garantito una vita più facile.
Quando, sei mesi prima, aveva abbandonato il college, i suoi gli avevano detto chiaro e tondo che non avrebbe vissuto alle loro spalle, in attesa di un ingaggio che non sarebbe mai arrivato. Gli avevano detto che, se voleva fare il musicista, se la doveva cavare da solo. Nella speranza di dissuaderlo ed allontanarlo dal suo sogno strampalato, gli avevano congelato il conto in banca, tagliato tutte le carte di credito, e confiscato l’auto. Ma Edward non si era fatto scoraggiare. Prendendo tutti in contropiede, aveva fatto le valige, abbandonato la villa con piscina dei suoi, e trovato un appartamento a Seattle.
 All’inizio pensò di essere capitato all’inferno. Edward veniva da una famiglia ricca, una di quelle con la cameriera e il giardiniere, ed aveva sempre vissuto nel lusso, circondato da gente per bene. Non era abituato ai palazzi fatiscenti, e alle strade piene di delinquenti e balordi.
La voglia di dimostrare ai propri genitori quanto fosse serio e determinato, però, vinse su tutto. Fece amicizia con Heidi, la prostituta, e con tutti gli altri casi umani del palazzo, realizzando che quell’esperienza lo stava facendo crescere, e gli stava facendo scrivere i pezzi migliori della sua vita.
Ma c’era un limite a tutto, e tre notti consecutive in bianco rappresentavano di sicuro quel limite.
“Ora basta!” esclamò Edward, rotolando fuori dal letto. “Ogni notte la stessa storia!”
Raccolse dal tappeto i jeans e la maglietta che aveva indossato la sera prima, se li infilò, e, inciampando ovunque, si precipitò fuori, sul pianerottolo.
Non vedeva l’ora di trovarsi di fronte a quel Jacob per riempirlo d’insulti. Vuoi dei figli? Accomodati! Ma almeno impara a gestirli, coglione! C’è gente che lavora e ha bisogno di dormire.
Iniziò a bussare furiosamente alla porta del 23B. Pochi secondi dopo, sentì il pianto del moccioso farsi più vicino.
“Chi è?” chiese una voce femminile incerta, quasi impaurita.
Edward lasciò cadere la mano e fece un passo indietro. Per qualche ragione pensava che sarebbe stato Jacob a rispondere, non Isabella. Ma poco importava. In quel momento era pronto a litigare persino con una suora.
“Edward Cullen,” rispose infastidito, “il tuo vicino.”
La porta si aprì di qualche centimetro, e rivelò il volto pallido e minuto di una ragazzina con in braccio un neonato.
Edward ebbe un sussulto, vedendola. Se la immaginava giovane, ma non così giovane.
“Ciao,” disse, quasi impacciato. “Il tuo ragazzo non è in casa?”
Isabella si morse le labbra, nervosa. “Mio marito.”
Edward ebbe un altro sussulto. Quei due erano sposati? Ma se dimostravano a malapena diciotto anni!
“C’è o non c’è?” tornò a chiedere. Aveva voglia di litigare, e di sicuro non poteva farlo con quella ragazzina.
Isabella strinse il bambino a sé ancora più forte. “Perché?” domandò sulla difensiva.
Edward capì dall’espressione del suo viso che Jacob non era in casa, e che forse lei aveva paura.
“No, è che…” Edward posò gli occhi sul bambino che continuava a piangere e a dimenarsi. Tra il moccioso e la madre, non sapeva chi era messo peggio.  “Senti,” sospirò, “a costo di sembrarti maleducato: non c’è un modo per farlo stare zitto? Non dormo da tre giorni per colpa sua…”
L’espressione della ragazza, da diffidente ed impaurita, si fece mortificata. Lasciò cadere la catenella ed aprì la porta. “Mi dispiace,” piagnucolò, riprendendo a cullare il piccolo. “Non riesco a calmarla…”
Calmarla. Quindi era una bambina.
Proprio in quel momento si aprì la porta del 21B, e ne uscì il Signor Volturi, un italoamericano dall’aria poco raccomandabile, seguito dalla moglie in vestaglia e bigodini.
“Allora,” esclamò con forte accento italiano, “qui stiamo cercando di dormire!”
Edward diede uno sguardo schifato alla canottiera bianca sporca di sugo di Volturi, gli sorrise controvoglia, e spinse Isabella in casa. “Sì, sì,” disse, prima di richiudere la porta, “ci scusi, Aro, ha perfettamente ragione. Torni pure a letto.”
Edward tornò a concentrarsi su Isabella, che lo guardava dall’alto in basso, gli occhi scuri sgranati e iniettati di sangue per la mancanza di sonno, la bambina urlante stretto al petto.
Certo che aveva davvero un aspetto orribile. I lunghi capelli neri non vedevano uno shampoo da giorni, e i vestiti che indossava erano stropicciati e sporchi di qualcosa che Edward sospettava essere rigurgito di neonato.
Edward si passò una mano tra i capelli. Si sentiva sfinito come non mai. “Che problemi ha?” chiese, sospirando.
Isabella sembrava sul punto di mettersi a piangere. “Non lo so. Resta buona e tranquilla fino ad una certa ora, poi comincia a piangere.”
“Ha mangiato?” domandò Edward.
“Sì.”
“Ha bisogno di essere cambiata?”
Isabella, seppur stanca, trovò la forza per fulminarlo con lo sguardo. “Certo che no. Lo saprei.”
Edward continuò con il suo breve, e, a quanto pare, inconcludente interrogatorio. “Sta male, è malata?”
Isabella scosse la testa. “No, non credo. Il pediatra dice che sta benone. Si agita solo la notte.”
Edward non sapeva che fare, o cos’altro chiedere. Non sapeva nulla di bambini. E neppure gli interessava saperne qualcosa.
Si guardò intorno, mentre Isabella cullava la bambina che continuava a piangere. “Shhhh…” le sussurrava in un orecchio, riempiendola di tanti, piccoli baci. “Marie, non piangere… per favore… non piangere…”
“Prova a darmela,” disse infine. Non sapeva perché, non aveva mai tenuto in braccio un neonato prima di allora. Ma tanto valeva provare.
Istintivamente Isabella strinse la piccola a sé, allontanandola da lui. “Perché?” domandò sulla difensiva. “Cosa vuoi farle?”
Edward alzò gli occhi al cielo. “Provare a calmarla. Che altro?”
Isabella corrugò la fronte. “Non ci riesco io, che sono sua madre. Come puoi riuscirci tu?”
Edward si stropicciò la faccia, esasperato. “Isabella, non dormo da tre giorni, e credo che anche tu abbia bisogno di riposare. Voglio solo fare un tentativo. Te lo chiedo per favore.”
Isabella lo osservò per qualche istante, i profondi occhi scuri socchiusi, diffidenti. Alla fine si arrese. “Stai attento, però,” disse, porgendogliela. “Non farle male.”
Edward accolse la piccola Marie tra le braccia, e, con estrema cautela, cominciò a cullarla, dirigendosi, senza essere ufficialmente invitato, verso il salotto.
“Quanto ha?” domandò, sedendosi sul divano sfondato.
L’appartamento era piccolo, e un po’ decadente, ma tutto sommato pulito e in ordine.
“Sei mesi,” rispose Bella, sedendosi accanto a lui. “Attento alla testa.”
Edward sistemò meglio la piccola Marie tra le braccia, e poi iniziò a canticchiare la stessa ninna nanna che sua madre gli cantava quando lui e sua sorella Alice erano bambini.
Un paio di minuti dopo, Marie dormiva profondamente tra le sue braccia.
“È un miracolo,” sussurrò Isabella, gli occhi pieni di lacrime per la sorpresa e la commozione. “Sei riuscito a farla addormentare. Come hai fatto?”
Edward si strinse nelle spalle. Non lo sapeva. Sapeva solo che quel silenzio gli era mancato.
“Bene,” disse a voce bassa, per non svegliare la piccola, “missione compiuta. Ora è meglio che torni nel mio appartamento.”
Fece per restituire Marie a sua madre, ma subito la bambina ricominciò ad agitarsi.
“Ok, ok,” disse, stringendola di nuovo a sé. “Stai tranquilla… shhh… tranquilla…”
E Marie smise di lagnarsi.
Edward si guardò intorno smarrito. Tutto questo non stava accadendo a lui. Lui suonava il basso in una band indie‒rock, non faceva la balia!
“Che facciamo?” chiese a Isabella. “Non posso restare qui.”
Lei si strinse nella spalle, imbarazzata. “Potresti dormire sul divano,” propose incerta.
Edward la squadrò da capo a piedi, come se fosse pazza. “Stai scherzando? Vuoi che dorma sul tuo divano con tua figlia in braccio? Non esiste.”
Isabella iniziò a contorcersi le mani. “Non voglio che si rimetta a piangere…” piagnucolò. “Sono così stanca… Edward, per favore…”
Edward sapeva che non era una buona idea. Ma Isabella gli faceva davvero pena. Forse lui non dormiva da tre giorni, ma quella ragazzina non dormiva da settimane.
“Senti, facciamo così,” disse, sospirando, “ora io mi metto su quella poltrona con Marie, e tu dormi un po’ sul divano. Però ti avviso, alle sei e mezza me ne devo andare.”
Isabella gli lanciò uno sguardo pieno di gratitudine che lo colpì diritto al cuore. “Dici sul serio? Lo faresti?”
Edward sorrise. “Tanto ormai, chi dorme più.”
Isabella si distese sul divano, gli occhi stanchi e inquieti fissi su Edward e la piccola Marie.
“Ti posso chiedere una cosa?” le domandò Edward.
Isabella annuì. “Certo.”
“Dov’è tuo marito?”
Isabella abbassò lo sguardo, diventando improvvisamente triste. “Mio marito non abita più qui,” mormorò. “Se ne è andato.”
Edward non seppe cosa replicare.
“Senti,” disse infine, “ora dormi. Ne riparleremo domani.”
Isabella si coprì con una trapunta e si rannicchiò in posizione fetale. Dieci minuti più tardi, dormiva profondamente.
Edward guardò lei, poi la bambina tra le sue braccia, e sospirò profondamente.
In che guaio si stava cacciando?
 
 


Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale. I personaggi sono proprietà di S.Meyer e non vengono utilizzati a scopi lucrativi. La riproduzione anche solo parziale di questa ff non è autorizzata.
 

Grazie ad Elenri per il bellissimo banner!

   
 
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