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Autore: Nimue07    10/02/2014    2 recensioni
[dal sesto capitolo]
-È successo circa un mese fa- cominciò a raccontare -mi sono messo alla finestra ad aspettare.
-Aspettare cosa?- chiese Lauren dubbioso. Convinto che Ryan lo stesse prendendo in giro.
-Ad aspettare che accadesse qualcosa!- esclamò Ryan, cercando di creare la più suspense possibile -Mi sono accorto che accadeva sempre qualcosa di strano di notte, solo nelle notti in cui la luna splendeva nel cielo più visibile.
-È una di quelle storie da campeggio al chiaro di luna?- domandò il ragazzo, drizzando le ruote della sedia in modo da osservare meglio Ryan, mentre quest’ultimo si faceva serio:
-Dubitavo anch’io su quel che vidi quelle notti- disse Ryan sfoderando un suo lato nascosto, che difficilmente tirava fuori -c’è stato un momento in cui credevo di essere impazzito. Ho conosciuto una ragazza …
-No?!- esclamò divertito Lauren -C’era in giro una ragazza a Grain, con cui non eri ancora uscito? Deve essere una forestiera.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo
Il talismano protetto
Vi erano, in un tempo lontano, tre guerrieri nomadi.
Con la loro compagnia viaggiavano di terra in terra, portando con se principi sempre vivi di giustizia, speranza e fedeltà; compivano le loro imprese con onore e rispetto l’uno nei confronti dell’altro.
 
Nel corso di una delle loro spedizioni, trovarono un alberello d’alloro nel mezzo di un paesino povero e desolato, dove la truppa di guerrieri trovò rifugio nel corso di una tempesta.
L’arbusto era avvolto da un alone di mistero. Nessuno lo aveva piantato, eppure era li, rigoglioso da molti anni. Tutti gli abitanti della contrada gli portavano riguardo come fosse un essere umano degno di rispetto.
 
I tre guerrieri, inseparabili, rimasero tanto affascinati dal profumo e la bellezza del piccolo albero, che la notte prima della partenza decisero di strapparne un rametto ciascuno per ricordo.
Nonostante l’alloro fosse una spezia, nessuno aveva mai osato torcerne una sola foglia, per via di una vecchia superstizione, giudicata dai tre guerrieri nomadi una stupida ossessione di vecchi contadini, dediti all’invenzione di vecchie maledizioni inesistenti.
 
La notte prima della loro partenza il cielo era illuminato da una luna nel pieno del suo splendore riflesso, e quando al culmine del suo sorgere divenne la regina del cielo stellato, l’arbusto cominciò a muoversi al soffio di un vento inesistente, le sue foglie divennero lucide, quasi brillanti, ed i suoi frutti simili a ciliegie mutarono in un ghiaccio perennemente intatto.
Tale avvenimento fuori dal comune non fece altro che accentuare la curiosità dei tre guerrieri che, ignorando le leggi della piccola contea, presero con se un rametto ciascuno.
Il primo con l’intento di conservare una parte tutta per se, di quella strana scoperta inaspettata, il secondo con il desiderio nascosto di ricavare danaro, il terzo, se pur indeciso sul da farsi, si fece convincere dai compagni a raccogliere il suo ramoscello  per non apparire un codardo.
 
Nessun cittadino si accorse del loro gesto, così non furono fermati ne accusati, e ripresero il loro cammino all’alba.
*.*.*.
Dopo alcune ore di cammino, la compagnia di guerrieri si accorse che nella cittadina appena lasciata imperversava un violento incendio, e nei cuori dei tre compagni cominciarono a farsi vivi il dubbio e il rimorso.
Potevano davvero essere loro la causa di tale disastro?
Insistettero per tornare indietro ma il capitano non era dello stesso avviso, non sapendo che era il rimorso a spingere i tre cavalieri e non la pena per i poveri abitanti della piccola contrada già tanto disastrata.
Dopo tante insistenze, ai tre fu dato il permesso di tornare indietro per aiutare i poveri contadini con la promessa di raggiungerli successivamente. I cavalieri volarono sui loro destrieri ma arrivarono troppo tardi; il fuoco aveva già inghiottito l’intero villaggio, lasciando intatto con loro stupore solo il piccolo albero di alloro, da sempre simbolo di vittoria aveva avuto la meglio anche di fronte a tale sventura.
Quella che poteva apparire una coincidenza, dava alla povera gente un’importante spiegazione -Se l’albero è ancora intatto, è la sventura del suo potere che ci ha colpito nuovamente!
Disse un uomo a gran voce, indicando l’arbusto odiato e rispettato allo stesso tempo.
Il cavaliere più sciocco dei tre, pensando di fare buona cosa, decise di confessare il proprio sbaglio convinto che, se avesse confessato prima di essere scoperto, i contadini sarebbero stati clementi con loro e la maledizione caduta su questi ultimi sarebbe svanita.
La povera gente, avendo perso anche i pochi averi conquistati dopo l’ultimo incendio a causa di una violazione della loro legge, giudicata assurda superstizione dai viandanti, non accettò di buon grado la confessione del cavaliere che spinse i suoi due compagni a restituire i loro ramoscelli in segno di riconciliazione.
Forse, se avessero restituito all’arbusto i suoi rami mancanti, esso avrebbe riportato la contrada all’antico splendore di una volta.
I cittadini accettarono ma i tre guerrieri non restituirono il torto con gesto sincero; il primo, avaro di soddisfazioni e conquiste, era segretamente contrariato, il secondo, che voleva trarre una compensa da tale scoperta, era pronto a riprendersi non solo il suo ramoscello ma anche quello dei suoi compagni, il terzo infine, agiva per paura di ritorsioni da parte dei contadini e non per il loro bene.
Così fu che i principi di giustizia, speranza e fedeltà furono sostituiti dall’avarizia, tradimento e codardia, non solo nei confronti degli sventurati cittadini ma anche nei loro stessi confronti, annullando il rispetto che univa i tre guerrieri un tempo fieri del potere più grande in loro possesso: l’amicizia e la fiducia.
*.*.*.
L’arbusto non ebbe alcuna reazione al loro gesto, così il capo della contea propose ai tre guerrieri di attenere fino a quella notte, quando la luna piena sarebbe sorta per la seconda e ultima volta in quel ciclo lunare. Se anche in questa occasione il magico arbusto non avrebbe accettato il torto subito, i tre uomini sarebbero stati costretti a partecipare alla ricostruzione degli averi distrutti durante il tremendo incendio senza alcun compenso.
I tre ancora non comprendevano pienamente cosa mai sarebbe cambiato se l’arbusto avesse accettato le loro scuse o meno: di certo, la cittadina non sarebbe risorta spontaneamente dalle proprie ceneri se una misera pianta di alloro avesse accettato delle scuse che non poteva comprendere, non possedendo una ragione pari a quella umana. Ma è proprio qui che i tre guerrieri non più valorosi si sbagliavano: l’arbusto era dotato di intelligenza, facendosi beffe di loro li aveva messi alla prova mostrandogli un tesoro che dovevano saper custodire se mai ne avessero preso possesso.
Ormai quei ramoscelli appartenevano ai tre guerrieri e non potevano restituirli; quella notte, quando i tre uomini furono lasciati soli con l’arbusto, l’albero non accettò nuovamente l’invito a riprendersi i suoi gioielli. Quando la luna illuminò l’alloro, esso si trasformò come fece la notte precedente, e parlò loro dicendo:
-La vostra irresponsabilità non avrà una reale punizione, poiché avrete la possibilità di redimervi- Trasmise l’arbusto alle loro menti, sorprese e spaventate –I frutti che mi avete sottratto diventeranno unica cosa, diventerà un tesoro da custodire, che porterà al suo custode poteri che un uomo in natura mai potrebbe ereditare.
I tre guerrieri, sempre più interessati alle parole dell’arbusto, videro trasformarsi sotto i loro occhi i tre ramoscelli, posati alla base dell’alberello che avevano osato sottovalutare. Al loro posto, comparve un diamante dalle sfumature grezze, che prese la forma di una foglia di alloro; la fogliolina si illuminò ed il suo picciolo sottile si dilungò a formare un piccolo anello, dandole la forma di uno strano ciondolo dall’aspetto fragile.
Non lasciandosi sfuggire la sterile spiegazione dell’alloro magico, i tre si avvicinarono furtivi al ciondolo per prenderne possesso e sfruttarne i poteri, senza ancora sapere a cosa avrebbero comportato; ma i loro tentativi di conquista furono vani, perché nessuno dei tre riuscì a tenere nelle proprie mani la gemma per più di qualche istante.
La gemma era fatta di un ghiaccio che scottava al tatto, così preso dalla rabbia il primo dei tre cavalieri si lamentò di tale affronto –Per quale motivo creare un amuleto unico, che non possiamo tenere con noi? Sarebbe stato meglio lasciare i ramoscelli com’erano in precedenza!
Ciò che i tre non comprendevano, erano i sentimenti con i quali avevano restituito il mal torto, sentimenti corrotti dall’avarizia. –L’amuleto sopravviverà solo in presenza di un cuore puro, dote che voi non possedete più – spiegò l’arbusto paziente –Un uomo può essere colto di sapere, ma una mente ricca di nozioni non fa un cuore ricco di buoni sentimenti.
I tre si osservarono a vicenda, come alla ricerca di una risposta alternativa –Cosa dovremmo fare adesso per redimerci dal nostro sbaglio?- chiese il più codardo dei tre –Se non possiamo neanche sfiorare l’oggetto che ci hai donato!?
A queste ultime parole l’alloro si infervorò, anche se non era capace di comunicare come gli uomini, sapeva trasmettere il proprio diniego nelle menti dei guerrieri intimoriti. –Chi mai vi ha dato il diritto di privarmi dei miei preziosi rami!- ruggì nelle loro menti –Chi mai vi ha detto che voi, meschini, codardi, ingrati uomini disonorevoli avreste diritto ad un tale tesoro?- gli sgridò impaziente –Non posso riprendere con me il vostro mal torto! Dovrete trovare un essere umano in grado di custodire l’amuleto che voi avete collaborato a creare. Se mai non avesse un protettore, cadrà la sventura sulla razza umana e sarà solo vostra la colpa.
I tre guerrieri fecero fatica a restare sul posto senza fuggire, tramortiti dal tono delle notizie ricevute e dal timore che sembrava non voler abbandonare i loro animi, pur sempre avidi di potere. –Come trovarlo mio signore?- chiesero ubbidienti, divenuti vermi al cospetto dell’arbusto che si rivolse con più cortesia –Cercate e troverete, la pietra stessa vi indicherà chi ha le giuste attitudini. Raccoglietela con guanti di cuoio, non mostratela a nessuno se non al prescelto, e fate in modo che esso corregga i vostri errori, con i suoi pregi.
Il primo dei tre, vuotò la piccola sacca legata alla cintura, la rivoltò e la usò come guanto per raccogliere l’amuleto che divenne per loro un tormento. Una volta raccolto, non ebbero da ridire, ne fecero richieste, nel timore di scegliere nuovamente le parole sbagliate.
La luna fu velata da una nube passeggera, portando con se una fitta pioggia, che il mattino dopo non donò solo la ripresa del piccolo bosco circostante la contea, ma anche una veloce ristrutturazione della cittadina che in pochi giorni si ristabilì, ritrovando magicamente il vecchio splendore.
*.*.*.
I tre uomini decisero di non ritornare sui loro passi, restando  il più vicino possibile alla locazione del magico alloro.
Furono ben accolti dai cittadini non più sventurati, ritenendoli i loro salvatori, dimenticarono che furono proprio loro a dare inizio all’ultima disavventura; non sapendo quale segreto serbavano i tre che, come promesso, non rivelarono a nessuno il patto stabilito con l’alloro.
 
I giorni passarono lenti, mentre l’attesa dei tre cavalieri aumentava. A turno si passavano il sacchetto di cuoio, contenente il tesoro che ambivano a sfruttare.
Il loro intento, benché incentrato sul rispettare la regola dell’alloro, ancora non aveva dei buoni sentimenti. Il loro progetto era scovare un cuore puro sprovveduto che, come possessore, gli avrebbe dato il consenso di utilizzare la gemma.
*.*.*.
Ogni notte i tre si recarono dinanzi all’alloro, tanto temuto dai cittadini dopo il tramonto che non osavano avvicinarsi ad esso, sommergendo i tre guerrieri di raccomandazioni che gli uomini fingevano di ascoltare e comprendere.
 
Una notte insolitamente buia, la luna non fece capolino nel cielo, dando spazio alle piccole stelle che poco illuminavano gli ansiosi guerrieri. Essi non litigavano su chi dovesse possedere la pietra quella notte dinanzi all’alloro, quasi con timore che gli stesse osservano e giudicando.
Proprio in quella notte buia avvenne la scelta dell’amuleto, che fece comprendere il suo bisogno di attenzione illuminandosi di luce propria.
Il primo dei tre guerrieri che aveva in custodia il sacchetto di pelle quella sera, spiò al suo interno per cercare di captare un messaggio dal magico oggetto che, al contrario dell’alberello, non proferì parola.
D’un tratto parte dell’attenzione dei tre uomini cadde su degli schiamazzi poco distanti; al suono di tali lamenti, la piccola foglia di ghiaccio avvampò in modo ancora più intenso: i tre capirono che dovevano seguire quelle voci se volevano una spiegazione, così chiusero per bene la sacchetta di cuoio che non fece trasparire la luce dell’amuleto, e si allontanarono dall’arbusto.
 
La voce udita apparteneva ad un uomo, che nel mezzo della piazza del paese, imperversava con le sue grida su un ragazzo dagli abiti succinti e l’aspetto trasandato.
L’uomo sgridava apertamente il ragazzo, che non poteva avere più di dodici anni, quest’ultimo lo ascoltava senza interromperlo restandosene al suo posto, se pur con sguardo accigliato, poco visibile sotto gli ispidi capelli troppo lunghi e  poco più scuri della carnagione, resa olivastra dalla troppa permanenza alla luce del sole.
I tre uomini ascoltarono attenti la conversazione a senso unico dell’uomo, per assorbire le più informazioni possibili: scoprirono che il ragazzo era un nomade in cerca di fissa dimora, senza famiglia ne averi. Tornava spesso nella contrada, trovando rifugio del loro piccolo bosco, e sempre mandato via con la forza ritenuto un vagabondo, solo in grado di rubare e far danni.
 
Erano tempi in cui povertà era sinonimo di criminalità, e i cittadini ben voluti non amavano mischiarsi al “diverso”, perché ritenuto sospetto e pericoloso. Eppure era proprio al ragazzo che l’amuleto aveva reagito; non certo poteva riferirsi al’uomo che adesso spintonava il ragazzino, i tre guerrieri lo avrebbero notato nel corso dei giorni passati in paese, che contava non più di duecento anime.
Uno dei tre guerrieri si avvicinò ai due che ormai davano spettacolo, avendo svegliato il vicinato con lamenti e schiamazzi
-Cosa ha fatto questo ragazzo per meritare tale trattamento?- domando il guerriero con aria virile guardando il cittadino infuriato negli occhi, che presto perse il suo temperamento aggressivo. –È un delinquente mio signore!- spiegò l’uomo con aria solenne.
Ormai i tre guerrieri erano delle autorità nell’esile cittadina, a loro veniva portato rispetto e ammirazione.
Il loro intento adesso era studiare il ragazzo per constatare la purezza del suo cuore.
Il guerriero parlò in difesa del piccolo squattrinato, nella speranza che fosse in suo potere il permesso di tenerlo con se, con la promessa di educarlo e renderlo un uomo onorevole.
I tre guerrieri il mattino seguente, dovettero mettere agli atti il loro proposito con il capo della contea che, dopo poche insistenze, accolse il loro piano di ripresa sul giovane vagabondo solo se si fossero assunti ogni responsabilità su di esso, e sulle probabili difficoltà che avrebbe portato alla cittadina.
*.*.*.
Il giovane, nato e cresciuto da selvaggio con animo gentile e aggressivo al tempo stesso, fece fatica a fidarsi dei tre uomini sospettando sulla loro buona fede.
Tutti in paese lo chiamavano Dark, non come segno di oscurità, ma di sconosciuto, invisibile, come il buio che nasconde cose a te altrimenti famigliari: questo nascondeva l’animo di un ragazzo giudicato degno di possedere un amuleto prezioso.
 
Per la sua tenacia, il ragazzo veniva chiamato dai suoi tre mentori “piccolo re”; non rendendo partecipe il ragazzo sulla verità che circondava il loro affetto nei suoi confronti, piccolo re passo alcuni giorni in compagnia dei tre guerrieri, che gli raccontarono delle loro imprese valorose, delle quali il ragazzo era fortemente affascinato.
*.*.*.
Così, arrivò la notte in cui i tre cavalieri portarono il ragazzo al cospetto dell’alloro magico. Era una notte di luna piena e, come avvenne il mese precedente, i tre uomini speravano di osservare l’arbusto prendere vita.
Così fu: le su foglie cominciarono a danzare e catturare i riflessi della luce lunare, come bagnati da una rugiada brillante, i suoi frutti si fecero di ghiaccio, ma la sua voce non si fece udire.
Piccolo re osservava stupefatto, incuriosito dal perché di ciò che accadeva, rivolse lo sguardo ai suoi salvatori, meravigliato dal loro stupore assente, cominciò a capire che tale avvenimento non era a loro inaspettato, e che i tre avessero un piano su di lui.
 
Senza badare al ragazzo, i tre guerrieri si inginocchiarono dinanzi all’arbusto, e posarono sotto le sue fronde il sacchetto di cuoio, contenente lo strano ciondolo –Come promesso, vi abbiamo riportato la gemma con un cuore puro da lei scelto- proclamò il primo dei tre.
Il ragazzo, stupito dal loro comportamento, gli interrogò con la solita sfacciataggine che i tre uomini avevano imparato a conoscere: -Per quale motivo vi inginocchiate, è forse Dio questo alberello?- domandò, a parere dei tre guerrieri, senza rispetto alcuno.
-Il ragazzo ha ragione!- intervenne finalmente l’alloro nelle menti dei quattro presenti –Ci si inginocchia solo al cospetto di Dio, ed io non lo sono di certo: continuate a portare rispetto solo per timore. Avete ancora tanto da comprendere e imparare- sentenziò calmo l’alloro.
I tre uomini si destarono immediatamente, guardando l’alloro con espressioni interrogative.
-Ma avete mantenuto la promessa data: avete trovato un cuore degno e puro di custodire la pietra di ghiaccio!-  si congratulò, di fronte allo stupore del ragazzo che cominciò a sentirsi ingannato dai tre uomini, che lo avevano salvato per secondo fine.
–Ora a noi ragazzo. Come ti chiami?- si rivolse l’alloro al piccolo re che rispose con un sorriso beffardo sul viso:
-Non ho memoria del mio vero nome!
-Allora come vieni richiamato?
-I cittadini mi chiamano Dark, come il buio. I miei salvatori si divertono a chiamarmi piccolo re.
-Un re squattrinato da quanto hai raccontato ai tuoi compagni alberi del bosco.- disse l’alloro
Il ragazzo si fece rosso in viso, come fosse stato scoperto a compiere un misfatto –Tutto sommato …- proseguì l’arbusto
–Quelli che chiami tuoi protettori hanno ragione, tu sei un piccolo grande re
-Come posso esserlo, povero di averi come sono?
-Perché sto per donarti un piccolo grande tesoro. Se te lo dono, e solo grazie a te
-Cos’è?
-Osserva tu stesso- spiegò l’alloro sollevando dal terreno una delle sue radici, per avvicinargli il sacchetto di cuoio che fece cadere nelle sue mani aperte. –Aprilo!- intimò l’alberello, con la sua voce di vento.
Il terzo dei tre guerrieri, fece istintivamente un passo in avanti, non per prendere la piccola gemma, ma per impedire al ragazzo di farsi del male, ricordando il segno lasciato dall’oggetto sul palmo della sua mano.
Comprendendo il sentimento che spingeva il guerriero, l’alloro fu felice di comprendere che il suo progetto cominciava già ad avere i suoi frutti.
Piccolo re aprì il sacchetto, vuotò il suo contenuto nel palmo della sua mano destra e non accadde nulla, se non uno splendore improvviso da parte della piccola foglia, come fosse contenta di essersi congiunta al suo custode e possessore tanto atteso.
–Sarai responsabile di questo amuleto, che da ora in poi sarà un tutt’uno con te e la tua anima- si affrettò a spiegare l’alloro –La tua purezza non è per via della tua età; ricorda di sfruttare le tue qualità in modo saggio e responsabile, e la gemma te ne sarà grata, prendendo somiglianza dalla tua anima. Se agirai con giustizia, essa sarà giusta, come i poteri che ne scaturiranno.
-Come faccio a comprenderne il potere?- chiese piccolo re leggermente intimorito
-Portala sul cuore e, se saprai ascoltarli entrambi, con l’esperienza saprai cosa fare. La pietra crescerà con te, e quando verrà il momento di tramandarla, insegnerai al futuro custode come utilizzarla- continuò –Ricorda: più che possessore, sei il custode di un grande potere che va protetto anche con la propria vita.
Il ragazzo ascoltò con la massima attenzione, mentre studiava l’elegante aspetto della pietra. Quelle furono parole che non dimenticò mai.
La luna cominciò a nascondersi, e l’alloro perse pian piano il suo aspetto soprannaturale.
Piccolo re sfilò una sottile corda da un tronco che, ormai robusto, non aveva più bisogno del sostegno di un bastone puntellato; porto al collo la cordicella, vi fece scorrere l’anello della pietra di ghiaccio e se la posò sul petto, al riparo sotto la camiciola. In contemporanea, i tre guerrieri tastavano affannati ogni lembo della corteccia del piccolo albero tornato alla normalità, alla ricerca di altre spiegazioni che non arrivarono.
*.*.*.
Quello di piccolo re era un dono al quale non poteva sottrarsi.
Gli costò impegno e fatica, e quando crescendo si accorse che quelli che chiamava i suoi tre salvatori, attendevano la sua morte per prendere possesso della pietra di ghiaccio, il suo istinto lo spinse ad un gesto estremo: in una notte di luna calante, la pietra penetro nel suo petto davanti agli occhi attoniti dei tre guerrieri, che non erano stati capaci di comprendere l’insegnamento posto come loro seconda possibilità.
La pietra emanò una luce talmente potente che li accecò, rendendoli dei vegetali, incapaci di provare emozioni, e di badare a loro stessi autonomamente.
Piccolo re ebbe pena per loro, se ne prese cura sino al loro decesso in tarda età, ma da allora smise di fidarsi della gente con facilità, ed il suo istinto continuava a tenerlo lontano dai luoghi affollati durante la notte, perché il timore che la pietra potesse cadere nelle mani sbagliate, spingeva il potere di quest’ultima a far del male a chi li fosse accanto, quando la notte, la luna faceva presenza nel cielo, rendendolo schiavo dei suoi istinti.
*.*.*.
Nelle notti di luna nuova, la pietra usciva dal petto di piccolo grande re, e in una di queste notti che il suo cuore prese a battere per quello che sarebbe stato il suo grande amore, di cui persino la pietra si fidava.
Avvenne il tempo di andare avanti e piccolo re, dopo aver provato il sentimento dell’amore, provò l’affetto di essere padre. Spiegò ai suoi figli la sua vera natura oltre l’apparenza,  insegnò loro come accostarsi ai compromessi della pietra di ghiaccio, che un giorno avrebbe tramandato al maggiore, che l’avrebbe tramandata a sua volta ai suoi figli.
*.*.*.*.*.*.*
 
Capitolo 1
                        Libero di …

 
Se ciò che voglio neanche io conosco,
Come potrò vedere in lontananza il fine del mio progetto?
Che cosa ne sarà di me, se mi farò trasportare dal vento
O prenderò possesso di questa gabbia in cui mi sono rifugiato?
 
La codardia non voglio diventi il mio mestiere,
affrontare il la vita come fosse una sfida con me stesso, proseguendo oltre
rallentando, senza fermarmi:
questo voglio fare,
per il resto ci sarà tempo.
Il tempo necessario a comprendere chi sono nel profondo
E chi voglio diventare.
 
Se parte dal cuore
Sarà certamente per me la via giusta!
 
 *.*.*.*.*.*.*
7 ˞ۥ Maggio ˞ 1997
Da questo giorno partirà la vostra esplorazione, alla ricerca dei misteri che circondano un piccolo paesino chiamato Grain. Contrada immersa in quella che un tempo era aperta campagna.
Vi racconterò di un ragazzo, che giaceva accaldato di fronte ad un ventilatore nella sua piccola ma pur sempre rispettosa villetta. Ryan era il suo nome e nei sui diciassette anni, pieni di fermento, scoperta e incomprensioni, si era costruito una fama di poco rispetto nella cittadina. Adocchiato come piccolo teppista alle prime armi, era per il padre ex poliziotto un disonore.
- Stai monopolizzando il ventilatore?- si lamentò Arthur Omalley, zoppicando verso il figlio sdraiato sul suo letto, con il ventilatore puntato addosso –Riportalo immediatamente al piano i sotto! L’ho comprato io, con i miei risparmi, e mi appartiene.
Era un uomo aitante un tempo, fiero del suo lavoro e dell’importanza del suo ruolo in polizia. Il lavoro era tutto per lui. Adesso aveva solo un oggetto sulla mensola a ricordargli quello che era; una medaglia al valore che non compensava la perdita subita durante una violenta sparatoria, nella quale si ruppe una rotula, incidente che lo rese storpio.
Pensione anticipata ed un bel soprammobile luccicante, che fa a mala pena da balsamo alla ferita morale di essere mandato via dal proprio ruolo, guadagnato con tanta fatica.
La reputazione era l’unica cosa che gli restava, ed era deciso a difenderla con le unghie e con i denti. Reputazione che suo figlio Ryan stava gettando al vento. Infangando il buon nome degli Omalley.
 *.*.*.
Le abitudini di Ryan comprendevano svaghi e pochi impegni, sino al giorno in cui, una delle sue peripezie prende un’angolazione più seria.
Grain era una cittadina che forniva pochi svaghi per il divertimento notturno. Vi era un solo Pub nei dintorni, dove il ragazzo passava la gran parte delle sue serate mondane, tra mille conoscenti e rari amici sinceri. In una di queste sere, preso dalla noia, il ragazzo decise che era il caso di movimentare l’atmosfera sfidando un noto delinquente della zona a bigliardo.
Una partita a bigliardo non ha mai fatto male a nessuno, ma Ryan aveva lo strano potere di portar guai in ogni gesto da lui compiuto; non era certo un’esemplare di bravura in quel gioco, ma il suo orgoglio non gli permetteva di ammetterlo neanche a se stesso. Fu così che perse e non poté non rispondere all’esultanza del vincitore, con una provocazione bella e buona sulle origini lavorative poco pulite della madre dell’uomo.
Una battuta abbastanza esilarante da far nascere molte risa all’interno del piccolo locale, dove tutti avevano le orecchie ben tese. L’avversario, da vincitore che era, a causa di una battuta diviene lo zimbello di tutti.
Da specificare che la sua corporatura era decisamente più massiccia di quella del nostro Ryan che, come sempre, troppo tardi si rese conto del suo azzardo.
 
Si sa! In certe circostanze le risse nascono con una facilità impressionante. In meno di pochi secondi nel locale vi erano già tre tipi di comportamenti ben delineati: chi si nasconde, chi le da e chi le prende.
-E tu, a quale dei tre gruppi appartenevi? – domanda Christopher Buld a Ryan, passeggiando per i sentieri del parco di Grain il giorno successivo.
-Ancora non mi conosci?-  replica Ryan con fare strafottente –Non appartengo a nessuno dei tre gruppi. Ero già fuori dal locale! Non ci tengo a rovinare il mio bel visino.- sorride beffardo piazzandosi di fronte all’amico –Per chi mi hai preso?
Christopher era quello che si poteva definire un amico/confidente, praticamente l’unico vero amico di Ryan, pur non condividendo le stesse passioni.
Chris non aveva mai conosciuto i suoi genitori, da sempre viveva nella casa famiglia ai confini di Grain, dove le rigide regole gli impedivano di far troppo tardi la sera. Al contrario, Ryan non aveva la minima regola, o meglio, non le rispettava minimamente.
I due, completamente diversi, sia nell’aspetto che nel carattere, risultavano a prima vista una coppia di amici decisamente improbabile. Christopher era un ragazzo studioso, dedito agli impegni famigliari, rispettoso e prudente. Ryan sguazzava nella sua indipendenza di diciassettenne, sfruttandone ogni anfratto di malizia e sarcasmo che i così detti adulti non sopportavano.
Eppure i due erano da sempre inseparabili; unica cosa ad accumunarli era il loro modo di nascondersi al mondo, cercando di apparire differenti da quello che erano in realtà, aspetto che l’uno leggeva nell’altro, incapaci di vederlo dentro loro stessi, come fosse un segreto inconfessabile.
-Credi che Paul Crow si segnerà ciò che hai fatto?- domandò Christopher
-Paul probabilmente neanche sa che ero nel suo locale ieri sera- taglia corto Ryan senza la minima preoccupazione al riguardo.
*.*.*.
In realtà sarebbe stato il caso di preoccuparsi, perché quella mattina, prima della sua fuga di casa in tutta fretta, per sfuggire alle grida del padre, il capo della polizia George Care fece una visita, non proprio di cortesia, a casa Omalley.
Care era un vecchio collega di Arthur Omalley, da sempre disposto a dargli una mano in memoria dei vecchi tempi, quando quel casinista del figlio ne combinava una delle sue.
Questa volta però, si stava cacciando in un guaio più grosso di un semplice sasso lanciato alla finestra di una vecchia signora la sera di halloween. Paul Crow: il proprietario del pub protagonista dei misfatti causati da una rissa, dopo aver raccolto diverse testimonianze e una prova tangibile, aveva deciso di citare Ryan per danni.
Il ragazzo restò ad ascoltare il poliziotto con finto interesse, mentre ad ogni parola suo padre stringeva sempre più i pugni per la rabbia; il ragazzo, che aveva già tratto le sue conclusioni, se ne stava stravaccato sulla poltrona senza preoccuparsi minimamente delle informazioni fornitali. Gli importava solo della così detta prova tangibile: si trattava della sua medaglietta metallica acquistata da un rivenditore ambulante, su di essa con un coltellino svizzero Ryan era stato capace di segnare solo le sue iniziali, a causa dello spazio limitato. L’iniziale del suo cognome era però sbarrata da una x in segno di protesta.
L’oggetto gli era stato restituito, ma il suo ritrovamento dimostrava la sua presenza all’interno del locale.
Ryan ridacchiava ogni qual volta veniva nominato il termine “indagini”, era una parola troppo grossa per una piccola questione risolvibile in un paio di giorni. Ciò che non riusciva a comprendere era l’importanza delle conoscenze del padre, senza esse non l’avrebbe avuta franca nelle sue disavventure precedenti.
Arthur appariva apatico nel suoi momenti di riflessione. Quel suo comportamento taciturno non portava mai a qualcosa di buono.
 
Il capo della polizia levò le tende rimandandoli ad un appuntamento successivo, prima dell’incontro in tribunale se mai Paul avesse deciso seriamente di sporgere denuncia.
L’avvertimento gettato li alla sprovvista durante il saluto, era un tentativo da parte di Care per far preoccupare il ragazzo.
Ci riuscì ma con poco successo, perché Ryan ci pensò su circa trenta secondi con aria leggermente preoccupata, prima di ritornare al suo solito sorrisino beffardo, come se qualcuno all’improvviso sarebbe sbucato dall’aiuola gridando: “Candid camera!”, al suo posto, ci fu un gesto repentino del padre che chiuse la porta di casa con uno strattone.
Il suo sguardo era gelo puro mentre avanzava verso Ryan che indietreggiava leggermente.
-Tu!- fa l’uomo puntando il dito indice alla fronte del ragazzo –Sei un disonore per la nostra famiglia!-
-Quale famiglia?- puntualizzò Ryan sollevando un cipiglio che leva dalle mani del padre un ceffone di tutto rispetto, lasciando stordito il ragazzo per qualche secondo; non certo per il ceffone ma per lo stupore di aver ricevuto uno schiaffo dal padre che raramente alzava le mani.
-Quant’è vero che sei mio figlio, ti farò diventare un uomo rispettabile– disse deciso  -comincerò subito a prendere provvedimenti.
-Lo fai per me o per quello che la gente dirà di noi?-  azzardò Ryan
-Dirà di te vorrai dire. Sono un uomo rispettabile io, non è colpa mia se mi è nato un figlio delinquente-
-Delinquente addirittura! Non ho mica ammazzato nessuno…manco picchiato a dirla tutta- gesticolò Ryan tranquillo -Dovresti essere fiero di me!
-Per quale motivo di grazia?
-Sono stato abbastanza intelligente da scappare dal locale a tempo debito-  confessò Ryan senza problemi
-Ammetti che sei stato tu a provocare la rissa!- fa il padre quasi stupefatto
-Quello che ho provocato è un tutto muscoli senza cervello, lui dovrebbe essere indagato!- sta volta Ryan era serio, finalmente cominciava a sentire il risentimento di un’accusa per lui ingiusta.
Arthur allora parlò, sfoderando uno dei suoi rari momenti di saggezza paterna:
-Se una tigre del circo sfugge al suo domatore ferendo degli spettatori innocenti, scredita il circo con cattiva pubblicità, di chi è la colpa?- spiegò calmo l’uomo -Del domatore o della tigre?
Ryan preso alla sprovvista non rispose immediatamente come era solito fare. Quella domanda sapeva di trappola.
-Deve per forza esserci un colpevole?- rispose Ryan –La colpa può non appartenere a nessuno dei due.
-Vero in parte- rispose Arthur con un sorriso –C’è sempre qualcuno che deve prendersi le responsabilità. Il colpevole è il proprietario del circo.
-Non mi dire!?- lo sbeffeggiò Ryan, già stufo di quel momento intellettuale –Perché mai?
-Perché non ha saputo educare a dovere il domatore, rendendosi responsabile di un’incompetente.
La questione ormai era chiara, per quanto i due si odiassero, erano pur sempre figlio e padre, quest’ultimo era suo responsabile sino a quando Ryan non avesse raggiunto la maggiore età. Cosa che sarebbe avvenuta a distanza di pochi mesi.
 *.*.*.
Arthur impone nuove regole, alcune delle quali sfiorano il ridicolo, tanto da rendere la punizione del figlio esagerata.
Il nuovo motto è: prevenire è meglio che curare. Se fino a quel momento non aveva saputo farsi ascoltare, adesso pretendeva rispetto senza in convenevoli.
Rinchiude il figlio in casa, rimuovendo ogni sua possibilità di svago; a Ryan viene persino reclusa la possibilità di andare a scuola per le ultime settimane del semestre. I colloqui come i risultati scolastici erano disastrosi, tanto da non dare molte speranze di promozione. Benché la scuola era un solo punto di incontro per Ryan e nulla più, il ragazzo arriva a replicare il diritto alla sua istruzione, minacciando il padre di riferirsi ai servizi sociali, Arthur però, prevedendo tale ribellione tirò fuori un documento che accertava il suo ritiro da scuola compilato una settimana prima, quando ancora Ryan non aveva commesso alcun crimine.
Le grida ormai regnavano sovrane in villa Omalley, quando Arthur si metteva in testa una cosa non la lasciava andare facilmente, più Ryan si ribellava più esso era meno disposto ad allentare la corda.
*.*.*.
Ryan, abituato ad una vita mondana piena di attività lecite e non, prova seria fatica a restare in casa giorno e notte, con la spesa cronometrata del mattino come unica possibilità di uscita.
Abituatosi alla sveglia all’alba non riusciva però ad abituarsi alla solitudine di restare senza far niente. Quando fa notare tale sentimento al padre, con la speranza di ricevere almeno un permesso per andare a trovare Chris, il ragazzo si ritrova con pezza, ramazza e uno scadente detersivo in mano:
-Se ti annoi vai a pulire la soffitta- conclude sbrigativo il padre mentre Ryan sbuffa scocciato, chiedendosi per quale motivo gli dia ancora retta.
 
La soffitta si rivela un posto decisamente impolverato ma interessante; Ryan finisce col passare tutta la mattina a ficcanasare tra la marea di ricordi abbandonati in quell’immenso stanzino.
Ritrova una vecchia scatola gommata, con ricordi dell’infanzia dimenticati quasi del tutto. Ogni singolo oggetto in quella scatola ha una storia: il vecchio salvadanaio a forma di tartaruga vinto a una fiera, vecchi fumetti, conchiglie raccolte sulla riva del mare conservate come fossero un tesoro prezioso, computisterie piene di vecchi disegni, scarabocchi ed esercizi di scrittura, biglie e macchinine assortite sparse qua e la; mentre pensa a quanto possa guadagnarci su e-bay con quella roba, il suo sguardo cade su di una vecchia scatola di scarpe poggiata in terra li vicino, non è la scatola in se ad attirare la sua attenzione, ma la scritta su di essa ancora visibile nonostante la polvere: Roba di Ryan. Quella non era la sua scrittura, ne si ricordava di una scatola come quella riposta in soffitta.
Ryan utilizzò per la prima volta quella mattina lo straccio umido, per ripulire e sollevare il coperchio della scatola.
All’interno non c’erano scarpe. Un piccolo oggetto attira subito la sua attenzione, un fermaglio di lamina e stoffa ormai sgualcita che Ryan comincia a rigirarsi tra le mani come fosse una reliquia.
Come in un sogno ricordò i tempi in cui sua madre andò via di casa lasciandoli soli, se pur contro la sua volontà. Mentre suo padre faceva sparire ogni sua fotografia, Ryan, allora solo un bambino, nascose quel fermaglio prima che il padre lo trovasse. Un fermaglio a clip, con un nastro di stoffa azzurra a formare un fiocco dalle nocche perfette, nonostante la sua semplicità era il fermaglio più amato dalla madre; probabilmente perché l’azzurro era il suo colore preferito, anche se Ryan amava pensare al momento in cui fu acquistato, spesso si faceva raccontare tale storia da sua madre, era un periodo gioioso per la famiglia Omalley, quando ancora la si poteva chiamare famiglia.
La storia che gli veniva raccontata parlava di una vacanza in Italia, paese di origine di sua madre. In riva al mare Sofia diede al marito Arthur la bella notizia: presto un bambino sarebbe arrivato nelle loro vite, l’uomo ne era così contento che non smetteva di sorridere, quando risalirono lungo la salita che portava in paese, il padre di Ryan acquistò il fermaglio per farne dono alla sua amata.
Quei tempi felici erano troppo lontani da apparire reali in quel momento, tanto che Ryan cominciò a dubitare sulla veridicità di quel racconto che era la sua favola prediletta da bambino. Quando rimase in compagnia del solo padre, Ryan lo pregò di raccontargli la storia del fermaglio, come faceva sua madre ma lui si limitò a sgridarlo -Smetti di pensare a lei, ormai e come non esistesse, dimenticala! Sofia Vento non è più tua madre- gli urlò strappandogli l’oggetto dalle mani.
Tra lacrime di rabbia quel bambino urlò contro il padre che quando sarebbe stato grande abbastanza, sarebbe volato via da lui, grazie al vento che scorreva nelle sue vene, ereditato da sua madre.
 
Ryan scosse la testa per allontanare l’intorpidimento causato da quei brutti ricordi. Tornò a rovistare nella scatola dove trovò un binocolo semi professionale, gli era stato regalato dal padre per il suo decimo compleanno. Ryan aveva richiesto in dono un fucile a piombini ritenuto inadatto dal padre, che aveva optato per un binocolo professionale abbastanza buono, conoscendo la passione del figlio per l’esplorazione nei boschi vicini alla loro abitazione. Ryan non volle dare la minima soddisfazione al padre nonostante gli piacesse il dono, lanciandoglielo contro una volta scartato. Quel gesto di pura ripicca spinse suo padre a riprendersi il binocolo, promettendogli di gettarlo via, lasciandolo senza alcun dono.
Eppure quei due oggetti non erano mai stati gettati via come promesso; forse quel comportamento burbero era una bella sceneggiata per far comprendere la sua autorità. Una domanda però incombeva: perché conservarli in una scatola col suo nome? Un giorno probabilmente gli avrebbe restituito tali oggetti. Magari quando anche lui avrebbe mantenuto la promessa di spiccare il volo come sua madre, anche se ormai quelle frasi prendevano un significato ben più drammatico.
Senza aspettare il giorno in cui avrebbe spiccato il volo, Ryan prese con se la scatola e se la portò nella sua stanza.
Per ripicca aveva rifiutato il dono, ed ora, sempre per ripicca, lo riprendeva con se.
*.*.*.
Presto il ragazzo si crea un nuovo passatempo per ingannare le ore passate in silenzio nella sua camera, ormai sprovvista di radio e tv. Si diverte a spiare i passanti dalla sua piccola finestra con l’aiuto del binocolo ritrovato.
La visuale non è delle migliori, ma quel che vede è da lui studiato nei minimi dettagli; scopre che gli abitanti del suo quartiere seguono sempre la solita routine, senza mai variare le loro abitudini, la loro vita programmata non pare preoccuparli, felici della loro assenza di originalità e imprevedibilità. Sarebbe diventato anche lui così?
Ovviamente no! Per questo tutti lo giudicavano per il suo comportamento e le sue scelte. Era diverso da quella gente, non lo capivano, e Ryan era contento così, contento di essere diverso, di uscire fuori dagli schemi definendosi un fuori classe invidiato dalle masse che non avevano il suo stesso coraggio, che non si ribellavano.
Contro cosa si ribellava Ryan però era un mistero anche per lui. L’importante era ribellarsi, perché le cose non andavano come voleva. Se avesse dovuto stilare una lista delle cose che non vanno, sarebbe stato capace di metter su un poema, lasciando però il foglio delle possibili soluzioni vuoto, se non per poche frasi: la generazione passata ha fatto fiasco, per questo tutto va a rotoli. Nessuno pare interessarsi a questo in questo buco di contrada, dove ognuno si fa i fatti suoi, facendo di questioni insignificanti grandi problemi.
Praticamente le solite frasi di circostanza, che tutti siamo capaci di pronunciare, alle quali pochi sono capaci di porre un rimedio.
 
Ryan continuava a sbirciare i cittadini: il vecchietto in bici che passa alle tre del pomeriggio sotto il sole cocente, giusto per dare una sbirciata ai giardini di famiglie ignare di avere un critico di giardinaggio nel quartiere, pronto ad assimilare ogni minima anomalia, per avere qualcosa da dire durante il caffè con suoi vecchi compari, dalle menti e arti intorpidite dall’anzianità. La donna di casa stressata dalla vita domestica, che approfitta di portare fuori il cane per sfogare un po’ di tensione, delle volte Ryan l’ha vista persino parlare da sola. La coppietta di ragazzi che si fa la solita passeggiata vicino casa, forse a uno dei due è stato vietato allontanarsi, giorno dopo giorno segnano la corteccia di ogni albero del viale con le loro iniziali all’interno di un cuore trafitto da una freccia –Incurabili dementi!- replica Ryan che non ha mai sopportato gesti sdolcinati di quel genere. Lui personalmente non ha mai avuto bisogno di tali espedienti per entrare nelle grazie di una ragazza. Gli bastava uno sguardo ed erano sue, quelle smancerie erano solo per i perdenti, convinti ancora che si nasconda l’amore dietro l’attrazione.
Una coppia era come un fuoco di paglia: si accendeva velocemente grazie ad una piccola scintilla, consumandosi inevitabilmente in fretta. Se si insisteva nel mantenere vivo quel fuoco, con ogni cosa che capiti a tiro, si finisce col bruciare materiali che portano cattivo odore finendo soffocati. Almeno questa era la filosofia di Ryan.
Ad un orario imprecisato del pomeriggio, ecco presentarsi i vicini più interessanti in quella massa di gente smorta che secondo Ryan popola Grain, i coniugi Brown, suoi dirimpettai. Unica coppia impossibile da prevedere, persino i loro orari lavorativi mutavano.
La donna, Beatrix era fuori ad innaffiare il suo giardino impeccabile; persino il vecchio del primo pomeriggio avrebbe dovuto faticare nel trovare un difetto. La bionda statuaria dal look sempre impeccabile, era l’unica donna che Ryan avesse mai visto, intenta a piantare dei tulipani in tacchi a spillo e abito che ne facevano risaltare le curve vertiginose. Ovviamente Ryan non si era mai azzardato a far pensieri indecenti sulla donna, nonostante essa avesse un comportamento decisamente ammiccante nei suoi confronti.
Il giorno precedente, mentre se ne stava sdraiato sul prato del suo cortile, sfuggito alle faccende domestiche, la donna lo aveva sorpreso sbucando da una fenditura della siepe. Cercava ogni pretesto per far conversazione, e salutarlo ogni volta con abbracci sin troppo affettuosi. Ryan si era sempre vantato del suo successo con le ragazze, ma attirare donne di una certa età non era mai stato il suo scopo –Sarà pure una bella donna, ma ha un non so che di …- spiegava ad un Chris che ridacchiava sotto i baffi -… inquietante!
-Non è che hai paura di quell’armadio di suo marito?-  lo stuzzicava l’amico
-Sentimi bene!- si avvicinò Ryan prorompente –Se volevo farmela non ci pensavo due volte … e che … semplicemente … non voglio.
-Però la spii!
-Fattela tu se ti piace!
-Sei disgustoso.
I due vengono interrotti da un grido del signor Omalley, accortosi che il figlio non ha ancora messo a lavare il bucato.
-Appena sarò maggiorenne mi farò una vita tutta mia, lontano da quell’impiastro di padre-  si lamenta Ryan, senza muovere un passo dalla piccola veranda
-Non è così semplice badare a se stessi- replica il saggio Chris –Se Paul ti denuncia davvero, da maggiorenne non la passeresti tanto liscia.
-Quando ho commesso il danno, non ero ancora maggiorenne- sogghigna Ryan
-Questa è la realtà per qualche mese ancora; e poi?-  fa notare Chris, cancellando il sorrisino dal viso di Ryan.
Il portone di ingresso si spalancò, rivelando un Arthur Omalley decisamente contrariato: -Quando hai finito di fare salotto …!-
-Andrò via immediatamente signor Omalley- si prodigò Chris in tutto rispetto –mi dispiace di aver trattenuto suo figlio durante le sue faccende.
Ryan sbuffa più per le eccessive buone maniere di Chris, che per il fatto di dover tornare ai suoi obblighi.
*.*.*.
Fa troppo caldo per dormire e la voglia di libertà si fa sempre più insistente, tanto da spingere Ryan a compiere una piccola fuga notturna.
Il ragazzo attende con orecchio teso il suono del russare di suo padre, pari ad un trombone. Con la massima leggerezza apre la porta della sua camera, attraversa il corridoio a piedi scalzi e dopo una sbirciatina alla camera del padre, immerso nel suo materasso troppo morbido, scende al piano di sotto.
Con trepidazione indossa le scarpe da ginnastica, la sua voglia di sfuggire a quella gabbia è così forte che non pensa neanche a recuperare dei calzini. Apre il portone, lo ferma con un mattone rimosso dal vialetto in modo che non si chiuda lasciandolo fuori, e a passo svelto percorre il vialetto che lo separa dalla strada, apre le braccia in modo che i polmoni possano aspirare a pieno il sapore della libertà, ma non ne viene neanche una boccata d’aria fresca. L’estate non è ancora iniziata stando al calendario, ma a Grain ci sono già temperature estive.
Dopo pochi minuti Ryan è seduto sul marciapiede a far niente, annoiato poggia il peso del corpo sulle ginocchia e gratta l’asfalto con le fragili foglie cadute dai pini che hanno tappezzato gran parte del marciapiede, neanche il più piccolo soffio di vento si fa vivo a spostarle. Presto Ryan si rende conto che la sua gabbia non si estendeva solo ai confini del suo terreno ma ben oltre. Si aspettava di ritrovarsi libero da ogni pensiero una volta fuori, ritrovando il Ryan spensierato che gli mancava tanto. Poteva mai essere cambiato così in fretta? Per qualcuno il giudizio arriva poco alla volta dosato negli anni, per altri non arriva mai, per Ryan si era fatto vivo nel giro di pochi giorni con gli interessi non acquisiti nei suoi diciassette anni di peripezie.
Col motorino sequestrato non poteva permettersi di andare lontano, di locali notturni nelle vicinanze neanche l’ombra.
Una pazza idea attraversa la mente del giovane: se fosse il momento giusto di spiccare il volo? Scappare via, lasciandosi indietro problemi e compari.
L’idea però ha vita breve. Se fosse scappato adesso sarebbe scappato tutta la vita e diventare un codardo di professione senza fissa dimora non era il suo progetto, benché non ne avesse uno preciso.
Eccola la conferma del suo diventare responsabile! Pensa sbuffando tra se e se.
Suo padre la stava avendo vinta –Va bene!- disse il ragazzo rivolto alla sua abitazione issandosi in piedi –Hai vinto tu pà, volevi un ragazzo responsabile? Eccolo! Torno a casa- pronuncia come fosse una resa.
Sto davvero impazzendo, comincio a parlare da solo! Si imbarazza di se stesso, mentre fa rientro a casa rimuovendo i mattone dalla porta socchiusa. Magari domani faccio compagnia alla signora stressata che parla da sola.
*.*.*.
Il mattino seguente una sorpresa poco gradita attende Ryan, viene svegliato da una luce improvvisa proveniente dalla finestra; è suo padre che aperte le tende all’improvviso gli da un buon giorno di novità.
Dominique Brown, si era recato a casa Omalley per informare Arthur su ciò che aveva visto la notte precedente. A quanto pare Ryan non era passato del tutto inosservato agli occhi dei vicini, il signor Brown l’aveva beccato, e prontamente l’uomo aveva riferito al padre le sue disobbedienze.
-Alle sei e mezzo del mattino?- dice Ryan al padre, non mostrando il minimo dispiacere al riguardo –E’ venuto a quest’ora solo per avvisarti? Non ha niente da fare quello?
-Questo non è l’importante!- replica Arthur –Tu sei scappato. Mi hai disobbedito!
-Ti pare che io sia scappato?- fa Ryan aprendo le braccia per far notare la sua presenza
-Sarà la prima e ultima volta che sgusci di casa di notte!-  irrompe deciso il padre.
 
Certo non era la prima volta che il ragazzo usciva di notte, ma la prima volta da quando la loro vita aveva preso una certa piega. Pensando che il padre stesse esagerando come suo solito, Ryan lasciò correre.
Quel pomeriggio un frastuono attirò la sua attenzione, proveniva dal piano di sopra; un dubbio pervase la mente di Ryan, se mai il padre avesse deciso di distruggere i suoi pochi averi rimasti a colpi di martello per vendetta?
Ryan dimenticava che i padri non agiscono per vendetta ma per castigo a scopo educativo.
Il padre stava usando il martello nella sua camera ma non con lo stesso scopo che sospettava; trova il padre intento ad affiggere un chiavistello all’esterno della sua porta, con l’aggiunta di un paio di anelli da bloccare con un catenaccio, la cui chiave era appesa ben in evidenza al collo da Arthur:
-Questa è l’unica copia e ne sono il padrone- fece l’uomo brandendo la chiave d’avanti agli occhi di Ryan. Il ragazzo sorrise immaginando il padre in vesti di moccioso, che fa notare il suo giocattolo facendo versi di sfida.
-Bravo, hai le chiavi del mio regno- lo sfotté Ryan con sarcasmo
-Scherza tu ragazzino, fin quando non comprenderai quanto sono serio- rispose Arthur.
Non scherzava sul serio, da quella sera avrebbe tenuto il figlio sotto chiave, sino al mattino successivo.
 
Quella sera, solo nella sua stanza Ryan riflette.
Perché mai Dominique Brown ce l’aveva con lui? Era una delle poche persone alle quali non aveva mai recato danno, che avesse fatto la spia solo perché era la cosa moralmente giusta da fare non era una storia che reggeva, non sapeva neanche che fosse a conoscenza della sua punizione. Forse le grida delle loro litigate erano andate oltre la siepe, e mai Ryan avrebbe sospettato che il signor Brown fosse uno spione. Cosa gli costava starsene zitto?
Pioveva quella sera, una pioggia estiva fastidiosa; non come quei bei temporali invernali vivacizzati da lampi e fulmini che imperversano i cieli, giorni in cui Ryan amava starsene all’aperto, nel boschetto vicino che col passare degli anni veniva sfoltito sempre più.
Quella sera invece era costretto a casa da un capriccio del padre, inventatosi il sistema che l’uomo amava chiamare Cenerentola.
-Che bel muso!- gli aveva detto in procinto di chiuderlo in camera –Povero cenerello!- lo prese in giro, quasi come se volesse constatare, se il figlio avesse imparato a starsene con la bocca chiusa senza rispondere; anche sta volta si sbagliava!
-Ricordi che fine fa la matrigna in quella favola?-  risponde Ryan da dietro la porta sigillata.
 
Cosa gli prendeva? Un tempo si sarebbe certamente lamentato con maggior vigore. Stava crescendo e tutto il giudizio e la saggezza dovuta alla crescita, che non erano arrivati al suo pensiero sino a quel momento, arrivarono tutti insieme ad ingolfare il suo giudizio, ammansendo il suo carattere ribelle.
Si sentiva un uccellino lamentoso in gabbia, che dopo un po’ di tempo si accorge che la porticina d’uscita è stata lasciata aperta ma non scappa per istinto contrario alla voglia di libertà.
*.*.*.*.*.*.*.
Buon dì a tutti :)
Grazie di aver dedicato una fetta del vostro tempo, per sbirciare nel mio primo racconto pubblicato ... spero diventi col tempo più che una semplice sbirciatina.
Alla prossima,
vostra
Missdream XD
  
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