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Autore: Peter The Sloth    11/02/2014    3 recensioni
"Non togliere il passamontagna fino a quando non sono passati trentacinque secondi regolari in macchina. Inserisci il cappellino di marca, cambia faccia al giubbotto double face.
Fine, aspetti che si chiudano le tende rosse del sipario.
Applausi scroscianti.
Esecuzione perfetta."
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“La violenza è l'ultimo rifugio degli incapaci.”
Isaac Asimov, “Fondazione”.

 
 
La notte.
 
Sotto il seno.
Colpisci secco, non scaricare tutta l’energia, fermati quando senti il contatto.
Come a minigolf. Ti ricordi, sì? Papà dietro, la mazza in mano. Carica, scarica e fermati per non tirare troppo forte. L’energia la palla la sente lo stesso.
Rumore di chi addenta un grissino, ovattato. Cazzo, non ci vedo co’ ‘sto coso sulla testa.
Non togliere il passamontagna fino a quando non sono passati trentacinque secondi regolari in macchina. Inserisci cappellino di marca, cambia faccia al giubbotto double face.
Fine, aspetti che si chiudano le tende rosse del sipario.
Applausi scroscianti.
Esecuzione perfetta.
 
-Dove siamo?
-Primavalle, credo. Tra mezzo chilometro stamo fori.
Fuori dal finestrino, le serrande e le saracinesche dei negozi sono illuminate da lampioni che mostrano una Roma opaca, passiva, rassegnata. Bar, ferramenta, abbigliamento per signora, pubblicità che mostrano una donna bellissima, due tette magnifiche rigonfiate da un super push-up di una marca che non riesco a leggere. Sdraiata su un letto dalle lenzuola bianche, la giovane donna mi guarda per un attimo, prima di svanire nel nulla.
Il suono altalenante di una sirena si fa largo nelle mie orecchie. Avanti, indietro. Gambe avanti, protese verso il cielo, poi ripiegate verso il basso. La sensazione che forse ci arriverò, lassù, ma c’è qualcosa che mi trattiene incollato al piccolo sedile di plastica dell’altalena.
Sento Tito mormorare piano.
-Merda.
Dado spinge sull’acceleratore, e la freccia schizza a ottanta chilometri orari.
E intanto, mentre gli alti e bassi della sirena si fanno più forti, salgo sempre più in alto, nella speranza di staccarmi dal sedile.
 
La mattina.
 
-Hai presente Al-Kaweemi, quello arabo?
Mentre do un’occhiata nel database delle facce arabe conosciute e cerco di associare “Al-Kaweemi” a una di queste, rispondo con aria dubbiosa: -Aspe’, mo’ ce penso…
Tito mi guarda con la faccia imbambolata dall’attesa, mentre Dado cerca nella mia espressione qualcosa che gli faccia vedere che sì, me lo ricordo.
Al-Kaweemi, alto, sopracciglia fini, labbra carnose, pelle olivastra, due begli e insoliti occhi verdi.
-Sì, ce l’ho presente.
Il volto di Dado s’infiamma. –Ecco, questo vive con la madre in una casa popolare che spettava a due che conosco, che stanno senza lavoro.
Cerco di dare un senso alla frase, ma non ci riesco. –Cioè, tale Al-Kaweemi j’ha fregato casa insieme con la madre?
-In pratica sì.
Sarà un lavoro difficile. “In pratica” vuol dire che dovremo porre fine a qualcosa. Come, poco importa: si porrà fine a qualcosa.
-Gli hanno soffiato il posto per reddito.
Cazzo.
-Dado, ma se ci si sono messi regolarmente, come li vuoi tirare fuori?
Dado mi guarda, scruta la mia faccia, come se volesse dimostrare a se stesso che no, non sto dicendo sul serio, non sto ponendo la legge prima di un principio, un principio che nemmeno Dado sa spiegare con certezza, un principio che impone azioni dure, flessibili o utopiche, che impone di sognare con desiderio l’uscire da questa città, da questa Roma che tanto odio ma che tanto difendo, una Roma capitale di un’Italia che mi uccide in galera se scopre che la stavo difendendo. Il principio che, in fondo, vaffanculo.
Non so che dire. Lui se ne accorge.
Incontreremo Al-Kaweemi.
 
Al-Kaweemi è alto, magro. Tito lo chiama “negro”, anche se non è nemmeno tanto scuro. Non glielo faccio notare.
-‘Caputtana che freddo-, dico, e le parole sgusciano veloci da un orecchio di Dado all’altro.
-E’ là.
Mi giro.
–Ecco il negro.
Faccio un respiro profondo. Faccio finta di ignorare gli occhi di Dado piantati su di me e apro la portiera.
 
***
 
Ieri ho litigato con mia madre. Non ci parlavo da tanto, con mia madre: è da tanto che non l’abbraccio. Ieri ha aperto la porta della mia stanza dopo che me l’ero chiusa dietro, quando ci sono entrato. Urla che non la faccio sentire una madre, ma una zia qualunque. Le ho risposto che io le mie, di zie, non le ho mai conosciute. Ha chiuso la porta dietro di sé.
 
***
 
-Bionno, hai da accendere?
Al-Kaweemi si gira. Nei suoi occhi c’è un’imprecazione, la leggo, la sento. Sento la sua paura che monta, sento il suo senso di colpa per un torto che non ha.
Lo sento addosso.
Tira fuori l’accendino. Giallo, fiammante. Bic. Gli occhi di Dado s’illuminano.
Accende la sigaretta che Dado gli mette davanti. La fiamma ondeggia, è bucata dall’acqua, ma resiste.
-Quanto t’è costato ‘st’accendino?
Non risponde. Dado lo guarda. Tito si toglie il cappello. Suda.
Non fa così freddo, dopo tutto.
-Oh, ce stai?-, chiede Dado. Gli schiocca le dita davanti agli occhi.
-Tre euro.
-Ah, tre euro per un bic. Tito, te quale c’hai?
-Quello der cinese. Cinquanta centesimi.
La paura monta. Al-Kaweemi non è abituato al freddo, no.
Sente freddo, un freddo tremendo. Sta gelando.
Ma allora perché sta sudando?
-Capito? Lui vive in casa sua, però. Paga cinquanta centesimi perché tre euro so’ troppi, ma vive in casa sua.
Al-Kaweemi apre la bocca.
La paura cresce, è tutto lui. E’ pieno.
Chiude, apre la bocca. Nessun suono.
-Non me pare che te vivi a casa tua.
Basta, chiudere e aprire la bocca, cazzo!
-Tu abiti dove qualcun altro dovrebbe vivere. Qualcuno che ora vive in un cazzo di monolocale.
Apre la bocca.
Sente il mio pugno, avverte la situazione della mascella. Crac.
Tito sputa e affonda la punta dell’anfibio rinforzato nello stomaco di Kaweemi.
Dado sta fermo.
Lo rialzo, pugno nello stomaco, lui ha finito di aprire e chiudere la bocca.
E mentre l’arabo chiude gli occhi verdi, c’è qualcuno davanti a Tito.
 
***
 
Mia madre mi ha lasciato la pasta davanti alla porta.
Inciampo, finisco lungo sul pavimento davanti a camera mia, con la cassettiera a cinque centimetri dalla faccia.
Zitto, finisco di far estinguere il fiatone, e guardo mia madre stirare.
 
***
 
-Levate da mezzo, chicca!
E’ una diamine di ragazza. Non è un metallaro o una zecca, è una ragazza. Le zecche non sono ragazze, Cristo.
-Questa è una via pubblica, o sbaglio?
Che risposta del cazzo è?
-Perché, che devi fa’, qua?
Dado sembra stranito, non arrabbiato. Ci guardiamo per qualche secondo. Mi guarda come se avessi dei tizzoni ardenti al posto degli occhi.
-Io volevo solo passare per di qua, non voglio fare niente.
Al-Kaweemi non è più davanti a me.
-Dado, dove cazzo è?
-Ci ha fatto scappare il fango!
La guardo. Non so se lei guardi me, ma vedo la sua espressione. Stravolta dalla frenesia, dalla paura, guarda tra Dado e me, mentre Al-Kaweemi si allontana.
Ha lasciato qua l’accendino.
-Forse potresti sostituirlo, che dici?
Si gira.
-Tito, voi mena’ ‘na ragazza?
-‘Sta qua s’è messa in mezzo, secondo te voleva passare o voleva far scappare il negro?-, urla Tito. Sputa. –Direi che ‘na strigliata s’aa becca.
-E se chiamassi la Polizia?
Non è paura. La paura è quella di Al-Kaweemi. La paura è cercare con disperazione di uscire da una stanza che prende fuoco. Lei sta cercando l’acqua.
-Ah, bada, le guardie.- Dado è serio, ma sorride con le sopracciglia.
-Sai, mio padre è colonnello dei carabinieri.
Tito sbianca, Dado sbianca, e nessuno s’accorge della cazzata che sta dicendo. Ha trovato l’acqua.
-Lasciamo perdere-, comanda Dado, -damose.
-Tanto se beccamo, cara.-, ultima fiammata di Tito. –L’amica dei negri è salva.
E’ calma, ha spento il fuoco.
Momento adatto per entrarle come fumo in gola, nei polmoni.
-Per ora.
 
E no, non c’è nessuno che applaude.
Tito sbraita,
-Dado, l’ho già vista. Fidati. La troviamo.
Dado non ha mai picchiato una ragazza.
-Non ho mai picchiato una ragazza.
-E io?
Dado va a prendere le chiavi della macchina.
 
Di nuovo, la notte.
 
Dado e Tito continuano a urlare che no, non c'è, che cazzo siamo venuti a fare, qua, Tito, calmati, no, Dado, calmate te...
-Dado, accosta.
Si gira verso di me.
-E' là.
Si gira nuovamente e guarda fuori dal finestrino.
Sola.
La portiera si apre. Tito impugna la mazza da croquet di suo padre ed esce dalla macchina. Vedo Dado correre, correre forte, Tito dietro come un cane appresso allo pneumatico.


Ci vede, ci squadra, siamo tre figure nel buio, tentenna: tre figure con un passamontagna per ogni testa. I lampioni riflettono sul duvet di Tito e gli illuminano gli occhi.
Tre figure che corrono.
Scappa, leoncino, scappa, gli elefanti sono troppo anche per te. Scappa, allontanati da tre che te vojono spella’.
Dov’è che dovevo colpire?
Ah, sì, sotto il seno.
 
***
 

-Dove sei?
-Fuori, ma’.
-Fuori dove?
-Fuori da casa.
Attacca.
Richiamo.
Risponde la segreteria telefonica di--
Ciao, ma’.
 
***
 

 
Più vicino, il suono ondeggia, si stabilizza, si abbassa, si stabilizza nuovamente e si alza: convinzioni di cartapesta si evolvono, vedo il volto impaurito di Al-Kaweemi intervistato dal TG7, con Mentana che dallo studio fa un commento politicamente corretto.
Vedo il buio, la polvere dell’isolamento, vedo il silenzio, con il solo rumore del grissino spezzatosi alla base della cassa toracica.
 
Un botto.


Questa storia ha vinto il contest "Nemiciamici" di 
Gaea, sia come storia singola, sia come coppia di storie con "Battito d'ali", di Queila!

  
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