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Autore: gothika    16/06/2008    1 recensioni
Dolce come la passione per la musica.
Dolce come un sogno da raggiungere.
Salata come la fuga da un passato da dimenticare, come una crudele malattia da sconfiggere.
Ed, infine, unica come la storia romantica di un impossibile grande amore.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Ho sempre avuto paura del passato: mi ha sempre dato l’impressione di essere come un fantasma che silenzioso, dietro alle spalle, seguisse ogni mio passo senza lasciarmi mai solo.
Probabilmente è per questo che ci ho messo tanto tempo a decidermi.
Avevo semplicemente paura di affrontarlo.
In tutta onestà, se mi chiedessero perché non sono stato capace di metterci una pietra sopra per tutti questi anni, non saprei cosa rispondere. O, forse, saprei solamente dire che non è una cosa semplice, che tra il dire ed il fare c’è una bella, grossa, differenza. Purtroppo, non si può cancellare nulla di quello che si è fatto.
E dal mio modesto punto di vista, questo è un gran bene per ogni essere umano.

 Tutto sommato oggi è una bella giornata: il sole di giugno riscalda amorevolmente ogni cosa con i suoi raggi opachi, appena percettibili nell’aria. Persino me, in effetti, che sono una creatura freddolosa per natura.
C’è un motivo preciso per cui ho scelto di tornare qui in questa stagione: il calore e  l’atmosfera di allegria e vitalità che si possono avvertire, rendono meno triste e doloroso l’incontro con i miei ricordi.
Rivedere le stesse cose, gli stessi luoghi, rievocare immagini sbiadite sotto la luce di questo sole tiepido, mi sembrava più semplice ed incoraggiante. La verità? Non ci credo, ma ho finito per convincermene.

Tra l’altro, il mare in questo periodo dell’anno si rianima. Mosso da una forza magica, fa sì che le sue acque cristalline diventino lo specchio di un mondo incantato. L’esatto contrario di come appare in inverno.
Forse, è soprattutto per quel mare scuro che ho deciso di ritornare soltanto oggi.
Perché, conoscendoti, so che avresti preferito annegarci dentro, quel giorno lontano.

Beatrice sta guidando la mia macchina con gusto: era un desiderio nascosto che, inconsapevolmente, ho realizzato. Non avrei mai immaginato che questa piccola ragazzetta di appena diciotto anni, avesse una spiccata passione per le macchine sportive. Anzi, credevo che i suoi principali interessi fossero la moda, le feste e fare baldoria con gli amici. In una parola, credevo fosse la tua completa antitesi.
Da una parte, poteva anche essere legittimo: come dire, il giusto grado di equilibrio tra gli opposti.

Beatrice è l’unica persona della tua famiglia che mi sono concesso il lusso di conoscere.
Lo so che non avrei dovuto, non senza il tuo consenso, ma se l’ho fatto è stato esclusivamente per il tuo bene e per quello della tua famiglia. Anche se so quello che hai passato, mi è sembrato giusto.
Ho intrattenuto con questa ragazzina una fitta corrispondenza che tu non hai mai scoperto, oppure, facevi finta di non notare tra le poche lettere che ci arrivavano. Le raccontavo tutto di te.
Sebbene io abbia mentito, non me ne pento. Vedere Beatrice adesso, una giovane donna, cresciuta senza alcun rimorso o rancore nei tuoi confronti è la sola giustificazione che mi fa sentire un uomo migliore.
Aveva bisogno di conoscerti meglio, aveva bisogno di sapere che non avresti voluto lasciarla.
Era giusto che sapesse che tu sei sempre stata la persona incredibile che aveva immaginato da bambina.

Ormai, soltanto pochi chilometri ci separano da quella vecchia stradina stretta, appena in salita.
Non riesco a smettere di tormentare la piccola chiave argentata che, segretamente, stringo all’interno della tasca della mia giacca gessata. Nel tenerla schiacciata all’interno del palmo, mi torna in mente il giorno in cui siamo andati insieme a farne un duplicato. La tua chiave.
Quella sulla quale avevi voluto far incidere la parola “
shelter”.
Ricordo l’espressione sconcertata del commesso del ferramenta e ricordo anche la mia, forse meno plateale della sua, ma sicuramente carica dello stesso significato. Solamente tu avresti potuto avere una simile idea.

Qualsiasi cosa in questa mia vita, in qualche modo, mi fa pensare a te almeno una volta al giorno.
Mi fa sorridere appena, anche se poi alla fine, mi lascia con un sapore amaro nella bocca.
Per quanto bello possa essere un tuo ricordo, la sua bellezza non riesce mai a non farmi intristire così.
Proprio il fatto che sia unicamente un ricordo, rende la mia anima schiava di un piccolo tormento, ogni qual volta il pensiero torna a solcare quella ferita del cuore. E continua a farmi male proprio come allora.

Quando entrerò in quell’appartamento spero di riuscire a mantenere un minimo di autocontrollo.
Non soltanto per me stesso, per il mio orgoglio che, a questo punto, è ridotto a brandelli, ma soprattutto per quella persona che non sa cosa è successo tra quelle mura e che quindi può conoscerti senza rimpiangerti.
Chissà se tutto è rimasto come allora: se ci sono ancora le tue cose sparse su quella mensola.
Se i tuoi affreschi sul muro accanto al letto hanno resistito ad anni di solitudine.

Beatrice mi guarda di sottecchi, muovendo gli occhi ora su di me, ora sulla strada di fronte a noi.
E’ incredibile quanto mi ricordino i tuoi, sebbene i suoi siano chiari come il cielo.
Immagino che dipenda  dal modo in cui li muovete quando osservate qualcosa o dal modo in cui corrugate  l’arco espressivo delle sopracciglia. Stranamente, guardarla negli occhi non mi fa soffrire.
Perché, nonostante ti assomigli molto, ho da subito imparato a non confondermi a causa della sofferenza.

 
Sono consapevole del suo tentativo di leggere il corso dei miei pensieri e anche della sua scarsa fortuna.
Inarco appena l’angolo destro delle mie labbra, piacevolmente divertito.
Restiamo così finché non è lei a decidere di arrendersi per prima, esponendo a voce i suoi intenti.

“Stai bene?” Me lo domanda in un soffio, senza scandire a lungo le parole.
Rivolgo i miei occhi al muretto che scorre rapido alla mia destra prima di replicare.
“Certo, perché non dovrei?” E’ una risposta poco credibile, lo riconosco.
“Dalla tua espressione si direbbe tutt’altro. Preferiresti non tornarci?” Adesso è lei a non guardarmi.
“Non è semplice, Beatrice. Ci sono cose che temo di non poter gestire come vorrei.”
“Essere così sibillino non ti servirà a molto, sai? Se può esserti di conforto, almeno non sarai solo.”
“Già, questo è quello che continuo a ripetermi da quando siamo partiti.”
“E funziona?” Beatrice pare scettica, e non sembra volerlo nascondere. Fa bene, in effetti.
“Assolutamente no.” Sorrido sornione, prendendomi gioco della mia stessa inettitudine.

Mi sento impaziente, ma al contempo, preferirei che questo viaggio in auto non terminasse mai.
Non lo nascondo, non ho intenzione di proteggermi: se è giusto che io riesca a sentirmi finalmente libero da questo tormento, devo affrontare la situazione di petto e combatterla. Fino a sconfiggerla.
Beatrice può solo sostenermi da vicino, ma non può lottare al mio posto.
Devo trovare la forza per dire che ho fatto il possibile, ma che non sempre il possibile è abbastanza.

Seguitando lungo il labirinto di vicoli e stradine, arriviamo, infine, alla minuscola rotonda del paesello.
Il panorama che ci attende pare essere stato rubato ad una vecchia fotografia in bianco e nero: tutto quello che ricordavo era rimasto come allora, gli edifici, i colori, persino l’odore di salsedine e di pesce.

Un gruppo di vecchietti ci accoglie con sguardi fugaci ed invadenti. Ci soppesano guardinghi come sentinelle, ostentando pacatezza senza però lasciarsi sfuggire ogni più piccolo gesto o parola.
Siedono quasi in fila indiana, gli uni accanto agli altri, sui vetusti sgabelli di legno di un bar.
Si intonano talmente bene con l’atmosfera che danno l’impressione di essere parte integrante del paesaggio.
Resi ricurvi e rugosi dallo scorrere del tempo, sono come spettatori di una recita che noi non sappiamo di star interpretando. Un paio se ne sta in disparte, lungo la parete del bar, sollevando appena gli occhi dal giornale di tanto in tanto, altri due sono ora in piedi, confabulando qualcosa senza prestarci particolare attenzione e l’ultimo, seduto in un angolo, rassetta con meticolosità una grossa rete da pesca, ricucendo e rattoppando le maglie rovinate dai denti dei pesci e liberandone la trama dai rimasugli di alghe e di esche.

Beatrice ruota la chiave nel quadro e la macchina, con un rantolo sommesso, si spegne del tutto.
La sua zazzera bionda si inclina e si muove in lungo e in largo, sporgendosi vistosamente ora dal finestrino, ora dal parabrezza. Sembra totalmente rapita dallo scenario pittoresco che ha di fronte.
Mi limito ad osservarla piano: è così serena che sento di invidiarla. Darei di tutto per sentirmi anch’io così.
Ad un tratto, si libera dalla cintura di sicurezza con un gesto fluido e si volta verso di me con impellenza.

“Beh, allora che si fa? Andiamo?”

Rimango per un attimo stordito dal fruscio della cintura che si riavvolge, scattante come uno schiocco di frusta. Sento dentro di me il cuore battere impetuoso, il sangue fluirmi rapido nelle vene. E’ pura tensione.
Deglutisco più volte, eppure, non riesco a trovare il coraggio di darle una risposta. Nemmeno una qualsiasi.
Sposto lo sguardo sul palazzo di fronte a me e lei corruga la fronte, mostrando un cipiglio a metà tra l’irritato ed il confuso. Il momento che avevo atteso con ansia, era al fine arrivato. E non mi sentivo per nulla pronto.
Certo, lo avevo immaginato spesso, ricreando nella mia testa situazioni ipotetiche: sapevo che avrei dovuto confrontarmi con tutti i fantasmi del mio passato, tuttavia non mi aspettavo di sentirmi così pietrificato.
Ad essere sincero fino in fondo, avrei preferito aver ancora del tempo per poterlo rimandare.
Mi rendo conto che è un’assurdità, eppure è l’unico pensiero coerente che mi vortica per la testa.

Devo aver perso il controllo delle mie emozioni, dato che il volto di Beatrice, dapprima irritato per il mio silenzio, sembra ora decisamente preoccupato. Ovviamente, non sa cosa mi stia passando per la testa, ma la mia espressione titubante deve averla impensierita proprio un bel po’.
Tenta disperatamente di farmi parlare, ma io non ne ho voglia. So che vorrebbe che mi confidassi con lei, ma non ne sono capace. Non è mai stato un mio punto forte, parlare. E lei torna ad essere contrariata.

“Stefano…dai, Stefano dì qualcosa!” Mi richiama ancora un paio di volte, l’ultima sbuffando appena.

Alla fine, stizzita, fa scattare aperta la portiera ed indossa i suoi occhiali da sole.

“Beh, se non vuoi venire allora puoi anche rimanere in macchina, ma io non ho fatto tutta questa strada per restare a guardare il paesaggio. Se siamo venuti qui è solo per un motivo, e lo sai. Vado, a dopo.”
“E come pensi di entrare, eh?” Sorrido amaramente continuando a fissare il vecchio stabile.
Beatrice rimane in silenzio, in piedi di fronte alla portiera ancora aperta. E’ delusa: non ho bisogno di guardarla in faccia per rendermene conto. Ha il tuo stesso modo di fare in questo.

“Con la chiave di Sofia, quella che avevi promesso di darmi.” Si mette le mani in tasca ed abbassa lo sguardo. Forse, si è pentita di aver pronunciato quel nome. Lo evita spesso in mia presenza.
“Quella chiave è andata perduta…un anno fa.” Smonto anch’io dall’auto e chiudo lo sportello.
“Che cosa?” E’ incredula, probabilmente anche un po’ arrabbiata. In fondo una promessa, è una promessa.
“L’ho fatta sciogliere.” Ribatto secco incamminandomi verso la fine della piazza.

Beatrice resta immobile: i suoi occhi scettici sono puntanti come coltelli sulla mia schiena.
Quando poi si decide a seguirmi, il vecchietto che rassetta la rete le rivolge distrattamente la parola.

“Guarda che non puoi lasciarla là.” La voce è profonda e roca, ma comunque determinata.

Di fronte alla sua esitazione, il vecchietto continua il suo discorso senza mai alzare gli occhi dalla rete.

“Non puoi lasciare là quella macchina, signorina. Siamo stanchi di tutti quelli che vengono qui per cercare notizie su quei ragazzi: lo volete capire o no che non vivono più in questo paese?”

Dopo aver pronunciato quelle parole, il vecchio appunta gli occhietti neri simili a spilli sulla ragazza, soppesandola. Il tono non ammette repliche e Beatrice si sente vagamente in imbarazzo: sa a cosa si riferisce, lo sa fin troppo bene, ciò nonostante, preferisce non aggiungere altro.
Rientra di malavoglia nell’abitacolo guardandomi di sfuggita mentre mi allontano lungo la piccola salita.

  
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