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Ho sempre avuto
paura del passato: mi ha sempre dato l’impressione di essere
come un fantasma
che silenzioso, dietro alle spalle, seguisse ogni mio passo senza
lasciarmi mai
solo.
Probabilmente è per
questo che ci ho messo tanto tempo a decidermi.
Avevo semplicemente
paura di affrontarlo.
In tutta onestà, se
mi chiedessero perché non sono stato capace di metterci una
pietra sopra per
tutti questi anni, non saprei cosa rispondere. O, forse, saprei
solamente dire
che non è una cosa semplice, che tra il dire ed il fare
c’è una bella, grossa,
differenza. Purtroppo, non si può cancellare nulla di quello
che si è fatto.
E dal mio modesto
punto di vista, questo è un gran bene per ogni essere umano.
C’è un motivo
preciso per cui ho scelto di tornare qui in questa stagione: il calore
e l’atmosfera
di allegria e vitalità che si possono
avvertire, rendono meno triste e doloroso l’incontro con i
miei ricordi.
Rivedere le stesse
cose, gli stessi luoghi, rievocare immagini sbiadite sotto la luce di
questo
sole tiepido, mi sembrava più semplice ed incoraggiante. La
verità? Non ci
credo, ma ho finito per convincermene.
Forse, è
soprattutto per quel mare scuro che ho deciso di ritornare soltanto
oggi.
Perché,
conoscendoti, so che avresti preferito annegarci dentro, quel giorno
lontano.
Da una parte,
poteva anche essere legittimo: come dire, il giusto grado di equilibrio
tra gli
opposti.
Lo so che non avrei
dovuto, non senza il tuo consenso, ma se l’ho fatto
è stato esclusivamente per
il tuo bene e per quello della tua famiglia. Anche se so quello che hai
passato, mi è sembrato giusto.
Ho intrattenuto con
questa ragazzina una fitta corrispondenza che tu non hai mai scoperto,
oppure,
facevi finta di non notare tra le poche lettere che ci arrivavano. Le
raccontavo tutto di te.
Sebbene io abbia
mentito, non me ne pento. Vedere Beatrice adesso, una giovane donna,
cresciuta
senza alcun rimorso o rancore nei tuoi confronti è la sola
giustificazione che
mi fa sentire un uomo migliore.
Aveva bisogno di
conoscerti meglio, aveva bisogno di sapere che non avresti voluto
lasciarla.
Era giusto che
sapesse che tu sei sempre stata la persona incredibile che aveva
immaginato da
bambina.
Non riesco a
smettere di tormentare la piccola chiave argentata che, segretamente,
stringo all’interno
della tasca della mia giacca gessata. Nel tenerla schiacciata
all’interno del
palmo, mi torna in mente il giorno in cui siamo andati insieme a farne
un
duplicato. La tua chiave.
Quella sulla quale
avevi voluto far incidere la parola “shelter”.
Ricordo
l’espressione sconcertata del commesso del ferramenta e
ricordo anche la mia,
forse meno plateale della sua, ma sicuramente carica dello stesso
significato. Solamente
tu avresti potuto avere una simile idea.
Mi fa sorridere
appena, anche se poi alla fine, mi lascia con un sapore amaro nella
bocca.
Per quanto bello possa
essere un tuo ricordo, la sua bellezza non riesce mai a non farmi
intristire
così.
Proprio il fatto
che sia unicamente un ricordo, rende la mia anima schiava di un piccolo
tormento, ogni qual volta il pensiero torna a solcare quella ferita del
cuore.
E continua a farmi male proprio come allora.
Non soltanto per me
stesso, per il mio orgoglio che, a questo punto, è ridotto a
brandelli, ma
soprattutto per quella persona che non sa cosa è successo
tra quelle mura e che
quindi può conoscerti senza rimpiangerti.
Chissà se tutto è
rimasto come allora: se ci sono ancora le tue cose sparse su quella
mensola.
Se i tuoi affreschi
sul muro accanto al letto hanno resistito ad anni di solitudine.
E’ incredibile
quanto mi ricordino i tuoi, sebbene i suoi siano chiari come il cielo.
Immagino che dipenda dal
modo in cui li muovete quando osservate
qualcosa o dal modo in cui corrugate
l’arco espressivo delle sopracciglia.
Stranamente, guardarla negli occhi
non mi fa soffrire.
Perché, nonostante
ti assomigli molto, ho da subito imparato a non confondermi a causa
della
sofferenza.
Sono consapevole
del suo tentativo di leggere il corso dei miei pensieri e anche della
sua scarsa
fortuna.
Inarco appena
l’angolo destro delle mie labbra, piacevolmente divertito.
Restiamo così finché
non è lei a decidere di arrendersi per prima, esponendo a
voce i suoi intenti.
Rivolgo i miei
occhi al muretto che scorre rapido alla mia destra prima di replicare.
“Certo, perché non
dovrei?” E’ una risposta poco credibile, lo
riconosco.
“Dalla tua
espressione si direbbe tutt’altro. Preferiresti non
tornarci?” Adesso è lei a
non guardarmi.
“Non è semplice,
Beatrice. Ci sono cose che temo di non poter gestire come
vorrei.”
“Essere così
sibillino non ti servirà a molto, sai? Se può
esserti di conforto, almeno non
sarai solo.”
“Già, questo è
quello che continuo a ripetermi da quando siamo partiti.”
“E funziona?”
Beatrice pare scettica, e non sembra volerlo nascondere. Fa bene, in
effetti.
“Assolutamente no.”
Sorrido sornione, prendendomi gioco della mia stessa inettitudine.
Mi sento
impaziente, ma al contempo, preferirei che questo viaggio in auto non
terminasse mai.
Non lo nascondo,
non ho intenzione di proteggermi: se è giusto che io riesca
a sentirmi
finalmente libero da questo tormento, devo affrontare la situazione di
petto e
combatterla. Fino a sconfiggerla.
Beatrice può solo
sostenermi da vicino, ma non può lottare al mio posto.
Devo trovare la
forza per dire che ho fatto il possibile, ma che non sempre il
possibile è
abbastanza.
Il panorama che ci
attende pare essere stato rubato ad una vecchia fotografia in bianco e
nero:
tutto quello che ricordavo era rimasto come allora, gli edifici, i
colori,
persino l’odore di salsedine e di pesce.
Siedono quasi in
fila indiana, gli uni accanto agli altri, sui vetusti sgabelli di legno
di un
bar.
Si intonano
talmente bene con l’atmosfera che danno
l’impressione di essere parte
integrante del paesaggio.
Resi ricurvi e
rugosi dallo scorrere del tempo, sono come spettatori di una recita che
noi non
sappiamo di star interpretando. Un paio se ne sta in disparte, lungo la
parete
del bar, sollevando appena gli occhi dal giornale di tanto in tanto,
altri due sono
ora in piedi, confabulando qualcosa senza prestarci particolare
attenzione e l’ultimo,
seduto in un angolo, rassetta con meticolosità una grossa
rete da pesca,
ricucendo e rattoppando le maglie rovinate dai denti dei pesci e
liberandone la
trama dai rimasugli di alghe e di esche.
La sua zazzera
bionda si inclina e si muove in lungo e in largo, sporgendosi
vistosamente ora
dal finestrino, ora dal parabrezza. Sembra totalmente rapita dallo
scenario
pittoresco che ha di fronte.
Mi limito ad
osservarla piano: è così serena che sento di
invidiarla. Darei di tutto per
sentirmi anch’io così.
Ad un tratto, si
libera dalla cintura di sicurezza con un gesto fluido e si volta verso
di me
con impellenza.
“Beh,
allora che si
fa? Andiamo?”
Deglutisco più
volte, eppure, non riesco a trovare il coraggio di darle una risposta.
Nemmeno
una qualsiasi.
Certo, lo avevo
immaginato spesso, ricreando nella mia testa situazioni ipotetiche:
sapevo che
avrei dovuto confrontarmi con tutti i fantasmi del mio passato,
tuttavia non mi
aspettavo di sentirmi così pietrificato.
Ad essere sincero
fino in fondo, avrei preferito aver ancora del tempo per poterlo
rimandare.
Mi rendo conto che
è un’assurdità, eppure è
l’unico pensiero coerente che mi vortica per la testa.
Tenta
disperatamente di farmi parlare, ma io non ne ho voglia. So che
vorrebbe che mi
confidassi con lei, ma non ne sono capace. Non è mai stato
un mio punto forte,
parlare. E lei torna ad essere contrariata.
Alla fine,
stizzita, fa scattare aperta la portiera ed indossa i suoi occhiali da
sole.
“E come pensi di
entrare, eh?” Sorrido amaramente continuando a fissare il
vecchio stabile.
Beatrice rimane in
silenzio, in piedi di fronte alla portiera ancora aperta. E’
delusa: non ho
bisogno di guardarla in faccia per rendermene conto. Ha il tuo stesso
modo di
fare in questo.
“Con
la chiave di
Sofia, quella che avevi promesso di darmi.” Si mette le mani
in tasca ed
abbassa lo sguardo. Forse, si è pentita di aver pronunciato
quel nome. Lo evita
spesso in mia presenza.
“Quella chiave è
andata perduta…un anno fa.” Smonto
anch’io dall’auto e chiudo lo sportello.
“Che cosa?” E’
incredula, probabilmente anche un po’ arrabbiata. In fondo
una promessa, è una
promessa.
“L’ho fatta
sciogliere.” Ribatto secco incamminandomi verso la fine della
piazza.
Beatrice
resta
immobile: i suoi occhi scettici sono puntanti come coltelli sulla mia
schiena.
Quando poi si
decide a seguirmi, il vecchietto che rassetta la rete le rivolge
distrattamente
la parola.
“Guarda
che non
puoi lasciarla là.” La voce è profonda
e roca, ma comunque determinata.
Di fronte
alla sua esitazione,
il vecchietto continua il suo discorso senza mai alzare gli occhi dalla
rete.
“Non
puoi lasciare
là quella macchina, signorina. Siamo stanchi di tutti quelli
che vengono qui
per cercare notizie su quei ragazzi: lo volete capire o no che non
vivono più
in questo paese?”
Rientra di
malavoglia nell’abitacolo guardandomi di sfuggita mentre mi
allontano lungo la
piccola salita.