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Autore: 1Dboy00    11/02/2014    1 recensioni
Mi chiamo Elisa, e ho sempre condotto una vita normale, fino a quando tutto non diventò nero.
"E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e guata, così l'animo mio , ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva"
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In genere si inizia sempre una storia con un’introduzione, quindi in teoria dovrei raccontarvi quando e dove sono nata e tutto il resto, ma tanto non vi interesserebbe. Devo comunque presentarmi, suppongo. Mi chiamo Elisa, ho i capelli castani con delle meches bionde e gli occhi azzurri. Tutti dicono che gli occhi sono il mio punto di forza, che sono brava a osservare le cose, ma a me non sembra di avere questa vista rapace. Ho sempre condotto una vita normale, per quanto il significato di questa parola sia talmente sconfinato che pochi sanno definire con esattezza cosa voglia dire “normalità”. Per me aveva lo stesso significato che gli attribuisce la maggioranza. Andavo a scuola, leggevo – moltissimo – ascoltavo la musica e studiavo pianoforte. Insomma, come ho già detto, avevo una vita abbastanza regolare. Tutti i giorni uscivo dalla mia scuola – andavo a un liceo linguistico, un ripiego, dato che non ce l’avevo fatta allo scientifico – e facevo un chilometro buono a piedi prima di arrivare a casa.
Un piovoso giorno di novembre, reduce da tre ore di letteratura, il compito di francese e la lezione di spagnolo più noiosa fino a quel momento – la classifica si aggiornava ogni martedì e venerdì alla sesta ora – stavo camminando verso casa, l’ombrello in una mano e i libri con l’astuccio nell’altra, dato che la mattina mi ero scordata di fare lo zaino e avevo arraffato velocemente quel che mi serviva. Mi guardavo attorno, c’erano montagne di foglie di miriadi di colori autunnali che spaziavano dal giallo miele allo scarlatto, dal tenné al porpora, al marrone e all’oro. Foglie ammassate in ogni angolo libero di piazze, strade e cunicoli. Un sacco di persone dall’aria vuota camminavano a passo sostenuto verso, probabilmente, i loro uffici o le loro case. Delle nuvole scure sovrastavano tutta la città ormai da una settimana o poco di meno, senza concederci un attimo di riposo dalla pioggia. Se guardavo giù, potevo vedere le mie Nike bianche toccare le piccole pozze d’acqua che si formavano negli angoli delle lastre di pietra che, col tempo, si erano spostate e creavano dislivelli e buche. Ogni volta che tuffavo un piede in una pozzanghera l’acqua schizzava ai lati, bagnandomi i pantaloni. In effetti stavo facendo qualcosa di abbastanza stupido, dato che potevo benissimo camminare sul marciapiede per evitare di bagnarmi. Passai davanti al supermercato, un grande edificio a vetrate con un’enorme scritta «Carrefour» in rosso e blu che da sola occupava tre quarti della lunghezza della parete trasparente. Quei supermercati là non servivano assolutamente a nulla, dato che nessuno passava da quelle parti, esclusi ovviamente quelli che si fermano all’Autogrill per fare pipì prima di ripartire per chissà quale destinazione. Ma aumentavano il valore del territorio, o qualcosa del genere, ne avevo sentito parlare qualche giorno prima dai miei. Intanto guardavo in basso. Rialzai gli occhi, e in un primo momento rimasi stupita nel vedere che non c’era nulla. Niente, non sto scherzando. Era tutto nero. Abbassai la testa. Nero. Mi guardai attorno, stessa storia. Era come se, improvvisamente, fosse scesa la notte. Così nello stupore buttai libri e tutto il resto a terra e mi stropicciai gli occhi. Cavolo, ci vedevo di nuovo! Che terribile spavento.
Presi il sentiero che portava a casa mia, c’erano degli alberi spogli e secchi, bagnati costantemente dalla pioggia. Arrivai a casa, poggiai i libri sul letto e mi tolsi il giacchetto. Ero ancora scossa da quel brutto scherzo della vista. Mi cucinai una pasta al burro e poi, una volta finito, mi misi a leggere, dato che non avevo voglia di studiare. Stavo leggendo l'Inferno di Dante Alighieri, un libro meraviglioso. Adoro Dante, penso fosse il mio scrittore preferito già allora. Ero arrivata al punto in cui il protagonista varca la soglia dell'inferno. 
Guardai l’orologio nero di fronte a me. Non era mai stato nero! Mi girai verso la parete nera. Neanche quella, a pensarci, aveva mai avuto quel colore. Tutto era diventato di nuovo buio, come sulla strada di casa. Quando capii cosa stava succedendo, iniziai a gridare, e presa dalla disperazione iniziai a graffiarmi la faccia – davvero, ero terrorizzata. Mi sentivo persa. Era tutto così scuro.. ad un certo punto mi accorsi che qualcosa cambiava, non solo non ci vedevo, ma i rumori di sottofondo erano spariti e non sentivo più il libro fra le mie mani. Poi smisi anche di pensare.
Quando mi risvegliai ero su un letto. Aprii gli occhi, ma C’era uno strano odore di varechina e delle voci mi chiamavano.
«Elisa! Elisa! Per l’amor di Dio, rispondimi!» era mia madre. La sua voce era molto non vedevo niente. Preoccupata, terribilmente preoccupata. 
«Mamma..» risposi con voce assonnata.
«Oh, grazie al cielo! Tesoro, mi senti?»
«Sì.. Dove sono? Non vedo niente.. Che cosa è successo? Dov’è papà? Perché non ci vedo?»
«Hey, piccola, fermati un attimo! Sono qui, siamo in ospedale. Sei svenuta.» la voce di mio padre era calma e rassicurante. 
«Accendete la luce? Che ore sono?»
«La luce è accesa, sono le quattro di pomeriggio!»
Dio solo sa quanto mi sentissi male dopo quella risposta.
«Non ci vede. Chiama un medico, tesoro»
Perché papà era così calmo? Stavo diventando cieca, per la miseria! Cavolo, che rabbia.
Quando il dottore arrivò mi visitò attentamente l’occhio, sentivo del calore sulle palpebre, probabilmente mi stava puntando una luce in faccia o qualcosa del genere.
«Non vede niente»
«Beh, grazie mille, dottore! Cavolo, senza di lei non sarei mai riuscita a capirlo!» mamma era diventata isterica.
«Signora, mi lasci finire. Non ci vede per colpa di una particolare forma di dermatite che, se fosse stata diagnosticata prima, avrebbe potuto essere curata in tempo. Purtroppo si è sviluppata in modo ormai irreparabile, possiamo comunque curarla - per evitare che contagi anche altri organi - ma il suo occhio è danneggiato gravemente. Temo che non riuscirà più a vedere. Mi dispiace.»
Quella risposta arrivo alle mie orecchie come un proiettile. Tutto era successo così velocemente, non avevo avuto neanche il tempo di aggrapparmi ad una speranza- Come avrei fatto? Come avrei potuto continuare la mia vita sapendo che non avrei visto mai più i colori delle foglie, le persone che correvano, le nuvole grigie? Sentivo le lacrime scendermi giù per il viso, scorrevano come un torrente in piena, non potevo davvero crederci. 
Tornammo a casa, non avevo fame, non avevo sonno, non avevo la forza di fare niente.
Sprecai non so quante ore a piangere, giorni ad asciugarmi la faccia, mesi a sperare. Sperare che tutto quello che era successo scomparisse, che questa stupida malattia se ne andasse e tutto tornasse come prima, normale.

Passarono i minuti, le ore, i giorni. Davvero non so dirvi per quanto tempo io abbia vagato per casa disperata, affranta. Poi, un giorno, sbattei contro qualcosa mentre andavo in cucina. Oltre al suono dell’impatto, sentii una specie di eco, un suono metallico. Così lo toccai, tastai una superficie liscia e fredda, spinsi leggermente e tesi le orecchie.. il pianoforte. Me ne ero completamente dimenticata. Mi sedetti sul panchetto, e con le mani tremanti spinsi un tasto e il suono di un Mi si librò nell’aria. Seguì un’altra nota, poi un’altra, e un’altra ancora. Stavo suonando il piano -e, che ci crediate o no, non sbagliavo una nota! Sentivo l’energia spostarsi dal cervello alle mie braccia, arrivava ai tasti, potevo percepire i martelletti che colpivano le corde, percorreva i fili metallici e usciva leggera come una calda e soffice nuvola che riempiva tutta la stanza.
Le lacrime scendevano di nuovo dal mio viso, erano lacrime di gioia, le stesse che versa un naufrago quando, dopo giorni di vani sforzi nel ritornare alla sua terra, vede un sottile lembo di terra all'orizzonte.
Suonai, suonai, suonai per ore, era l’unica cosa che mi faceva andare avanti. Non avevo bisogno di nient’altro. Stavo bene.
Avevo finalmente trovato il modo per essere felice.

E adesso, citando il mio scrittore preferito, «Come colui che con il respiro affannato, uscito dal mare, sulla riva si volta verso l'acqua e guarda l'orizzonte» io ricordo quei momenti e penso che, se ci vedessi ancora, probabilmente farei parte di tutte quelle persone dall'aria vuota che si aggirano perse per la città.
Adesso non voglio più annoiarvi con le mie storie, quindi... Inizierò a suonare. --- Spazio autore Ciao, eccomi di nuovo qua su efp, cari lettori! Questo è un nuovo tipo di storia, non ne avevo mai scritte così. Quindi, abbiamo una pianista cieca che racconta come ha smesso di vedere. Che ne pensate? Questa storia è stata scritta per il concorso "Mario Luzi" di Firenze, la cui giuria ha rifiutato il mio racconto come molti altri dato che l'autore a cui è dedicato il nome del concorso era un poeta e gli unici testi letterari che accettano sono componimenti poetici. Sorvoliamo sulla poca chiarezza del bando, per favore. Anyway, the thing is, what I really mean, (~yours are the sweetest eyes I've ever seen~ scusate, momento fangirl per Elton John c: ) lasciate una recensione se volete, mi piacerebbe sapere che ne pensa il mio popolo (signore e signori, la modestia). Statemi bene sudditi, alla prossima! Ps. Progettando una one-shot rating rosso tag "un po'tutti" (quello vero, orgy party babe!) e anche qualcosa di più fluff, larry, magari arancione. Vi lascio con il dubbio. Ciao ciao :-)
  
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