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Autore: MilesRedwing    12/02/2014    2 recensioni
Che succederebbe se mettessimo insieme i pirati, gli animali canterini, i cyborg e i barbieri su una candida spiaggia, o meglio, uno scrigno maledetto, una pagina bianca, e facessimo loro cantare un jingle alla Harry Belafonte?
Genere: Comico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Hector Barbossa, Jack Sparrow, Joshamee Gibbs
Note: Cross-over, Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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“Ahoy!”

Un grido dal levante sole s’apprestava a venire di lontano. Allo stesso ritmo di quel suono una strana figura barcollante solcava la bianchissima sabbia con fare impettito e un tantino annoiato. In quella vecchia landa desolata nessuno sarebbe mai arrivato ad aspettarsi di scorgere qualcuno.

Certo è che la pazzia aspetta al confine e che il sonno della ragione genera mostri.

E fu così che quel nessuno o forse qualcuno che continuava la sua cavalcata, dopo aver portato un dito alla bocca per inumidirlo, additò la timida aria e tastò il vento, costatando con rammarico di non trovarne nemmanco una maledetta bava, come avrebbe meglio detto poco appresso.

“La mia anima per una leggera brezza.” E non che non fosse consapevole della portata di quelle parole. Certo era, è e fu che non voleva esserlo e che mai lo sarebbe stato, ma in quel preciso istante sapeva gli sarebbero servite, se non a verità, a mo’ di conforto, di burla verso se stesso, di spensieratezza. Fu in quell’istante che le sue parole presero una rotta sconosciuta e quello strambo capitano, di cui or ora qui non si ricorda il nome, prese a camminare e ciondolare canticchiando una sorta di melodia.

“Day, me say day, me say day, me say day …” Ma non che a quelle o sue queste parole potesse essere attribuito un vero significato. Poteva forse dirsi che avessero tanto significato quanto ne avesse quella sua Perla appoggiata stanca su quel manto irreale che forse nemmeno era vera sabbia. Da che impresa venisse la sua melanconia questa volta non lo sapeva o non voleva ricordarlo.

Certo era che nessuno l’avrebbe più portato indietro.

 

 

Poco lontano, nei meandri di quelle dune cristalline, un bianco e buffo tavolino si ergeva fiero nella sua piccolezza.

Un attempato e antipatico nano vi sorseggiava il suo the delle cinque, perfettamente tranquillo e a suo agio, neanche fosse nel salotto di re Giorgio in persona.

Accanto a lui stava un altrettanto buffo orango arancione, attempato anche lui, ma preso da una contagiosa risata. Questi prese una banana da una cesta di fortuna poggiata chissà come in terra e, sbucciandola, rivolse all’altro una regale parola: “Allora, cugino, com’è che si fa il fuoco?”

Cutler evitò accuratamente di rispondere anche solo con lo sguardo e, zuccherando per l’ennesima volta la tazza vuota, si limitò ad accennare:

“Pietre … evoluzione … ragione.”

Fu in quell’istante che il primate riprese a ridere, questa volta prendendo anche a cantare una folle barca di note.

“Day, me say day, me say day, me say day, daylight come and we want go home, daylight come and we want go home”.

Cutler spalancò gli occhi vitrei, poiché era quella l’ultima cosa che in vita ricordava d’aver fatto, e prese a stargli appresso, contro qualsivoglia ragione Illuminante potesse illuminarlo.

“Six foot, seven foot, eight foot, Bunch! Daylight come and we want go home!”

“Stock banans till the morning come, daylight come and we want go home.” Aveva ripreso l’orango, battendo il ritmo sulla tovaglia e facendo tremare le tazzine.

Può generar questo la mancanza di ispirazione.

Può approdare alla pazzia come ultima spiaggia.

In questo il marinaio nello scrigno s’attanaglia.

 

Benjamin Barker aprì gli occhi rossi. E dovevano esserlo, altrimenti mai sarebbe potuto: tutto intorno a lui era di quel sì detestabile e orribile colore. Detestabile come la sua sporca, insulsa, miserabile vita, trascorsa nel rimorso, la vergogna, in ultimo ricolma d’odio e brama di vendetta ... Sangue. Che fosse quella la condanna per un umile barbiere? Col rasoio ancora in mano s’alzò, distese le ginocchia deboli e prese a camminare.

Per chissà quale oscuro sortilegio i piedi iniziarono a muoversi a tempo e il suo corpo a ondeggiare manco avesse bevuto tutto il gin della signora Lovette.

Le viscere gli si contorsero in un nodo sì stretto che presto passò la gola e i polmoni si gonfiarono sino a gridar fuori bile e bile di note.

“Work all night on i drink a rum! Daylight come and me want go home. Hide the deedly black tarantula, daylight come and we want go home …”

Prese addirittura a cantare al plurale e con un ghigno pazzo sul volto che presto si tramutò in estasi.

 

 

 

Che cosa si provasse a venir fuori d’un libro non avrebbe mai detto di saperlo. Ne aveva letti molti, eppure. E del resto cosa avrebbe mai potuto fare restando tutto il giorno sdraiato su quel vecchio ramo a badare a un mucchio d’ossa spiritato d’un cucciolo d’uomo?

Certo era che quel luogo non lo conosceva, mai v’era stato e nonostante non sapesse affatto come sarebbe potuto essere possibile, effettivamente, uscire da delle pagine scritte, ora era certo di esserne fuori.

Che quel tale Ruduard non fosse poi così cosciente e responsabile?

Che anche quel poco di senno che era rimastogli fosse destinato a svanire, e tutto a causa di quello strano Walter che aveva colto la sua monade di personaggio e l’aveva trasfigurata in disegno?

In quello strano deserto non v’erano storie, non v’erano giungle, non v’erano animali. Non v’erano preoccupazioni né ostacoli, non v’era suono, né odore, né forma. Non v’era proprio nulla, poté tristemente constatare. Si sarebbe detta quella l’incarnazione della pazzia.

Con fare abbattuto e sconsolato, Bagheera, o quel che ne restava, s’avviava a un immeritato stato di confusione …

Quando sulla sua strada comparve uno strano e grassoccio figuro.

“Ohi, compare, hai del rum?” Chiedeva col suo solito fare un perplesso Gibbs della coffa della Perla Nera.

“No, io non bevo.” Rispose di fretta il felino.

“Beh ... Allora siamo proprio nello scrigno, stavolta.” Si lasciò sfuggire l’astuta e vecchia testuggine, come lo chiamava sempre capitan Sparrow.

“Oh. Jack …” La sua lingua scorse uno squarcio di sanità mentale. “Che sia qua pure lui?”

“Esattamente, dove siamo?” Chiese e ammise la pantera. Non gli capitava spesso d’accettare o chiedere consigli, tanto era sempre stato saggio o magari presuntuoso, visto lo stato di confusione di quel limbo infernale in cui era capitato.

“Avrei detto lo scrigno di Davy Jones.” Gibbs continuò, lisciandosi i baffi. “Avrei, perché questo non è lo scrigno.”

Improvvisamente il nulla divenne zero assoluto.

“Come no?” Chiese ancora l’altro, temendo che di lì a poco sarebbe impazzito davvero.

“Non è lo scrigno perché è una pagina!”

Una voce di lontano s’affrettò a rispondere.

Gibbs si voltò di scatto e riconobbe una figura tremante e malconcia, per metà uomo e per metà ferraglia.

“Silver!!! Vecchio lupo di mare, anche tu qua?” I due s’avvicinarono e abbracciarono come si fossero da sempre apprezzati e conosciuti e Bagheera li scrutò dall’alto in basso non senza una punta di invidia: quel chiassoso cyborg gli ricordava molto qualcuno di sua conoscenza.

“Eh, Joshamee, vecchio mio ... non si vedono più gli scrigni di una volta. I bei vecchi tempi dei pirati sono finiti. E le storie ora cominciano e finiscono quando lo dicono l’avaro tempo, l’odiosa fretta e gli incombenti come spade di Damocle impegni. Eh … brutta storia perdere l’ispirazione.” Continuava il vecchio Long John, sistemandosi quella vecchia gamba finta con cui da molte lune si trovava a dover convivere.

“Come questa gamba, figliolo.” Parlò poi a Bagheera. “Perderla durante una bordata ora sarebbe l’ultimo dei miei problemi, tanto quanto prima fu perderla per la prima volta, comprendi? Eh, eh, eh, mi rendo conto che non è una cosa facile,”

Il saggio o presuntuoso che volesse dirsi felino seguì quei due curiosi personaggi in cerca d’autore e insieme si diressero a un traballante tavolino del the, al quale erano seduti altri quattro lupi di mare.

Quattro perché al duo di Beckett e Luigi s’erano aggiunti un ben noto Jack Sparrow che non chiameremo capitano, perché sappiamo quanto non gli piaccia esserlo, e un altrettanto ben noto orso canterino di nome Baloo.

E questi tutti stavano a canticchiare intenti, noncuranti del the ormai raffreddatosi e della ventura quanto inaspettata compagnia.

Le solite note, rotte e un po’ fuori scala.

“Six foot, seven foot eight foot, bunch!

Daylight come and we want go home

Stuck banans till the morning come

Daylight come and we want go home

Day, me say day, me say day, me say day

Daylight come and we want go home.”

“Orsù ditemi …” Una ottava voce ruppe il silenzio di chi ascoltava e il rumore di chi stonava. “Chi preferisce una mela?”

E ritto come un ghepardo stava Hector Barbossa, il miglior dei traditori, con in mano la mela e sulla spalla la scimmia, reggendo su di un legno la sua mesta gamba.

Il quartetto sgangherato riprese offeso, mentre il paziente Gibbs, il vecchio Baggie e il buon Long John s’apprestavano a seguir quel ben noto corsaro.

“Hector, permetti ch’io permetta di interrompere l’altresì degnamente meraviglioso canto popolare, nonché mio preferito, che sto così meravigliosamente interpretando per rivolgerti una parola altresì degna, aye?” Proferì così la sua entrata in scena Sparrow dal mascara sbavato, che ora somigliava più a un triste e mesto pagliaccio e che s’appresta ad accoppare l’insolente autrice di questa fan fiction.

Dal canto suo Baloo non esitò ad aiutare la parte sbagliata, come sempre faceva: “Non perder tempo con loro, Jackie, sono così ... Noiosi.” E fu quello a far girare gli occhi alla vecchia pantera.

“Daylight come and we want go home” Continuava così il canto dei personaggi in cerca d’autore o peggio ancora d’ispirazione.

 

 

Più in là, sulle assi scricchiolanti dell’albero maestro di quella bella Perlina, stava un gruppetto d’avvoltoi che ricordava la formazione d’un altresì famoso gruppetto musicale che spesso scriveva a una ragazza di nome Jude o parlava di sottomarini gialli.

“Ehi, Flaps.” Uno di loro avanzò scuotendo le piume. “Che cosa facciamo?”

E l’altro, biondo e capellone, con gli occhi sgranati per la sbronza o per altro, rispose un candido: “Non lo so, tu cosa vuoi fare?”.

E fu quella stessa frase che l’autrice di quella sgangherata storia rispose, risponde e risponderà ai suoi personaggi, sempre cari, indaffarati o appesi come cedre che siano, in uno scrigno di mancanza di ispirazione, tempo e fandemonio.

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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