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Autore: lucabovo78    14/02/2014    1 recensioni
Se per cambiare la nostra vita in meglio fossimo costretti a sacrificare una cosa a cui siamo legati, ne saremmo in grado?
Piccola favola metropolitana per aiutare ad essere ottimisti.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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« Che ti succede? »

   Risposi senza voltarmi, non volevo che vedesse le lacrime. Era una giornata speciale e non volevo rovinarla.

   « Nulla, non preoccuparti. Ora andiamo, non possiamo arrivare tardi. »

Tentai di essere il più convincente possibile, ma forse non ci riuscii. Il suo abbraccio fu caldo e tenero, aveva capito benissimo.

   « Va bene, ti aspetto di là. »

Si staccò e mi lasciò solo, le fui molto grata per questo, sapeva che avevo bisogno di qualche minuto, almeno per ora.

   “Grazie, Giò…”

Sussurai piano, quando fui sicuro che lei non potesse sentirmi. Poi, facendo molta fatica, distolsi lo sguardo e mi asciugai gli occhi con la manica della camicia. La raggiunsi davanti alla porta, mi stava aspettando con un sorriso dolcissimo, mentre  i suoi occhi tradivano tristezza. La strinsi in un abbraccio e la baciai.

   « Andiamo. »

Le dissi guardandola negli occhi e ricambiando il suo sorriso. Prima di uscire mi voltai di nuovo per un momento, il sole illuminava il davanzale. 


Lunedì Nero

 

E’ lunedì e la sveglia suona, come al solito, alle 6:30.

Spengo il fastidioso cicalino con un colpo preciso della mano sinistra.

Stordito dal sonno e dai postumi della sbronza che mi sono preso ieri sera guardando la partita, persa malamente dalla mia squadra con l’ultima in classifica, mi alzo.

Mi trascino in cucina quasi senza aprire gli occhi e accendo il fuoco sotto la moka, che preparo sempre già carica la sera prima per guadagnare tempo.

Rimango in piedi come uno zombie con le braccia penzoloni aspettando il buon profumo seguito dal borbottio che indica che il caffè è pronto.

Squilla il cellulare, dove l’ho messo?

Il suono proviene dal salotto, rimango per un secondo combattuto tra la voglia di rispondere e quella di fregarmene, poi decido di rispondere.

Trovo il telefono sul divano, incastonato in verticale tra due cuscini.

Non mi pongo domande su come abbia fatto a finire in quel modo.

E’ Stefania. Strano, di solito a quest’ora dorme ancora della grossa.

Rispondo.

Con voce tranquilla mi dice che ha incontrato un uomo che la fa sentire amata e speciale come io non ho mai fatto in tutti quegli anni e quindi mi lascia.

Senza neanche lasciarmi il tempo di rispondere, o di farle notare che almeno poteva avere la decenza di chiamarmi senza farmi sentire la voce di quell’altro in sottofondo che le dice di non rivestirsi perché ha ancora un paio d’ore a disposizione, riattacca.

Il mio cervello è ancora al 20% della sua normale attività, per cui non realizzo subito la situazione.

Quasi senza pensarci, rimetto il cellulare nella posizione in cui l’ho trovato, a testa in giù tra i due cuscini e ritorno in cucina. Un odore di bruciato proviene dai fornelli.

“Merda…ieri sera non l’ho caricata…”

Dalla moka esce fumo, addio caffè.

Spengo il fuoco e mi siedo, appoggio la fronte sul tavolo con le braccia che penzolano verso il pavimento.

Dopo qualche secondo mi si accende una luce e realizzo.

Alzo di colpo la testa.

   « MA CHE P..”Riiiing” »

Il campanello censura le mie parole. “Chi cavolo è a quest’ora?”

Mi alzo di controvoglia e apro, dimenticando di essere in mutande.

La signora Pescaretti del primo piano tira un urlo a 200 db appena mi vede.

Spalanco gli occhi e chiedo scusa, afferro la giacca lunga dall’appendino e la indosso. Dopo aver ripreso fiato, la gentile signora assume un’aria compassionevole.

   « Mi dispiace molto, ma le devo dare una brutta notizia. Questa notte, a causa della pioggia, il poggiolo dei signori Bustelli è crollato ed è finito sulla sua macchina. Era nuova vero? Ma sono sicura che l’assicurazione condominiale provvederà, forse. Buona giornata.»

   “Forse…?”

Chiudo la porta.

Stefania era stanca che la portassi in giro sulla mia gloriosa R4 Sixties blu con striscia gialla e interni tricolore del 1985, acquistata direttamente in Francia quindici anni fa mentre ero in Erasmus. Diceva che era un vecchio catorcio rumoroso e scomodo e si vergognava a salirci perché tutti i fidanzati delle sue amiche avevano almeno un’Audi o una Mini o una BMW, per cui alla fine avevo ceduto e avevo stipulato un mega finanziamento, con un numero di rate che avevo rimosso dai ricordi, per comprare una fiammante Alfa rossa con cerchi in lega, navigatore, clima, radio-cd con impianto surround e tutta una serie di ammennicoli a me sconosciuti, ma che facevano tanto cool. Ora potevamo presentarci allo spritz del sabato sera a testa alta.

Non oso immaginare la scena che mi aspetta giù in cortile, per cui decido di rimandare lo strazio e, dopo essermi vestito senza fare colazione, esco dalla porta che dà sul cortile posteriore, dove tolgo il telone che copre la mia R4.

Nota positiva. Oggi ho la scusa di usare la mia Sixties senza preoccuparmi di dover passare a prendere al negozio Stefania e di non farla sfigurare davanti alle colleghe ipertirate e ipertruccate.

Probabilmente oggi la andrà a prendere quell’altro.

Pensandoci, aveva proprio una voce da imbecille.

Giro la chiave nel cruscotto e il rassicurante borbottio del motore mi fa sorridere.

Accendo la radio e spero di non beccare proprio…

“…la ragazza mi ha lasciato, è colpa mia….”

Ecco appunto. Vasco, ti ringrazio di molti bei momenti, ma oggi non era il caso…

Arrivo in ufficio, con il morale sotto i tacchi, dopo aver fatto un’ora di coda in mezzo al traffico a causa di un camion della nettezza urbana che si è rovesciato in mezzo alla statale dopo aver investito un enorme cinghiale spuntato dai campi.

Trovo i colleghi con facce da funerale.

Domando distrattamente cosa sia successo, immaginando il solito cazziatone del capo lunatico.

Mi dicono, invece, che il direttore ha appena annunciato che saremo tutti in cassa integrazione.

Da domani.

Comincio seriamente a pensare che oggi avrei fatto meglio a restare a letto.

Arranco a stento fino a ora di pranzo, con uno stato d’animo tra il disperato e il depresso. 

Mi presento alla cassa della mensa, dopo aver riempito il vassoio con montagne di piatti dal self-service per affogare nel cibo la mia tristezza, e mi accorgo di non avere il portafoglio.

Inutile tentare di chiedere alla cassiera di farmi credito, lascio lì il vassoio ed esco senza aprire bocca.

Il resto della giornata passa con una lentezza esasperante, non riesco a concentrarmi su niente e devo trattenermi più volte dal chiamare Stefania.

Poi il cellulare prende letteralmente fuoco quando lo collego al caricabatterie, riempiendo l’ufficio di puzza acida e causando una serie d’insulti nei miei confronti da parte dei colleghi intossicati.

Problema risolto, non posso chiamare più nessuno.

Alle 17:30 in punto spengo il pc e esco.

Dopo aver timbrato l’ ”out” mi ricordo che sono arrivato tardi stamattina, quindi avrei dovuto fermarmi per almeno altri venti minuti.

Machissenefrega.

Salgo in macchina e mi accorgo di aver dimenticato il tettuccio aperto, ovviamente ha piovuto e il sedile è zuppo.

A circa due chilometri da casa l’R4 si spegne di colpo.

Ho finito la benzina.

Parcheggio a spinta rischiando un ernia e mi avvio a testa bassa verso casa.

Colto da un improvviso senso di autolesionismo, dico tra me e me.

   « Bhè dai, potrebbe andare peggio. Potrebbe piovere.»

Appena pronuncio la parola “piovere” si scatena un acquazzone da vecchio testamento e, ovviamente, sono senza ombrello e la strada passa in mezzo ai campi.

Imprecando a valanga, mi metto a correre cercando disperatamente un qualche riparo.

Improvvisamente vedo in lontananza una piccola casetta che non ricordo di aver mai notato prima.

Aumento l’andatura e rischio di scivolare almeno tre volte.

Finalmente arrivo davanti a quello che scopro essere un qualche negozio con una strana insegna in legno, sulla quale è inciso “Hiahia”.

Entro.

L’interno del negozio è buio e c’è uno strano odore, sembra un misto di terriccio e carne affumicata.

Sarà non più grande del mio salotto.

La maggior parte dello spazio è occupata da scaffali con dei barattoli di vetro, dentro ai quali ci sono…semi, penso.

Un micro bancone è quasi addossato al muro, ma non vedo nessuno.

    « Buonasera…»

Dico un po’ senza speranza, forse il negoziante è fuori, intanto continuo a guardarmi attorno.

    « Si, mi dica. Ha bisogno? »

Faccio un salto e mi scappa un urletto acuto da bimbetta.

Mi volto verso il bancone e mi trovo davanti ad un gigantesco uomo dalla pelle olivastra, capelli neri lisci lunghi e tatuaggio tribale su mezza faccia. Sembra un incrocio tra un All-Black e Mike Tyson, inoltre ha un’espressione poco socievole.

Da dove è sbucato fuori?

    « Ehm…bhè…in realtà ero senza ombrello e la macchina mi ha lasciato a piedi…quindi…»

Il gigante mi squadra dall’alto in basso.

Adesso mi butta fuori sollevandomi con il mignolo, penso.

Senza dire niente, prende da sotto il bancone un barattolo di vetro, più piccolo rispetto agli altri, ne estrae una specie di fagiolo e me lo porge.

Io lo prendo, meglio non farlo innervosire, mi sembra già incazzoso di suo.

    « Grazie…quant’è? »

Dico in automatico, poi sbianco…non ho il portafoglio, se adesso gli dico che non posso pagarlo mi mena. Ma sì dai…magari mi spedisce all’ospedale per un paio di mesi, così quando esco, forse la sfiga si è dimenticata di me.

L’ All-Tyson, sempre senza cambiare espressione, mi fa cenno che non vuole nulla.

Poi prende, sempre da sotto il bancone, un vasetto di terracotta e un sacchetto di terriccio.

Mi passa anche questi.

    « Ricordati che vuole acqua una volta al giorno.  Una volta che sarà maturo, potrai esprimere il tuo desiderio, ma ricorda: quando si sarà realizzato, appassirà. »

Ecco, è pure fuori di melona. Mi ha appena regalato un fagiolo magico.

Decido di assecondarlo.

    « Sul serio? Grazie mille, ora se non le dispiace tornerei a casa…»

Cammino all’indietro fino alla porta, mi giro ed esco.

All-Tyson  continua a fissarmi.

Una volta fuori, scopro con sorpresa che ha smesso di piovere.

Alzo gli occhi al cielo e vedo una stupenda stellata.

M’incammino lentamente verso casa con i miei nuovi “acquisti”.

Non so perché, ma mi sento un po’ meglio.

  
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