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Autore: syontai    14/02/2014    5 recensioni
"Aprì la portiera del taxi, e con parecchio sollievo il tassista mise in moto. Quando fu finalmente dentro la vettura le sembrò di aver lasciato una parte di sé là fuori. Alzò il finestrino, nella speranza così di nascondere le lacrime. Mentre il ronzio del motore copriva i suoi pensieri si voltò impercettibilmente, per imprimere l’ultimo ricordo delle tre persone più importanti della sua vita: German, Violetta, e Pablo."
Pairings: Pangie, Leonetta.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Angie, Leon, Pablo, Violetta
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Un orologio, una promessa

Il tassista ticchettava con la mano nervosamente sullo sportello, mentre squadrava da capo a piedi la sua cliente. “Siamo pronti?” chiese infine scendendo e prendendo la valigia rosso fuoco della donna, da caricare nel portabagagli. “C-Credo di si” sussurrò la donna, guardandosi intorno. Stava dicendo addio al suo mondo, alla sua città. A Buenos Aires tutto era iniziato, aveva conosciuto sua nipote, aveva avuto l’occasione di entrare nella sua vita, di sconvolgerla in positivo, e era giunto il momento di mettere la parola ‘fine’ a quel capitolo della sua vita. Voltare pagina era dura, ma Antonio gliene aveva dato la forza, il coraggio necessario. Ebbe mosso solo un passo verso la vettura gialla, che sentì un rumore di passi provenire da due direzioni opposte. “Angie!” gridarono due voci all’unisono. La donna si voltò e vide accorrere da sinistra German in compagnia della giovane Castillo, da destra Pablo che aveva il fiatone; probabilmente il suo amico Galindo se l’era fatta di corsa dallo Studio 21. “Vi avevo detto che non volevo un addio!” sbottò la donna, con gli occhi lucidi, portandosi il braccio sul viso per asciugare le prime lacrime. Violetta si avvicinò alla zia con un’espressione sofferente e orgogliosa. “Ma zia, non potevamo non salutarti…non potevo” disse con voce tremante, per poi gettarsi tra le braccia della Saramego. Le due singhiozzarono, alternando piccole risate per il dolce ricordo che avrebbero conservato l’una dell’altra. “Sarai sempre la mia zietta preferita!”. La mia zietta. Quanto le sarebbe mancato sentire quelle parole, quanto dolore avrebbe provato nel non vedere più il dolce viso della ragazza che involontariamente le aveva cambiato la vita. “Non pensare che ti sei liberata di me! Ci sentiremo tutti i giorni: per telefono, via webcam…no, signorina, io devo sapere i tuoi progressi con lo studio, sono pur sempre la tua istitutrice” disse Angie, imitando una severa insegnante, quale non era mai stata. E il modo buffo in cui imitava una Angie versione professoressa pignola, con l’indice alzato in tono di rimprovero, le fece ridere ancora di più, sebbene le lacrime continuavano a scorrere. “E voglio sentire ogni giorno la tua bellissima voce” aggiunse poi con tono materno. Violetta si asciugò le lacrime con grazia, e annuì sorridendo dolcemente. Poi guardò a destra e a sinistra i due uomini che si stavano tormentando nell’attesa del loro turno di dire addio alla donna. Si morse il labbro inferiore senza sapere come poter parlare in privato con Angie, ma quest’ultima colse al volo il messaggio, quindi si avvicinò con l’orecchio teso. “Angie” sussurrò la ragazza, in modo da non farsi sentire. “Non permettere a nessuno di spegnere il tuo sorriso…e non fare come me, non ti tormentare tra due amori, perché poi quello vero uscirà sempre fuori. E lo farà da solo, in modo inaspettato, senza che tu te ne accorga o che tu lo decida”. “Sei diventata così grande” mormorò la donna, accarezzando dolcemente una guancia di Violetta. “Ma anche così testarda, proprio come Maria!” aggiunse subito dopo. “Dovresti dare ascolto più spesso alle parole che dici. Non è Diego la persona che ami”. Violetta arrossì intimidita, e abbassò lo sguardo: “Ma imparerò ad amarlo”. “Non si impara ad amare, Vilu, me lo hai spiegato tu stessa…da quello che mi hai detto sai anche chi è il tuo vero amore, e porta il nome di un fiero animale. Leon”. “T-tu non capisci…lui ama Lara, e io ho Diego. E’ tutto finito. Tutto”. Angie scosse la testa fiduciosa: “Sei tu che non capisci che non puoi mentire per sempre a te stessa, perché…”.
“Mi scusi, è pronta per partire?” la interruppe il tassista impaziente. “Un attimo” rispose scocciata. “Ne riparleremo quando arriverò a Parigi, adesso sarà meglio che saluti gli altri”. Si diresse inspiegabilmente prima verso German, lasciando Pablo visibilmente deluso. “Ciao, cognato” lo salutò freddamente. Non poteva dimentica tutto il dolore che le aveva procurato: prima Esmeralda, e il matrimonio quasi andato in porto, poi il riavvicinamento con Jade. Aveva fatto di tutto per tenerla lontana dalla sua vita, e lei con la morte nel cuore lo aveva accettato. Ma una volta scoperta quella terribile menzogna qualcosa si era rotto: non riusciva più a intravedere l’uomo per cui aveva provato delle forti emozioni, non riusciva più a vedere nulla di ciò che prima la attraeva. Un adulto insicuro come un bambino non poteva rispondere alle esigenze di una donna in una fase di svolta nella sua vita. “Ciao, Angie. Lo so…ho sbagliato su molte cose, ma non sull’affetto che provo per te. Sei pur sempre la sorella di Maria, e non posso, non voglio che tu abbia un brutto ricordo di me”. “Non c’è niente da ricordare, German. Tu sei il padre della persona più importante della mia vita, e no, non ci tengo ad avercela con te. Non l’ho mai voluto”. Detto questo, Angie lo abbracciò forte, respirando lentamente, e soffrendo. Soffriva perché non sentiva più nulla per German, anche se pensava fosse stato lui a insegnarle il significato della parola ‘amore’. Come aveva potuto confondere tutto così facilmente? “Beh, allora…addio” disse German con aria sconsolata. E finalmente eccolo: un impercettibile sorriso illuminò il volto di Pablo quando lei finalmente lo raggiunse. Continuarono a fissarsi per qualche minuto, senza sapere cosa dire, come due bambini impauriti. “Devo andare, Pablo…” sussurrò la donna, accarezzandogli dolcemente la guancia. Quel gesto le era venuto spontaneo e subito se ne pentì: il giorno prima aveva detto a Pablo di dimenticarla, di guardarsi intorno perché l’amore avrebbe potuto colpirlo da un momento all’altro. E non un amore flebile e inconsistente come quello per Jackie, ma uno indissolubile e travolgente, che lo coinvolgesse appieno, anima e corpo. “Niente di ciò che ti ho detto in questi giorni ti ha convinto a rimanere, ed è giusto che io rispetti la tua decisione, ma…c’è una cosa che non devi mai dimenticare”. Le parole di Pablo si perdevano nel vento, e nonostante fossero vicini, arrivavano alle sue orecchie come il suono di un eco lontano. “Cosa?” ebbe la forza di chiedere Angie. “Ti chiedo solo di non dimenticarmi. Non dimenticare l’amore che provo per te, perché ormai sai che ti amo, e che lo farò comunque. E non ci sarà mai un’altra donna a prendere il tuo posto, sai meglio di me che non sono il tipo. Ti supplico, non dimenticare il nostro primo incontro. E…anche se per te non ha avuto alcun significato, non dimenticare il nostro primo bacio. Sono i ricordi a cui tengo di più, e vorrei che fossero anche i tuoi”. “Pablo, io…”. L’uomo si avvicinò e la implorò di tacere con lo sguardo. Si era preparato quel discorso da giorni, e ovviamente la sola vista di Angie aveva confuso tutto nella sua testa, aveva rimescolato tutte le belle parole che si era appuntato. Però il cuore parlava per la mente, e tutto ciò che aveva sempre taciuto per non mostrare il proprio dolore, la propria frustrazione per non essere stato corrisposto, stava uscendo con una violenza che non avrebbe mai immaginato. “Non ti chiedo di amarmi, non potrei mai essere così egoista, ti chiedo di non dimenticarmi. Come un amico, almeno questo”. La sua voce tremava mentre tirava fuori dalla tasca destra un orologio: un quadrante di un color crema, ma più pallido, era collegato ad un cinturino in pelle marrone chiaro. “Questo orologio è di mio padre. Un regalo di mia madre per l’anniversario: dieci anni da quando si erano conosciuti”. Angie fissava quel cimelio con un timore reverenziale, e scuoteva contemporaneamente il capo, avendo capito dove volesse andare a parare. “Non funziona”. Una breve risata accompagnò quell’affermazione. “Ma ci tengo che tu lo conservi. E’ il simbolo della promessa che ti chiedo di fare: non dimenticarti di me. E…magari un giorno quest’oggetto a cui tengo tanto ti riporterà da me”. Mise l’orologio nella sua mano, e lo chiuse in un pugno. “Non posso, Pablo, non posso” cominciò a singhiozzare la donna. “Fallo per me” sussurrò l’uomo, abbracciandola. E fu allora che Angie capì quanti errori avesse commesso nella sua vita, ma l’errore più grande era confondere il sentimento d’amore che sentiva crescere sempre di più verso l’uomo che l’aveva sempre protetta e ascoltata, che non l’aveva mai lasciata sola, che le aveva sempre strappato un sorriso. Ma poi ecco tornare come un lampo il dolore: le bugie di German, la solitudine a villa Castillo, il bisogno che ormai Violetta non aveva più di lei. Annuì, separandosi da quell’abbraccio che l’aveva fatta sentire a casa. Non una casa materiale, ma aveva avvertito il senso di pace che prova l’anima quando trova un rifugio sicuro. Che Pablo fosse il suo rifugio sicuro? Non lo sapeva, ma la confusione non l’aiutava in quel doloroso addio. Era giunto il momento: rivolse un dolce sorriso a Pablo, e poi a Violetta. Tra lei e German invece ci fu solo uno sguardo glaciale, di chi si salutava perché doveva farlo. Sapeva bene che German disapprovava la sua scelta, gliel’aveva detto fin da subito, ma poi era stato costretto ad accettarla, come tutti d’altronde.
Aprì la portiera del taxi, e con parecchio sollievo il tassista mise in moto. Quando fu finalmente dentro la vettura le sembrò di aver lasciato una parte di sé là fuori. Alzò il finestrino, nella speranza così di nascondere le lacrime. Mentre il ronzio del motore copriva i suoi pensieri si voltò impercettibilmente, per imprimere l’ultimo ricordo delle tre persone più importanti della sua vita: German, Violetta, e Pablo. Solo quando la macchina ebbe svoltato, si voltò di nuovo, con gli occhi lucidi, verso il conducente. “Qualcosa non va?” chiese l’uomo, scosso da quella manifestazione di fragilità. Non si era mai dovuto occupare di una partenza strana come quella. Di addii ne aveva visti tanti, come anche di passeggeri in lacrime, ma almeno aveva sempre scorto la serenità nei loro occhi. Invece quella donna appariva tormentata, nonostante il viaggio che stava per intraprendere. “Tutto bene. Succede, quando è il momento di voltare pagina”. L’autista scosse le spalle, e rimase in silenzio: non riusciva a cogliere l’importanza che avevano quelle parole per la sconosciuta sul sedile posteriore. Ma in fondo non era un problema suo, lui doveva solo portare a termine la corsa.
 
Pablo non riusciva a stare tranquillo. L’aula professori era diventata vuota ai suoi occhi, e dove si voltava immaginava il sorriso radioso della sua Angie che gli rivolgeva il buongiorno con una tazza di caffè fumante in una mano, e una cartellina colorata nell’altra. Il momento del caffè mattutino per loro era sempre stato come un rito: a volte lo prendevano al bar, ma amavano prenderlo in quella stanza, sedersi e chiacchierare. Ultimamente quella bellissima tradizione era venuta meno con l’arrivo di Jackie, che aveva portato via tutto ciò che di bello trovava in quella scuola. Ora che l’insegnante di ballo se ne era andata però si sentiva libero di respirare nuovamente. Era egoista? Forse. Ma per una volta nella sua vita, voleva esserlo. Quella donna che diceva di amarlo sopra ogni cosa l’aveva solo reso un’altra persona, l’aveva cambiato a suo piacimento, manovrandolo come un burattino. Il suo allontanamento da Angie ne era stata una disastrosa conseguenza. Era cambiato tutto talmente tanto dalla prima volta in cui si erano conosciuti che quasi faticava a ricordare.
‘Pablo fischiettò allegramente arrivando allo Studio. Ormai era passato esattamente un anno dalla prima volta in cui era entrato in quella scuola come insegnante e non come un semplice e promettente alunno, e ogni volta che passava per i corridoi si sentiva sempre più fiero del suo compito di insegnante. “Ehi, abbassate un po’ quella musica” rimproverò allegramente alcuni studenti che avevano cominciato a fare un po’ più di baccano del solito. “Vandali” borbottò il suo collega, Gregorio. Tra lui e Gregorio non c’era mai stato buon sangue, provavano un’antipatia a pelle, che avevano deciso di tacito accordo di non manifestare apertamente per mantenere un clima sereno in ambiente di lavoro. “Avete saputo la novità?” si affiancò ai due Beto, con un enorme croissant in mano, che sembrava fin troppo ricolmo di crema. “Basta che mi stai lontano. Non voglio sporcare il mio completo buono” lo riprese Gregorio, facendo qualche passo più in là. “Oggi arriva una nuova insegnante di canto! La Otero è andata in pensione: in effetti considerando che stava diventando sorda, e doveva insegnare canto…” rifletté Beto, rischiando di andare addosso a uno degli studenti. Pablo salvò al volo un probabile incidente nel bel mezzo del corridoio. “Bene! La Otero stava diventando davvero insopportabile” disse infine, aprendo l’aula della porta insegnanti. Fu allora che vide quello che sarebbe diventato il suo angelo; in disparte, in un angolino della stanza, Antonio stava parlando con una giovane donna dai capelli biondi dorati, e dal sorriso solare. I suoi occhi, misteriosamente segnati dal dolore, riuscivano comunque a sprizzare vitalità, e sicuramente si sarebbe perso in quel verde ipnotico se Beto non gli avesse dato una botta sulla spalla. Si rese conto di essere a bocca aperta, e che la donna lo stava fissando incuriosita. “Bene! Il corpo insegnanti in persona!” esclamò allegramente il preside, facendo cenno alla sua interlocutrice di presentarsi. Stava per farlo, ma l’arzillo Antonio fu più veloce: “Vi presento la nuova insegnante di canto. Si chiama Angeles, ma voi potete chiamarla Angie. E’ la sorella della grande Maria Saramego”. A quel nome Beto e Gregorio assunsero un’espressione seria, e di rispetto, ma Pablo si era nuovamente perso a scolpire nella mente i lineamenti di quel volto delicato e perfetto. “Bene, io vado e vi lascio alle presentazioni” disse poi il preside, uscendo dalla stanza a passo veloce. Beto si presentò in fretta e furia, ricordandosi di avere una lezione alla prima ora, e catapultandosi fuori, Gregorio invece fu preciso e dettagliato. “E ho svolto numerosi incarichi di prestigio, partecipando a dei musical di grande importanza in tutta Europa!” continuò, mentre Angie annuiva, più per fare piacere che per un reale interesse. L’uomo sembrò accorgersene, perché serrò la mascella, e divenne improvvisamente più freddo. Pablo sospirò rassegnato: probabilmente Gregorio l’avrebbe già considerata inadatta al ruolo d’insegnante e avrebbe cercato dei pretesti per tenerla a debita distanza. “Gregorio, dovresti andare da Antonio a consegnare alcune resoconti per il nuovo semestre” lo interruppe, per salvare la situazione, indicando quindi un fascicolo nero, e dall’aspetto serio. Gregorio annuì, poco convinto, quindi si congedò con uno sguardo indagatore alla ‘non finisce qui’ e uscì con la schiena dritta e fiera.
“Scusalo, purtroppo non è il massimo della simpatia, ma è innocuo” disse subito dopo, cercando di risollevare il morale della donna, che sembrava un po’ giù per il giudizio negativo del collega. “A me il primo giorno ha anche versato ‘accidentalmente’ il caffè addosso” aggiunse con una piccola risata. La donna si sciolse in un sorriso timido, e tese la mano: “Piacere, Angie”. Pablo la strinse con il suo solito modo amichevole, senza smettere di fissarla. Era la donna più bella che avesse mai visto, e sentì la mano iniziare a sudare al solo contatto. Sciolse la stretta di colpo, guardando per terra imbarazzato. Lui e le donne erano sempre stato un mondo parallelo: non le capiva, e mai le avrebbe capite; per di più in loro presenza sembrava un completo imbranato. “Ci prendiamo un caffè?” propose poi, avvicinandosi alla macchinetta impaziente. “Me lo vuoi versare addosso?” scherzò la donna, ricordandosi dello scherzetto di Gregorio. “No, non lo farei mai, perché poi… insomma, non potrei… poi dovresti toglierti la camicetta, e io… insomma, io sono un uomo, non sarebbe conveniente” cominciò a blaterare. Solo dopo si rese conto di quello che aveva detto e divenne rosso come un peperone; Angie scoppiò a ridere, e sfiorò la mano di Pablo per prendere in mano la tazza di caffè. L’uomo avvertì una scossa, e ritrasse la mano terrorizzato. “Stavo solo scherzando”. I due si guardarono e scoppiarono a ridere, anche se la risata di Pablo era più nervosa che altro. “Sei simpatico. Penso che potremmo essere buoni amici” disse infine tendendogli la mano libera. L’uomo la guardò incantato: quelle dita affusolate, e quella mano esile, sembravano chiedergli di essere strette dalla sua mano calda, e chi era lui per rifiutare? Aveva detto amici, ma lui sentiva già da subito che quella situazione non sarebbe potuta durare. Era timido, e non si sarebbe mai dichiarato, momentaneamente sarebbe stato semplicemente al suo fianco come amico, ma in futuro…in futuro avrebbe fatto il suo passo in avanti, lo sentiva. E sperava solo che quel sentimento tanto devastante mai provato prima sarebbe stato ricambiato.'
Speranze sciocche, ecco cosa erano state, si disse Pablo, mentre finiva di riordinare alcuni documenti. Si avvicinò alla macchinetta del caffè e deglutì. Un fulmine a ciel sereno, al ricordo di quel primo incontro, lo colpì. Doveva smetterla di mettersi da parte, di essere così indeciso. Si, aveva rivelato i suoi sentimenti ad Angie, ma poi che aveva fatto? Nulla. L’aveva vista andare via, l’aveva lasciata fuggire. Aveva sbagliato ad essere così remissivo: a costo di andare in aeroporto e inginocchiarsi di fronte a tutti i passeggeri, avrebbe chiesto ad Angie di rimanere. Se non per lui, almeno per le persone che amava veramente. Guardò di scatto l’orologio: le 14 e 45. A che ora aveva il volo? Non lo sapeva, ma conosceva qualcuno che faceva al caso suo, e per sua fortuna quel qualcuno adesso era allo Studio 21.
 
“Tutto bene?” chiese Leon, fermando la musica. Era la quarta volta che riprovavano quei passi, e la ragazza sembrava essere proprio su un altro mondo. Capiva il dolore per la partenza di Angie, ma avevano una gara a cui partecipare, e lui lottava sempre per vincere. “Si, è solo che…mi sono persa a questo passo, e…perdono, ricominciamo subito!” cercò di scusarsi a raffica, montando motivazioni su motivazioni. Leon si avvicinò e le mise le mani sulle spalle, guardandola intensamente: “Ehi, va tutto bene. Non ti stavo riprendendo, solo che…non mi piace vederti così”. “Così come?” sussurrò Violetta, contando i centimetri che la separavano dal messicano. Un centimetro, due centimetri…poi incrociò lo sguardo preoccupato di Leon, e perse il conto, ma non aveva intenzione di ricominciare da capo. “Così triste. Nemmeno quando ci siamo lasciati eri così” disse Leon; inclinò leggermente il capo, curioso. Violetta sentì una fitta dolorosa a quelle parole: faceva sembrare tutto troppo lontano, troppo irreparabile. Si separò dal tepore che avvertiva vicino a Leon, e le guance ancora le scottavano, ma lo attribuì alla fatica fatta fino a prima per la coreografia. “Sarà meglio ricominciare”. L’aveva detto con una freddezza che non le apparteneva, e il tono colpì anche Leon, che scrollò le spalle, tirando fuori il telecomando dalla tasca per far partire la musica. La musica però non le scorreva nel sangue come sempre, fluendole nel corpo, non la sentiva sua, e ancora una volta sbagliò i passi. Leon bloccò nuovamente. “Ricominciamo” disse lei nuovamente, asciugandosi la fronte sudata. La musica partì, e i passi stavolta le vennero quasi tutti, con qualche piccola imperfezione. Leon la afferrò, facendola sollevare in aria, e poi le fece fare una piroetta. In un istante però si ritrovò con il corpo schiacciato contro quello del messicano, gli sguardi fusi ciascuno in quello dell’altro. Non era quella la posizione finale della coreografia: o meglio, non doveva esserci tutta quella…tensione. Si, preferiva chiamarla tensione, anche se era evidente si trattasse di altro. Entrambi respiravano affannosamente, ma non mossero un dito: le braccia di Leon la stringevano anzi con più forza di prima, come se stessero approfittando di quel momento. Violetta guardò prima Leon, poi la porta della sala di ballo, poi di nuovo Leon, quindi si soffermò sulle mani che teneva premute sul petto del ragazzo. “Che c’è, hai paura che ti veda Diego?” ghignò Leon, con uno scintillio negli occhi. Violetta arrossì ancora di più, e alzò nuovamente lo sguardo. Si alternavano rabbia, per quell’affermazione, e compiacimento, per la gelosia che continuava a mostrare nei confronti dello spagnolo. Fece risalire le mani fino ad aggrapparsi alle spalle di Leon, quindi si sporse di più verso di lui, fino ad alzarsi sulle punte. “E tu non hai paura che ci veda Lara?”. L’aveva colpito nell’orgoglio, infatti sembrava estremamente nervoso dopo quell’affermazione. Sperava in quel modo di allontanarlo, e allora perché continuava con quella stretta mortale per entrambi? Perché semplicemente non si scostava come sempre, tornando a ignorarla? In fondo erano mesi che non facevano altro che lanciarsi frecciatine, nella speranza che l’altro mostrasse segni di gelosia. E ogni volta ne uscivano con un sorriso vittorioso…ma non facevano un passo in avanti. Eppure entrambi sembravano aver capito che non riuscivano a stare lontani. Gelosia, stupide vendette, rimorso, rancore…ecco gli unici sentimenti che li animavano. Leon cominciò a dare segni di cedimento: aveva lo sguardo smarrito; era di fronte a un bivio: non poteva tradire Lara, non lo meritava, ma d’altra parte quella situazione lo invitava a seguire la strada che portava dritta dritta alle labbra di Violetta. Il buonsenso stava lentamente scemando, lasciando lo spazio al leone che ruggiva dentro di lui; l’istinto ebbe la meglio, e prima che Violetta potesse punzecchiarlo ancora, la baciò. La ragazza sgranò gli occhi, ma non si ritrasse. E come avrebbe potuto ritrarsi da una delle cose che più desiderava al mondo? Quando fece capire al messicano che desiderava quel bacio quanto lui, tutto divenne più semplice. Leon cominciò ad accarezzarle la schiena, mentre dava tutto se stesso in quel bacio, alternando dolcezza e passione come un’altalena. Era diverso dal loro primo bacio, tanto semplice quanto innocente, e non poteva nemmeno essere minimamente paragonato ai baci che aveva dato a Lara, che gli erano apparsi forzati dalla sua mente. La stretta sulle sue spalle si fece salda come l’acciaio, e mentre le loro labbra si sfidavano ardenti, Violetta rabbrividì. Leon sorrise, rendendosi conto del suo tremare, ma non interruppe il bacio, anzi si sentì ancora più stimolato a dare di più. Sempre e solo di più. Quando le loro lingue si scontrarono, quando i loro corpi aderirono completamente, allora capì di aver fatto abbastanza. “Violetta!”. Una voce li richiamò alla realtà. Leon si separò tentando di ricordarsi come si facesse a respirare, e Violetta appariva presa dal medesimo problema. “P-Pablo…non è come sembra…” tentò di spiegare, desiderando sparire per la vergogna: colta in flagrante da un professore in un momento del genere! Leon sembrava leggermente più tranquillo di lei, ma si coglieva comunque uno sguardo preoccupato. Il professore tuttavia non era sorpreso, o sconvolto, bensì agitato. E anzi, probabilmente aver visto quel bacio non rientrava per niente tra le sue preoccupazioni. “A che ora è il volo di Angie?”. “Pablo, che vuoi fare?” chiese Violetta preoccupata dall’instabilità che stava mostrando l’uomo, così lontana dalla sua solita pacatezza. “Tu rispondimi, non c’è tempo” la implorò il professore, guardando l’orologio appeso alla parete della sala: le 15. Il tempo scorreva troppo velocemente, e lui non riusciva a stargli dietro. “Doveva essere intorno alle 17, se non sbaglio…” mormorò la giovane, cercando di ricordare. Pablo non le diede il tempo di dire altro, si avventò su di lei, quasi finendo per investirla, e le diede un bacio sulla fronte. “Grazie, grazie di tutto! Forse ce la faccio!” esclamò al settimo cielo, per correre fuori dall’aula di ballo. “Che la troppa vicinanza a Beto lo stia facendo impazzire?” ipotizzò Leon, seguendo lentamente il percorso di Pablo, fino alla porta, che chiuse con aria assorta. Violetta l’aveva seguito, e ora era alle sue spalle. Non capiva nulla di ciò che stava succedendo tra di loro, figurarsi se poteva capire lo strano atteggiamento dell’insegnante! Fece per sfiorargli la spalla, ma il ragazzo rapidamente le afferrò il braccio, e la fece ruotare, fino a farla finire con le spalle addossate alla porta. “Adesso nessuno ci interromperà” asserì serio. Piantò le i palmi delle mani sulla porta in modo da impedirle ogni possibile fuga, ma non ce n’era bisogno: era troppo paralizzata per fare qualunque cosa. “Allora? Adesso puoi allontanarmi, dirmi che sei felice con Diego, che io sto con Lara…possiamo tornare ai nostri soliti giochetti” mormorò con voce roca, avvicinandosi a lei. Era impossibile ormai tenerlo lontano. Con quel bacio si era scoperta, aveva messo a nudo la sua anima, e ogni suo pensiero era chiaro e trasparente agli occhi del messicano.
‘da quello che mi hai detto sai anche chi è il tuo vero amore, e porta il nome di un fiero animale. Leon’
‘Sei tu che non capisci che non puoi mentire per sempre a te stessa’
Perché non poteva mentire a se stessa? Che cosa glielo impediva? Leon aspettava una sua qualunque risposta, che non tardò ad arrivare. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò nuovamente, lasciandosi guidare dalle parole di Angie, che ancora una volta, anche se lontana, si era dimostrata capace di comprenderla più di chiunque altro. Leon rispose con ancora più ardore di prima, schiacciandola contro la porta. Il suo naso le solcava la guancia, muovendosi in simbiosi con la sua bocca. Quel bacio aveva suggellato il loro tradimento, eppure sembrava non importargli. Non riuscivano a provare alcun senso di colpa, perché in fondo si sentivano come se non si fossero mai separati.
 
Angie continuò a guardare nervosamente l’orologio che le aveva donato Pablo, stretto nella mano sinistra, mentre con la destra trascinava il voluminoso trolley. Quel giorno non aveva nemmeno preso il caffè, e la cosa la infastidiva. Cercando di accantonare nella mente le dolci parole del suo amico, perché ancora cercava di convincersi che il loro rapporto fosse di semplice amicizia, si avvicinò al bar dell’aeroporto, e si sedette. Il cameriere prese l’ordinazione, e lei si incantò nuovamente a guardare quel cimelio, simbolo della promessa che aveva fatto di non dimenticarlo. Anche volendo non ci sarebbe riuscita, quindi quella promessa le sembrava sciocca, ma anche ricca di dolcezza e amore. L’odore forte del cappuccino la risvegliò, e finalmente poté annegare tutto nella caffeina e nella schiuma. Quando ebbe poi raggiunto il fondo, la sua mente iniziò a rischiararsi, e ad acquisire lucidità. Si alzò di scatto in piedi, e dopo aver pagato alla cassa, con il trolley si diresse verso la sua nuova destinazione. “E’ possibile imbarcarsi per il volo per Parigi al Gate 7”. La voce metallica e impassibile dell’altoparlante le provocò una capriola al cuore. Era giunto il suo momento, per spiegare le ali e seguire il suo destino. Si avvicinò con i documenti pronti, e una delle hostess addette all’imbarco le sorrise dolcemente. “Angeles Saramego” mormorò controllando la lista dei passeggeri. Angie annuì, e infilò la mano nella tasca della giacca per stringere l’orologio di Pablo. Divenne bianca come un lenzuolo quando si rese conto di non averlo più con sé. “Bene, tutto confermato, può partire” concluse gentilmente la signorina, porgendo il passaporto. Angie rimase ferma, lo sguardo fisso nel vuoto. Che fine aveva fatto? Eppure lo aveva sempre portato con sé, custodendolo gelosamente. L’aveva tirato fuori solo al bar, prima di prendere il cappuccino, e…il bar! Sicuramente l’aveva lasciato lì. Si portò una mano alla fronte, ripercorrendo tutte le sue azioni; si era alzata, aveva preso il manico del trolley, troppo assorta, aveva pagato, e l’orologio era rimasto là, sul tavolino. “Ho scordato una cosa, ma torno subito!” esclamò improvvisamente, lasciando sorpresa l’hostess.
Pablo faceva un continuo slalom tra i passeggeri che facevano avanti e indietro in quell’aeroporto affollato. Per poco non finì addosso a un’anziana signora che teneva in mano una cartina con aria confusa. “Mi scusi!” strillò, dopo averla evitata all’ultimo secondo e continuando con la sua folle corsa. Dopo qualche minuto fu però costretto a rallentare, data la sua scarsa resistenza fisica. Mentre camminava con il fiatone ripensava a quello che stava facendo: una pazzia. Pensava davvero che vedendolo arrivare Angie avrebbe deciso di non partire, proprio come nei film? E poi magari ci sarebbe stata anche la romantica scena del bacio in aeroporto? No, perché lei non lo avrebbe mai amato, e quella consapevolezza era come un macigno che ostinatamente portava con sé, non riuscendo a liberarsene. Ma in fondo si accontentava di avere un minuscolo spazio nel cuore della donna, anche come amico; si era sempre e solo accontentato.
‘Pablo si torturava nervosamente le mani. “Io ho rischiato di finire in galera per te!” la riprese. “Hai ragione, non avrei dovuto chiederti di accompagnarmi, solo che avevo paura” rispose Angie, sedendosi accanto a lui in aula professori, e prendendogli le mani. Era l’unica persona con cui si era confidata, rivelando la sua difficile situazione familiare e aveva bisogno del suo appoggio. “Almeno gliel’hai detto? Hai detto a Violetta che sei sua zia?” domandò, guardandola dritta negli occhi. Prima ancora che potesse rispondere aveva già capito la risposta. “Volevo!” esclamò lei, alzandosi in piedi di scatto e camminando avanti e indietro  per la stanza. “Non gli hai detto nulla? Angie, le bugie non portano da nessuna parte”. La donna sospirò: Pablo era il suo consigliere fidato, a lui aveva sempre raccontato tutto, e per il suo aiuto, la sua pazienza, non aveva mai preteso nulla in cambio. “Lo so, appena potrò gli dirò la verità”. Si avvicinò alla macchinetta, intenta a prepararsi un caffè. Quando era nervosa doveva tenere occupate le mani, era più forte di lei. “Com’è il padre? Il tuo cognato, insomma” le domandò curioso. Angie si fermò di botto, e si voltò con aria spaesata, ma Pablo lesse qualcosa nei suoi occhi, uno scintillio che non aveva mai visto. Brillavano d’amore, e sapere che non fosse lui la causa di quella gioia lo annientò completamente. “Un troglodita! Un bell’uomo, ma pur sempre un troglodita testardo” disse lei, nascondendo il nervosismo. “Ti piace! Angie, ti piace German!” la riprese sconvolto. Gli uscì una mezza risata di disprezzo. Perché doveva toccare a lui? Perché doveva competere per un amore per il quale lottava da anni? Gli dava fastidio quella situazione, anche se tra loro le cose erano sempre state chiare: erano solo amici. “Non mi piace! Cosa blateri”. Non gli ci volle molto a capire che in realtà la sua Angie si fosse appena innamorata. Ma non era lui il fortunato prescelto.’
Si bloccò non appena vide un oggetto a lui fin troppo noto appoggiato a un tavolino di un bar: l’orologio di suo padre. Il suo cuore andò in frantumi: dunque era così che stavano le cose. Non aveva intenzione di mantenere la promessa, voleva dimenticarlo, tagliare i ponti con il passato argentino, e quella ne era la prova. Deglutì, con le lacrime che premevano contro i suoi occhi in attesa di uscire. Ma Pablo non era mai riuscito a piangere in pubblico, quindi pose un freno al suo dolore. Prese l’orologio con la massima delicatezza possibile, come se fosse un tenero neonato, e lo ripose nella tasca. Desistette da ogni suo proposito; perché presentarsi da Angie, chiedendole di restare, quando lei stessa gli aveva dimostrato che non ne aveva alcune intenzione? Sapeva che ne sarebbe uscito umiliato, e quel briciolo di orgoglio gli impedì di muovere un altro passo. Si voltò nella direzione opposta, quella da cui era venuta, e iniziò a camminare, intento a non barcollare, mentre gli occhi si facevano sempre più lucidi, e il dolore al petto sempre più forte.
Angie correva. Aveva abbandonato il trolley al Gate per non esserne intralciata, e si sentiva rivolgere imprecazioni da tutti quelli che spintonava in mezzo alla folla, ma non le interessava. Lei doveva mantenere quella promessa, voleva. Era qualcosa che le avrebbe consentito di tenere sempre saldo e indistruttibile quel filo che la teneva legata a Pablo, l’uomo che aveva sempre suscitato in lei sempre e solo affetto. O almeno era quello che credeva. Come si poteva capire quando si supera il sottile confine che dall’amicizia sfocia nell’amore? Violetta c’era riuscita, e lei no. Lei aveva capito il forte e inebriante sentimento che provava per Leon, inizialmente visto solo come un amico, e lei non ne era in grado.
‘Pablo continuava a chiederle perdono, ma non sapeva quanto la stesse mettendo in pericolo. In quel momento German avrebbe potuto vederla e chiederle spiegazioni, alle quali lei non avrebbe saputo dare risposta. “Siamo migliori amici, si o no?” le chiese all’improvviso, implorandola con lo sguardo. Fu in quel preciso istante che vide il suo datore di lavoro, affacciarsi dalla villetta, con fare curioso, e fece la prima cosa che le venne in mente: baciò Pablo. Non aveva mai visto l’uomo in un ruolo diverso nella sua vita di quello di un amico, quasi un fratello, ma mai nulla di più. Mentre lo baciava, stringendo il viso tra le mani, e sfiorando la barba pungente dell’uomo, si sentì strana. Non che non le piacesse, ma le sembrava quasi innaturale. Una voce in fondo al cuore invece gridava, e la rassicurava: non c’era niente di più giusto da fare’
Perché non aveva dato voce a quella flebile voce? Adesso che si rendeva conto di ciò che stava lasciando, capiva che probabilmente non avrebbe mai avuto qualcuno che potesse sostituire Pablo. Quando raggiunse il bar rimase profondamente delusa: sul suo tavolo c’era una giovane coppia che chiacchierava allegramente, ma non si vedeva alcuna traccia di nessun orologio. Chiese ai due innamorati in partenza, ma questi ultimi sembravano non aver visto nulla, arrivati al bar. Chiese anche al proprietario ma ancora una volta la risposta fu negativa. Adesso si trovava di fronte a un bivio: partire e lasciare tutto alle spalle, o tornare sui suoi passi? In fondo Pablo non meritava di sapere che lei aveva perso quell’oggetto tanto prezioso? Non meritava che lo sapesse di persona, e non con un messaggio o attraverso la voce di un cellulare? A quel punto ogni certezza venne meno, e tutta la determinazione che le aveva donato Antonio era scomparsa: ecco ancora una volta la fragile, debole Angie, che non sapeva cosa fare della sua vita.
 
Pablo aveva passato tutto il pomeriggio in giro a riflettere, e adesso si sentiva più tranquillo. Quando finalmente raggiunse la villetta in cui viveva, tirò un sospiro di sollievo. Aveva bisogno prima di tutto di un bagno caldo, in cui affogare i suoi dispiaceri, e poi si sarebbe concesso una fantastica pasta al pesto. La cucina italiana era l’unica cosa che lo faceva stare meglio quando era abbattuto, e in cucina non se la cavava per niente male. Aprì il cancelletto di legno che introduceva al giardinetto della sua abitazione, ma rimase impalato a metà del piccolo sentiero che conduceva alla porta della villa. Sugli scalini dell’abitazione Angie era seduta con lo sguardo basso, con il trolley poggiato accanto a lei; ma non appena ebbe sentito il cancelletto cigolare, alzò di scatto e si alzò in piedi, senza sostenere lo sguardo dell’uomo. “Angie, ma…cosa ci fai qui?” chiese lui sorpreso, e anche infastidito. Prima gli faceva capire di volerlo dimenticare, e poi si presentava sotto casa sua come se nulla fosse. “Pablo, io…non parto più”. “Hai perso il volo? Prendi il prossimo”. “No, io non parto più”. Un soffio di vento accompagnò le parole della donna, che ancora non lo guardava negli occhi. “Cosa ti prende?”. “Mentre venivo qui, mi sono resa conto che non posso mantenere la tua promessa. Non posso…” singhiozzò la donna. Pablo annuì, con il cuore a pezzi: “L’avevo capito”. Strinse l’orologio nella tasca, cercando di trattenere le lacrime. “Non posso, perché ho capito che sarebbe inutile. Non c’è nessuna promessa da mantenere, io non potrei mai dimenticarti”.
Il mondo aveva subito una svolta inaspettata, e lui si sentiva fuori posto, anche se quella era casa sua. “Pablo, io ho perso l’oggetto a cui tenevi di più come una sciocca, ma quando l’ho perso ho capito che nessun oggetto avrebbe potuto essere più importante dei sentimenti che provo per te. Perché sono stata cieca a non rendermene conto”. Pablo non disse nulla, ma quasi stritolò l’orologio, senza decidersi a tirarlo fuori: voleva sentire che avesse da dire fino alla fine. Angie ormai aveva le lacrime che scendevano senza controllo, e tremava di paura. Non era mai stata così decisa, e allo stesso tempo così incerta in vita sua; viveva con una sola certezza: l’amore che aveva sentito affiorare per Pablo, all’improvviso, come una tempesta inarrestabile. E che senso aveva cercare di sopprimerlo, quando lui le aveva chiesto di essere sempre sincera con lui? “Credo di amarti”. L’aveva sussurrato, ma giunse come un grido disperato nel cuore di Pablo. La mano sudata scivolava ben stretta intorno al vetrino, quasi volesse raggiungere le lancette di quell’orologio. “Perché dovrei crederti?” le chiese con voce tremante. “Perché nonostante il mio amore per Violetta, nonostante l’affetto che provo per questa città e per tutti coloro che sono allo Studio 21, io sono rimasta per te. E’ per te che non parto. Ma la scelta è tua, tu stesso mi hai detto che non si può costringere a corrispondere un amore…Se tu mi dirai che è tutto cambiato…”. Nel frattempo si avvicinò all’uomo. “Se mi dirai che non provi più lo stesso…”. Sempre più vicina. “Se mi dirai che guardandomi negli occhi non senti più nulla…”. “Allora io me ne andrò” mormorò, ormai a qualche centimetro da Pablo. L’uomo ancora non aveva detto nulla, e questo la terrorizzava. I due finalmente si guardarono negli occhi, ed ogni tentativo di resistenza scomparve: ricordava ancora quel verde, ma soprattutto ricordava quel brillare. Quello scintillio per cui lui era stato tanto geloso, non sentendosene padrone all’epoca. E invece eccolo lì, solo per lui. Le sfiorò piano una guancia con la mano libera, quindi abbandonò il cimelio di famiglia, per tirare fuori l’altra mano e accarezzarle i capelli. “Tu non andrai da nessuna parte…non avrei nessuno con cui rimpiazzarti a scuola”. La donna rise brevemente, tirando su con il naso. “E non avrei nessuno al mio fianco” sussurrò, a un centimetro della sua bocca. Lentamente le loro labbra si sfiorarono, per poi toccarsi con una delicatezza che non avevano mai sentito. Come l’ape si posava sul fiore, in cerca del suo prelibato nettare, allo stesso modo Pablo gioiva nel sentire la dolcezza e la morbidezza delle labbra di Angie. E questa volta non avrebbe condiviso con nessuno quella gioia, perché era solo sua. “Ti amo” disse poi a un soffio. Riaprirono lentamente gli occhi, per osservare il sorriso dell’altro, quindi li richiusero e ripresero a baciarsi, sempre di più, fino a non sentire altro che il battito del cuore dell’altro fondersi con il proprio. “Anche io ti amo, Pablo…e mi dispiace aver perso un oggetto per te tanto importante” disse lei addolorata, accarezzandogli piano il viso. L’uomo invece di mostrarsi sofferente, sorrise ancora di più, e tirò fuori dalla tasca l’orologio. Angie lo guardò stupita. “L’ho trovato mentre venivo in aeroporto. Volevo chiederti di rimanere, ma poi non ne ho avuto più il coraggio”. La donna iniziò a piangere nuovamente, ma questa volta di felicità. Lo abbracciò talmente forte, che Pablo pensò sarebbe morto stritolato, ma non poteva lamentarsi. Quell’abbraccio era ciò che più lo faceva sentire vivo in vita sua, era ciò che aveva sempre sognato. Non l’abbraccio di due amici, ma l’abbraccio di due innamorati. Si beò di quel profumo che tanto lo faceva impazzire, e rise di cuore, quando la sentì rafforzare ancora di più la stretta. L’orologio che le aveva donato per dirle addio, l’aveva riportata da lui. Quell'orologio era il simbolo di una promessa che sapeva sarebbe stata mantenuta per sempre. 








NOTA AUTORE: era tanto che non trovato il tempo per scrivere una OS, e in effetti non so come ho trovato il tempo, visto che devo lavorare alle altre fanfiction, e ho paura di rallentarle, ma questa OS la dovevo scrivere perchè mi è venuta in mente una mattina ripensando all'episodio in cui Angie parte nella seconda stagione. A me l'idea piace, ma ovviamente poi la resa effettiva mi lascia sempre perplesso xD Solo che la volevo caricare oggi che è San Valentino...insomma si, facciamo i teneroni essù xD Beh, in realtà questa OS non la commento, lascio a voi questo onere/onore :P Buona lettura a tutti, e alla prossima! :D (e buon San Valentino -?-)
Ah, dedico questa One-Shot alle due leader Pangie del fandom, la dolcissima Sweet Trilly e ovviamente la mitica e leggendaria Dulcevoz (io spero che dopo questa OS tu sia ancora viva, ecco). Mi hanno anche appoggiato parecchio con i loro scler- volevo dire i loro pareri per questa storia, quindi le ringrazio con tutto il cuore :D 

 
  
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