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Autore: Amitiel    16/02/2014    0 recensioni
"A volte è meglio quando le cose non sono perfette.
Almeno così sai che sono vere."
- My Life as Liz -
Genere: Fantasy, Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Melissa McCall, Nuovo personaggio, Sceriffo Stilinski, Stiles Stilinski, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Triangolo
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The song of rebellion

Dicono che gli angeli abbiamo perso le ali nell'attimo esatto in cui conobbero l'Amor mortale.

 
Una lettera. Tutto quello che mi rimaneva di Eleonore era una stupida lettera tra le mani inondata di quelle poche lacrime che riservavo alle  poche persone che amavo .Io ero un Angelo per lei. Ma non sapeva quanto si sbagliava. Ero l'ombra perfetta di una luna, maledetta dalla nascita alla follia. Io ero quella strana, allontanata da tutti,con troppo mascara in torno agli occhi per i suoi quattordici anni. Con quel rossetto vistoso nascondevo la mia età dentro un corpo fragile e fin troppo snello. Sembravo anoressica, sul punto di rompermi. Spaccarmi in tante piccole ossa, polvere alla polvere. Uno scricciolo per l'esattezza, mia madre mi chiamava cosi. Io ero il suo piccolo scricciolo, il suo genio personale. La ragazza dei libri. La bambina dai sogni impossibili. Io ero cosi tante cose e ora ero stanca di esserlo. Volevo solo chiudere gli occhi ed abbandonarmi dentro lenzuola troppo fredde per potere avere la capacità di riscaldarmi. 
Mi madre era morta  tre giorni fa. Stava venendo a vedere il mio saggio di danza a scuola. Correva perchè non voleva perdersi uno dei miei tanti stupidi ed idioti saggi di ballo. Voleva sempre esserci,presente in ogni cosa della mia vita. Dalla più insulsa alla più importante. Dal primo starnuto e raffreddore al primo capriccio insensato. Al primo balletto all'asilo quando scoprì di amare la danza più di ogni cosa .Niente attirava la mia attenzione o mi faceva sorridere realmente come ballare.  Essere in punta di piedi, in perfetto equilibrio ed armonia era come respirare di nuovo dopo aver trattenuto il fiato per ore. Io trattengo il fiato da tutta una vita in attesa di qualcosa. In attesa di qualcuno che ormai non ha più importanza. Non per me. Mamma è morta. Correva sulla strada nell’unica giornata piovosa di un estate tormentata da un ex marito violento da cui eravamo fuggite entrambe. Lui i soldi se li sniffava, lei se li sudava. E mentre compievo la mia ultima piroetta io la cercavo con i miei occhi in mezzo a tante madri e genitori estasiati. Lei non c’era .Io per un attimo l’ho odiata. Ho odiato mia madre perché non c’era. Perché aveva fatto una promessa e non l’aveva mantenuta. Mentre io la odiavo il suo cuore rallentava di battito in battito sopra una strada asfaltata piena d’acqua. Mia madre fissava il cielo e io non saprò mai a cosa stesse pensando.
Il poliziotto si avvicinò a me fuori dagli spogliatoio con quella faccia triste di chi di sicuro ti porta solo brutte notizie.
E con voce fredda e distaccata mi disse l’unica cosa che non  volevo sentire. A cui non volevo credere.
“Signorina Grimaldi?Sua madre ha avuto un incidente. Purtroppo non c’è l’ha fatta … Mi dispiace … deve venire con noi all’ospedale”
“Cosa?No … No mia madre sta arrivando è solo come sempre negli ultimi tempi in ritardo. Non mi dica fesserie!”
Ma lui non sorrideva, ne aveva un espressione triste .Mi portarono all’ospedale. Mi portarono all’obitorio dove lei immobile giaceva su un lettino di metallo .I suoi occhi color  autunno erano chiusi per sempre.
“Mamma …? Mamma … MAMMA!” E scossi quel corpo asciutto e formoso della donna che mi aveva adottato e cresciuto come fossi frutto del suo grembo. Quella donna minuta e straordinaria che tra una risata e un pianto mi aveva stretto sempre a se dicendomi che tutto sarebbe andato bene. Che Un Inverno non poteva mai durare per sempre.
Mi gettai sul suo corpo,freddo come marmo. La scossi piangendo ,urlando ed imprecando contro tutto e tutti. Ordendo e graffiando i medici e i poliziotti che mi volevano staccare da lei. Solo un calmante frenò il mio corpo dalla ribellione ma il mio cuore e la mia mente urlavano e si spaccavano in mille pezzi.
Lei ora non c’era più e tutto quello che avevo era un vecchio album di foto e la lettera dell’ultima persona al mondo a considerarmi un essere vivo,parlante, con una mente propria.
Non una ragazzina piena di problemi e di perdite. L’unica persona che mi abbia mai voluta ora era sotto terra e io l’avevo seppellita.
Cosi dopo il funerale venni a conoscenza che il mio padre adottivo non mi voleva. Aveva rifiutato la custodia e cosi gli assistenti sociali avevano di nuovo bussato alla mia porta. Di nuovo un mare di valigie vuote. Libri, abiti, ricordi.
Mi avevano messo sul primo aereo per Beacon Hills e stavo tornando all’orfanotrofio come aveva deciso il giudice minorile. Tornavo a casa. All’origine di tutto.
Tornavo ad essere Rea, la bambina senza un passato. La ragazzina di tre anni che aspettava genitori invisibili dietro sbarre di ottone e sospiri troppo profondi, con rughe d’espressione che stonavano sul viso infantile.
Sono tornata a fissare il mondo da dietro una finestra appannata da occhi pieni di lacrime che mai avrei buttato fuori.
Ero la non voluta in questa cittadina ridente che non mi aveva mai rivolto un sorriso.
Disfai le valigie dopo aver letto e riletto la lettera di Eleonore ed averla ripiegata con cura infilandola dentro il cassetto delle mutande.
Avevo celato li dentro il mio tesoro. Per me quella lettera era l’ultima di una infinità. In tutti quegli anni lei e la mamma erano le uniche ad aver mostrato quella forma d’amore verso di me. 
Sospirai tornando a fissarmi nello specchio. Tornai a fissare quella foto dove una donna dai tratti ispanici mi fissava sorridendo. Avevamo lo stesso modo di sorridere, le stesse fossette laterali Ma i miei occhi erano  freddi, chiari .
I suoi erano caldi e scuri. I capelli  anche, in confronto a lei io ero biondo  miele scuro.
E mi ritrovai a pensare a che volto potesse avere mio padre. Come si incurvassero le sue labbra dentro i sorrisi che compieva?Era una persona buona oppure no?Chi era?Chi erano?L’orfanotrofio mi stava stretto e cosi decisi di uscire.
Di seguire l’istinto che mi diceva che dovevo andare a prendere un po’ d’aria e cosi feci.
Camminai per un oretta fino ad arrivare al centro cittadino. La foto era ancora con me,nella tasca dei jeans skin stretti che fasciavano il mio corpo esile.
La portavo sempre con me, da quando ero piccola avevo fatto si che diventasse un abitudine.
Come se sperassi , un giorno, di inciamparci per caso contro. A quella donna intendo.
Un gelato, l’ennesima occhiata storta all’ennesimo vecchio beone.
Essere sola significava anche badare a me stessa, i pericoli nel mondo erano tanti, ma io potevo farcela. Oppure era quello che credevo.
Usci dal centro commerciale dove mi ero rifugiata. Passi lenti sull’asfalto caldo. Il sole della California stava già tramontando. In torno a me sentivo gli echi di risate divertite. Qualcuno scherzava, sembrava una donna con un ragazzo. Alzai il viso e la fissai. Fissai quella coppia che mi dava le spalle e sospirai. Invidiavo il ragazzo dalla mascella squadrata e gli occhi nocciola. Lui aveva qualcuno con cui ridere. Io avevo un Hot Dog e un peluche, patetica. Eppure mi ritrovai a sorridere quando lui incrociò il mio sguardo e mi salutò distratto, forse per cortesia, con un cenno del mento. La donna, forse sua madre, si girò verso di me ridendo ancora con suo figlio.
Il mio cuore si fermò, nell’attimo in cui i suoi occhi incrociarono i miei. Il mondo vorticò come se sotto di me non ci fosse terra ma aria. Tutto vorticava e io immobile fissavo le sue labbra piene, quelle fossette che avevo osservato per tutta una vita chiedendomi se fossero reali.  I capelli ricci che incorniciavano il suo viso dai lineamenti decisi e anche dolci. E poi i suoi occhi passarono dentro quel cioccolato fuso dal divertimento alla preoccupazione.  
Il mio viso doveva essere pallido, l’espressione tipica di chi vede un fantasma.
La fissai, con il cuore in gola che martellava un ritmo frenetico. Era lei. La donna della foto che teneva la neonata, cioè me, in braccio. Quella che ora mi si palesava d’avanti altro non era che mia madre. Tremai compiendo un passo avanti ma un auto svoltò suonando con due persone dentro, un ragazzo e un uomo.
La donna mora si girò quando qualcuno la chiamò.
«Melissa ?Scooooottt!»
Urlò il ragazzo affacciandosi dal finestrino in stile Labrador.
«Abbiamo la partita di Lacrosse .Andiamo dai che è l’ultima della stagione .Papà stai guidando come una lumaca … Melissa vieni anche tu?Su e dai che facciamo tardi. Ci manca solo questo e il Coach ci butta fuori. »
La donna,Melissa, rise divertita. Forse era abituata a queste scene di quotidianità.
«Mi dispiace Stiles .Ma ho il turno in ospedale.  »
« Ti accompagno io. I ragazzi possono andare con la tua auto.» L’uomo nella Jeep le sorrise affabile.E nei suoi occhi, freddi e penetranti io vidi qualcosa…lui provava qualcosa per lei?Strinsi i pugni.Si erano dimenticati di me. Indietreggiai.Mi sentivo estranea…quella donna lavorava all’ospedale?Sapevo come trovarla…Dovevo capire chi fossero. E se ero nata nell’ospedale della città allora li c’erano le mie risposte. Diedi le spalle ad entrambi e corsi verso l’orfanotrofio mentre la notte scendeva.Nel cuore un battito diverso,la paura,la confusione,la gioia,il timore. Melissa...Melissa...Era questo ,dunque,il nome della mia vera mamma?E con gli incubi del poi io mi rifuggiai oltre il vialetto secco e il cancello in ottone arruginito.Dentro una stanza di sogni infranti e paure. 

Sono la figlia di Nessuno.Ma ora nessuno ha un nome.E le mie labbra si baciano alla parola Mamma...
  
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