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Autore: Emerlith    17/02/2014    1 recensioni
-Vincerò io Rod, Io vinco sempre.-
I tuoi baratri neri si riducono a due fessure, ma solo per un attimo.
Hai perso da tempo la speranza che io possa caderci dentro, come invece è successo a te.
-Può darsi, Bella. Ma stavolta non giochi da sola, non detti tu le regole. -
Perché le anime dannate non trovano mai pace. Mai, neppure dopo la morte.
Perché Bellatrix ha sempre temuto qualcos'altro, molto più della sua stessa morte.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rodolphus Lestrange | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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La chanson des vieux amants
 

L’aria che respiro è intrisa di fumo denso.
Talmente denso da sembrare nebbia.
Mi avvolge in fredde spirali, completamente, sembra quasi voglia farmi da scudo, cullare i miei passi attraverso i corridoi bui e i saloni dalle volte affrescate.
Sorrido, mentre seguo l’eco dei miei passi e tendo le orecchie, per sentirli. Per carpire il primo scalpiccio dei loro passi affrettati e spaventati, per godere del primo singulto sfuggito alle loro labbra tremanti.
Scivolo nell’ombra, silenziosamente, solo il debole fascio di luce della bacchetta a precedermi assieme al mio respiro. Non perché io non veda, no. Ma perché loro, vedano me.
Perché siano in grado di cogliere il mio arrivo, perché scorgano il barlume dello spettro della morte prima che questa li scaraventi con violenza  verso le sue tenebre più profonde.
Passo la lingua sulle mie labbra carnose. Sento il sapore e il gusto acre del sangue.
M’inebria i sensi, stuzzica il mio appetito, la mia sete.
Ma è appena cominciata, non posso lasciarmi sopraffare, non ancora.
È troppo presto, ed io devo vincere.
 
Continuo a camminare, immersa nel rassicurante torpore del nulla che si assapora in quest’ovattata oscurità, inframmezzata a intervalli regolari dall’improvviso e sfuggevole bagliore dei lampi che oltrepassano le barriere fittizie delle vetrate. Aguzzo la vista, mentre mi accingo a perlustrare l’ennesima stanza piena di mobili, cianfrusaglie ammassate senza scopo, prive di una qualsiasi utilità, se non quella di rendere ancora più affascinante e divertente il mio gioco.
Il fumo si sta diradando, e nell’istante esatto in cui colgo il primo fruscio, il primo movimento fulmineo in un angolo, le note scandite al pianoforte iniziano a permeare le pareti con un ritmo sempre più incalzante, eppure delicato al tempo stesso. Talmente delicato che mi provoca una nausea istantanea, ma al tempo stesso ravviva l’impulso di continuare la mia caccia e impone ai miei muscoli un maggiore controllo.
Digrigno i denti, mentre sono costretta a poggiarmi alla parete fredda e spoglia per un attimo, il respiro affannato ed il mio cuore che dolorosamente pulsa.
Un altro lampo illumina la sala, assieme al fragore cupo del tuono la porta di fronte a me si spalanca e l’ombra della la tua sagoma si delinea pian piano davanti ai miei occhi,  in accordo perfetto alle note che riecheggiano come una nenia infantile.
 
Ghigno, serrando la mano attorno alla mia bacchetta, pienamente soddisfatta.
Avanzi di pochi metri, fino ad esporre il tuo viso alla tenue luce che filtra da questa finestra, speranzoso forse di riportare alla luce chissà quali follie.
-C’è una tempesta.- Esordisci, ed io ti sorrido. Ti sorrido come solo io sono in grado di fare, in quel modo che ti fa impazzire, che ti consuma , ti logora dentro, ti toglie il respiro, ogni barlume di lucidità, come i lampi che si abbattono sui nostri volti ma che ricadono inevitabilmente nell’oblio.
-Bella.-  Chini appena il capo, i capelli neri ti ricadono disordinati sulla fronte, la tua mascella si contrae, gli occhi seguono la scintilla di sempre, che non afferreranno mai.
-Rodolphus.- Continuo a sorriderti, avvicinandomi di qualche passo, mentre il mio vestito fruscia come le ali di una falena notturna.
Sento il tuo corpo irrigidirsi, anche sotto al pesante mantello nero. Non ho neppure bisogno di toccarti per sentire il calore della tua rabbia che divampa come fiamma viva, lo percepisco come stessi alimentando io stessa l’incendio.
-Sei tornato. Pensavo fossi andato via, un’altra volta.- Nascondo a stento il ghigno soddisfatto che vorrebbe dipingersi sulle mie labbra rosse.
-Lo credevo anch’io.-
Sbatto le palpebre, fingendomi sorpresa per un istante.
-Avevo ribadito che ne avevo avuto abbastanza. Quante volte, Rodolphus?-
Ora stai sorridendo, ti avvicini, mi cingi la vita con forza, mi attiri a te.
-Oh, non lo so, Bella. Forse mille.-
Mi sfiori il viso con una carezza. I tuoi occhi neri scavano alla ricerca di un segno, anche il più piccolo, il più insignificante. Un segno che ti indichi il passare del tempo. Che te ne dia la certezza. Perché ti sta scivolando addosso, ti sta sfuggendo dalle mani.
Non lo trovi, il tuo segno. Mi divincolo e bruscamente mi libero dalla tua stretta.
 
Tu non reagisci, focalizzi invece la tua attenzione sulle note musicali, sull’eco, sugli oggetti ammassati negli angoli.
Porti le mani dietro la schiena e con circospezione ti sposti, passi la mano su di un tavolo polveroso, lasciandovi impressi i segni delle dita, esigue tracce di un’effimera esistenza.
-Che cosa hai fatto, alla casa, Bellatrix?-
Io rido, portando la testa indietro e lasciando che la cascata dei miei boccoli neri danzi nel buio.
-Ti riferisci forse a questa nenia? Fa parte del gioco.-
Non ti volti, non sembri neppure ascoltarmi. Fissi i mobili, le pareti spoglie, con sguardo febbrile, famelico.
-Credo che manchi qualcosa, in questa stanza, Bella. Non sembra anche a te? Nessuna cosa è al posto giusto, Bellatrix.-
Io inarco un sopracciglio. Mi avvicino, con fare innocente.
-Ma è per i giochi, Rod.-  Ti sussurro poi, piano, all’orecchio.
Ti sento rabbrividire, scansarti velocemente da me.
-Dove sono?- Chiedi.
Rido un’altra volta. Mi diverto a puntare il fascio di luce verso punti imprecisati, tracciando scie immaginarie.
-Oh, si nascondono. Avrei anche beccato il primo, se tu non fossi arrivato a disturbarmi.-
Ora sei tu a ridere. La tua risata fredda, distaccata.
-Chi ti assicura che vincerai stavolta, Bellatrix?-
Faccio schioccare la lingua, mentre tu lentamente ti volti a guardarmi e mi afferri i gomiti, portandoti vicino al mio orecchio.
Poi mi passi il pollice sulla bocca, lentamente, come a volervi imprimere a fondo un segreto muto, inconfessabile.
-Non c’è più una cosa al posto giusto. Nessuna cosa è giusta. Hai perso qualcosa, Bellatrix.-
-E tu? Tu sei sicuro di non aver perso nulla, Rodolphus?-
Mi lasci andare, bruscamente. Cammini all’indietro, scrutandomi.
-Vincerò io Rod, Io vinco sempre.-
I tuoi baratri neri si riducono a due fessure, ma solo per un attimo. Hai perso da tempo la speranza che io possa caderci dentro, come invece è successo a te.
-Può darsi, Bella. Ma stavolta non giochi da sola, non detti tu le regole. - 
Il primo gemito strozzato lacera l’aria. Le note sembrano cessare per un attimo. Entrambi continuiamo a fissarci, immobili,quasi spettatori di noi stessi.
Chini di nuovo la testa.
-Bellatrix.-
-Rodolphus.-
-Che vinca il migliore.- Aggiungo dopo un istante, con velata ironia.
-Non dare troppo per scontato che io abbia abbandonato ogni mia smania di conquista, Bella.-
Una porta sbatte in lontananza. Entrambi alziamo gli occhi al soffitto.
-Li stanno cercando tutti.- È un sussurro roco, la tua mano sinistra  è stretta a pugno, la bacchetta nella destra sembra stia per spezzarsi.
-Dovresti andare, se non vuoi davvero perdere e ritrovarti smarrito per sempre.-
Ora stai sorridendo. Neppure ne colgo il possibile motivo. Ma non ti avvicini a me, non di nuovo. Fissi per l’ultima volta il muro alle mie spalle, e per l’esasperazione mi volto anch’io, senza capire cosa tu in realtà stia guardando.
-Dovresti concentrarti su quello che manca, se vuoi davvero vincere, Bella.-
Un brivido freddo corre lungo la mia schiena, s’irradia in me come una scossa elettrica. Mi volto di nuovo a guardarti, e noto con irritazione che stai ancora sorridendo placidamente, nella penombra, come in attesa di un mio cedimento, di una mia ammissione di consapevolezza.
-Non manca niente, Rodolphus.-
Sbatti le palpebre. Reclini appena la testa da un lato, congiungi le mani coperte dagli spessi guanti neri in pelle, e riposi lo sguardo su di me.
-È un’altra bugia questa, Bella. Per quanto tu possa continuare a fingere, io so.-
Mi irrigidisco. Continui a fissare le pareti, sembri aspettare che crollino. Sogghigni.
-Andiamo, Rodolphus. Devo finire il gioco, bisogna pur passare il tempo.-
Non aggiungi altro. Il sorriso sornione sparisce dal tuo volto. Indietreggi fino allo stipite. Fai una giravolta su te stesso. Ed esci. Altrettanto silenziosamente come sei arrivato. Non ti vedo più.
 
Sbuffo. Mi ravvio i capelli, ripunto la mia bacchetta contro le pareti che stavi guardando. Ci vuole un bel talento, Rod. Questo non hai mai potuto capirlo appieno, ed è questa la ragione della tua debolezza. Perché tu sei debole, Rodolphus. Nascondi troppe ferite, troppe crepe sotto la tua scintillante armatura. E lo so, perché sono io la ragione di ogni tuo cedimento.
Quanto godo nel nutrire questa certezza, non oserei confessartelo mai.
Questa parete è fredda, Rod. Anch’essa piena di crepe e fredda, proprio come il guscio che racchiude la tua anima spenta. Proprio come questi singulti che riecheggiano ancora, incessantemente, nel buio.
Ed io rido, Rodolphus.
Rido a queste grida, a queste mute suppliche.
Alle tue mute suppliche.
Riprendo il mio gioco, riprendo a scivolare e a danzare con queste ombre, fra queste ombre.
E tu non tornerai indietro a cercarmi.
Mi hai persa da molto tempo, Rodolphus.
E proprio come un bambino, uno stupido, insulso marmocchio, hai continuato a cercarmi.
Ti avevo avvisato. Ti avevo avvertito delle innumerevoli insidie che ti attendevano, se avresti scelto di giocare con me, contro di me.
E questi marmocchi cui do la caccia, sono proprio come te. Sono sciocchi, impauriti.
Non hanno via di scampo.
E ora non l’hai nemmeno tu.
 
Eppure c’è qualcosa, qualcosa che non torna.
In silenzio aspetto, girovago per le stanze.
Conto ogni porta, ogni gradino che scendo e risalgo.
Eppure, improvvisamente, mi sembra tutto sbagliato.
Mi fermo, ansante.
Riguardo le mie mani.
Sono sporche.
Sporche di sangue.
Rialzo la testa. Un sussulto, e nulla più.
Ecco cosa mancava alla parete della nostra camera da letto.
Lo specchio.
Tocco il mio viso, i miei capelli. Con il respiro affannato, fisso il mio viso imbrattato in innumerevoli specchi. Perché sono tutti qui. Ricoprono l’intera stanza.
Li hai messi tutti qui, tutti insieme. Li hai posati perfino sul pavimento.
E al centro vi hai messo una culla.
Una culla bianca, che ancora dondola.
Dondola in maniera indecente, scricchiola, è talmente orribile che voglio solo scaraventarla fuori dalla finestra, farla a pezzi, bruciarla.
E mi ci getto, con la bacchetta sguainata.
E quella nenia ricomincia.
E ricominciano i pianti.
E poi la vedo.
E lì, riflessa negli specchi, con due occhi di ghiaccio, taglienti proprio come schegge di vetro.
Mi fissa, mi scruta, non muove un muscolo.
Mentre io resto aggrappata alla culla, alle sbarre di legno dipinte di bianco, ora macchiato indelebilmente di rosso.
E tremo, sul pavimento che riflette questo buio, questi occhi, quel suo sguardo.
Perché è identica a te, Rod.
È piccola, scalza, con una camicia da notte strappata e il viso rigato di lacrime.
Ed è davvero identica a te.
 
-Mi sono persa.- Balbetta.
Balbetta, e piange. Illuminata solo dal mio debole fascio di luce, cullata solo dal rimbombo cupo dei tuoni, piange. Torce le mani diafane, singhiozza e trema.
E ci vuole davvero poco, per alzare la bacchetta e finirla, Rodolphus.
Ci vuole talmente poco, che al solo pensiero sto già meglio.
Lentamente, mi riscuoto dal mio torpore. Sguscio carponi verso di lei.
-Dove sono gli altri?- Le sorrido, sussurro.
La scruto, indago.
-Dove sono gli altri bambini?-
Scuote la testa, indietreggia, trova la porta già chiusa.
-Non ci sono.- Ha il coraggio di sussurrare. -Non ci sono. Sono già morti.-
E’ un’eco indistinta, uno sfocato barlume di consapevolezza che mi trapassa le viscere.
-Sono già morti, e se ci fai caso, sei morta anche tu.-
E poi alza quel braccio gracile, lo punta alle mie spalle, e so che hai vinto tu.
Il mio urlo muto infrange il segreto inconfessabile.
Perché tu mi amavi, e io lo sapevo.
E sapevo di ogni mio ritratto. Questi ritratti che hai nascosto dietro ad ogni specchio di questa stramaledetta casa.
Io ci vedevo solo uno specchio, tu un mio ritratto.
Un incantesimo tanto banale quanto assurdo.
Non volevi vedere il tuo viso.
Non volevi vedere neppure il mio, di viso.
Tu ritraevi i fantasmi, un mio sorriso che non esiste.
E adesso mi guardano, mi guardano e ghignano, beffardi.
Ed io urlo. Guardo me stessa, e tutti questi pallidi volti di questi bambini, che muti mi accerchiano.
Soffoco, in un ringhio di rabbia, rabbia scarlatta.
Perché tu mi hai amata, davvero.
E ce l’hai fatta, hai vinto tu.
Mentre ti inginocchi, mentre mi sollevi da terra.
Mentre mi stringi al petto, e in mezzo alle urla, mi carezzi dolcemente la testa.
E continui a cantare la tua solita nenia infantile.
Tu, lei, e questi maledetti bambini morti.
E questo, questo è l’inferno.
Il tuo amore, Rodolphus.
È questo il mio Inferno.
 
"Mon amour, mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour,
De l’aube claire jusq’à la fin du jour,
Je t’aime encore tu sais,
Je t'aime."

 
 


Note: Considerate questa one shot come un momento di pura follia. In realtà, non so neppure io come interpretarla. Nel caso non sia apparso chiaro (sono io che non sono chiara), nulla di quanto si legge è realtà. Non è un incubo di Bellatrix, è più che altro il suo passaggio tra la vita e la morte. Al momento della sua morte, in Sala Grande, Bellatrix piomba in questa specie di limbo. Rodolphus che la sorregge, in realtà, sta sorreggendo il suo corpo, ormai esanime, alla fine della battaglia conclusiva ad Hogwarts.
La canzone da cui ho preso il titolo, i versi finali e qualche battuta inserita qua e là nel testo, è cantata da Franco Battiato. Ogni volta, ascoltandola, l'ho sempre associata alla figura di Rodolphus, alla mia caratterizzazione di questo personaggio. Volevo scrivere su queste note da una vita, e in effetti avrei potuto combinare di meglio, ma perdonatemi, questo è quel che è venuto fuori. E perdonami anche tu, sì, tu ;), perché ti avevo promesso di scriverci su più di un anno fa, e come al solito impiego tempi biblici. Scusa se fa schifo ;) ma il pensiero a te c'è sempre :)
 
  
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