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Autore: OliverFlame    17/02/2014    0 recensioni
"Se, mettiamo il caso, riuscirete a superare l’esame e entraste a far parte dei Purificatori, vi renderete conto che tutto ciò che chiamavate “assurdo” qui dentro sarà vero. E soprattutto sarà reale. Entrare nei Purificatori vuol dire voler sacrificare la propria vita per la vita eterna dei nostri cari. Superare quell’esame vuol dire essere consapevoli che ce ne saranno di nuovi che metteranno a dura la prova la vostra resistenza mentale. Quell’arto che qui perderete, lì sarà la vostra vita, una vita che potrebbe essere eterna come il sole."
(Il titolo è mooolto provvisorio.)
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1
 
 
 
 
Mi svegliai di prima mattina, quando il sole –o quel po’ che se ne scorgeva- aveva appena fatto la sua comparsa sul filo dell’orizzonte. La finestra della mia camera da letto stava sbattendo violentemente a causa del vento, dovevo averla lasciata aperta la sera prima. Mi ci volle molto per alzarmi definitivamente, nonostante i miei occhi si stessero già abituando alla fioca luce del giorno, ero ancora del tutto indolenzito, i muscoli bruciavano, non riuscivo quasi a tenderli, ma per fortuna era un dolore lieve. Una volta in piedi, andai a chiudere saldamente la finestra, ma prima di farlo sbirciai fuori, in strada, incuriosito dai rumori dei motori che contrastavano il cinguettio di qualche passerotto. Numerosi uomini si stavano adoperando per muovere oggetti che, dal quel che sembrava, erano molto pesanti. Un furgone, poco più lontano da loro, scaricava altre casse sull’asfalto. Era una mattinata grigia, le nuvole coprivano già il poco sole presente, però non avrebbe piovuto, ne ero certo.
Iniziai a tremare dal freddo, così chiusi la finestra, ma continuai a fissare gli operai da dietro le tende bianche – delle tende ospedaliere – fin quando non mi accorsi che uno di loro mi stava guardando. Mollai la presa sulle tende e mi allontanai dalla finestra, non che stessi facendo qualcosa di illegale, ma sarebbe stato meglio se non mi avessero visto. Aggiustai il letto, in modo che il controllore non avesse nulla da ridire su di esso. Sì, perché nel “college” in cui mi trovavo la pulizia e l’ordine erano uno strumento di valutazione. Buttai qualche carta sparsa sul pavimento nella pattumiera accanto alla porta che dava sul lungo corridoio del dormitorio maschile. Era troppo presto, nessuno doveva essere sveglio. E invece quel giorno il ragazzo accanto alla mia camera era sveglio, potevo sentire i suoi passi nel silenzio. E così dovevano esserlo altre dieci o dodici persone. Quello di certo non era il giorno adatto per oziare. Andai in bagno, mi lavai le mani e il viso con l’acqua del rubinetto, ne usciva poca, ma bastava. Le dita mi facevano male, probabilmente a causa del troppo allenamento con la spada. Avevo calli ovunque, il più grosso (nonché il più doloroso) si trovava sul palmo della mano destra. Alzai la testa e mi guardai allo specchio: avevo i capelli (castani) completamente in disordine, unti e secchi. Ma quello non ci si poteva porre rimedio, lo erano sempre. E delle occhiaie da far paura, quella notte non avevo quasi praticamente dormito. Avevo diciassette anni ma ne dimostravo molti di più. Un po’ di barba stava ricrescendo, mi piaceva averla, ma non ci era permesso tenerla, se non per un periodo breve di tempo.
Mi feci una doccia veloce, sotto l’acqua fredda (che io ricordassi non era mai stata calda) e, una volta finito, aprii il cassettone accanto al lavabo. All’interno c’era la mia tuta da allenamento nera con dei guanti grigi, aderente, che usavo tutti i giorni. Sotto di essa c’è n’era un’altra. Questa era bianca, con dei guanti neri e anch’essa aderente. Sarebbe stata la tuta che avrei dovuto indossare quel giorno. La presi e la poggiai sul letto. Sulla spallina aveva uno stemma: su uno sfondo nero, delle mani proteggevano un piccolo spazio di luce, cui raggi sembravano cacciare il nero sullo sfondo, in basso una scritta ricamata bianca: “PURIFICATORE”. Quello sarebbe stato il nome che avrebbe descritto la mia persona, dopo quel giorno, sempre se fossi riuscito a superare l’esame. Stavo per ottenere il diploma.
Ordinai la mia scrivania in legno, posta sotto la finestra. Numerose carte erano volate via a causa del forte vento, le raccolsi con calma, e le misi nel primo cassetto che trovai libero. A quel punto mi guardai intorno: tutto era in ordine, potevo riposare un altro po’ fino all’arrivo del controllore. Mi sedetti sulla sedia accanto alla scrivania, non avevo nulla da fare, nulla a cui pensare, se non all’esame che avrei dovuto sostenere da lì a qualche ora dopo. L’anno scorso avevo chiesto numerose informazioni su di esso, alle persone che l’avevano sostenuto e stavano per andarsene. Tutti avevano risposto con aggettivi non troppo felici come: nauseanti, sadici. Al pensarci una parte di me era spaventata da queste parole, l’altra non vedeva l’ora di vedere di cosa si trattasse.
Guardai l’orologio: erano le sei. Il controllore aveva iniziato il suo turno da mezz’ora e doveva essere lì a momenti. E, infatti, qualche minuto dopo, la porta si aprì e una donna con i capelli raccolti in una coda lineare entrò in camera. Aveva la classica divisa da controllore: grigia, con delle linee rosse sulle spalle e sugli arti. Mi alzai dalla sedia e le sorrisi, quasi cercando di addolcirla. I controllori erano molto severi e dovevano esserlo, non potevano trascurare il minimo dettaglio.
– Lei è? – chiese con un filo di voce.
– Matthew Howard. – Sentito il nome, la donna azionò il piccolo computer touch screen che aveva tra le mani e poi con il dito cominciò a cercarlo in una lista di ragazzi appartenenti al quinto anno. Ci volle qualche minuto, alla fine la donna trovò il mio nome.
– Eccolo qui. Bene, vediamo la camera.
Iniziò a guardarsi intorno, appuntandosi qualcosa sul computer. Stava cercando il minimo errore per abbassarmi il punteggio. O almeno, molti controllori erano così meschini da farlo.
– Le dispiacerebbe se guardassi sotto il letto?
– Oh, ehm…no, certo. Guardi pure. – La donna si abbassò e iniziò a controllare il sotto del letto. Allungò il braccio e raccolse da terra due fazzoletti di carta e una lattina di birra. Senza dire una parola buttò i rifiuti nella pattumiera e poi annotò qualcosa sul computer.
– Bene, potrebbe aprirmi la porta del bagno, per favore?
Rimasi a guardarla: mi ero scordato di pulirlo. Come avevo potuto dimenticarmene? Ero nel panico e la mia espressione, che cercava di mascherarlo, non fece altro che farle salire sospetti.
– C-c-certo! – dissi per rimediare, misi la mano sulla maniglia e aprii la porta lentamente. Il controllore entrò e io dopo di lei. Il bagno era pulito. Completamente pulito. Era come se non mi fossi neanche lavato. E lì mi ricordai di aver pulito, in realtà. Doveva essere un riflesso così automatico, o era stata l’ansia ad avermelo fatto scordare, ma avevo pulito il bagno. Mi accorsi di aver un gran mal di testa, volevo mettermi a letto, dormire, sognare di tornare al mio secondo anno, quando non avevo ancora dimestichezza con le armi. Stava accadendo, ma nessuno doveva saperlo, nessuno.
–  Si sente bene? –  Il controllore era uscito dal bagno e mi stava fissando con occhi preoccupati. Ansimavo e stavo sudando, ma quando vidi i suoi occhi mi calmai, o meglio feci finta di star meglio.
– Sì, sì, sto benone. – Mi massaggiai il petto che aveva iniziato a bruciare. – Piuttosto, abbiamo finito?
Il controllore sembrò non credermi, ma era da troppo tempo nella mia stanza, doveva passare oltre se voleva finire in tempo.
– Sì, ottimo come sempre, se non fosse stato per le scartoffie sotto il letto. Può vedere il suo punteggio sul palmare in sala alunni. –  rispose mentre apriva la porta che dava sul corridoio. Appena uscita aprii la finestra e presi un’enorme boccata d’aria, dopo di che mi sedetti di nuovo sulla sedia accanto alla scrivania. Era da molto che non mi succedeva, avevo bisogno di stare fermo qualche minuto. Dormii, per non so quanto, e poi fui svegliato dalla sveglia che indicava la colazione. Indossai la divisa da purificatore: era perfetta. Comoda ed elastica, fatta su misura per me. E, anche se poteva sembrare sottile e facilmente distruttibile, era, da quello che mi dicevano, praticamente come essere coperti di metallo. Non avrei voluto togliermela per nulla al mondo. E quel giorno, se fossi riuscito a superare gli esami, avrei potuto tenerla e sarei diventato un purificatore, come mia madre e mio padre lo erano. Il dolore al petto era del tutto sparito e gli arti non erano più così indolenziti. Uscii dalla stanza, perché dovevo arrivare in sala alunni in orario. Il corridoio, che era anche abbastanza stretto, era intasato da numerosi ragazzi del quinto anno. Nel mio stesso piano, l’ultimo, si trovava il dormitorio dei ragazzi del quinto anno. Avevamo una stanza e un bagno personale e ogni ragazzo poteva accedere alla propria stanza da un lunghissimo corridoio. Mi aggiunsi alla massa di persone che si dirigevano verso la mensa. Mentre camminavo lentamente, poiché quella era la velocità della fila, la porta di fronte alla mia si aprì. Di lì ne uscì un ragazzo alto, poco più muscoloso di me, dai capelli castani chiaro, quasi biondi. Non appena mi vide mi salutò con un gran sorriso e si avvicinò lentamente. Il suo nome era Evan e non avevo mai chiesto il suo cognome. Era il mio compagno-mentre-la-fila-scorre, poiché anche lui si trovava nella mia stessa situazione. A dirla tutta non sapevo molto su di lui, tranne il suo nome e qualche altra sciocchezza di cui mi ero sinceramente dimenticato. Mi raggiunse e mi mise una mano sulla spalla.
– Da quanto tempo sei qui ad aspettare? – Chiese, sempre con il sorriso stampato in faccia.  
– Poco, sono appena uscito.
– Dici che ci vorrà ancora molto?
– I controllori dovrebbero arrivare a momenti per far mantenere l’ordine.
E proprio in  quel momento, mentre un ragazzo maldestro inciampava facendo cadere un serie di ragazzi ad “effetto domino”, i controllori arrivarono e iniziarono ad allineare i ragazzi secondo una fila ordinata. Aiutarono ad alzare tutti i malcapitati e li allinearono con forza nella fila, nessuno si opponeva, non avevano il diritto di farlo e, si notava, erano tutti spaventati da loro. In pochi secondi tutti erano uniti a formare una fila perfetta, erano rari i casi in cui i controllori dovessero intervenire, tranne nelle prime classi dove non si era abituati a farle. Ma era il giorno degli esami, tutti erano sottopressione.
La fila iniziò a muoversi più velocemente.
– Nervoso per l’esame? – Chiese tutt’a un tratto Evan.
Continuai a guardare dritto davanti a me. – Un po’. – Risposi con indifferenza.
E quella era la solita conversazione fra di noi. Qualche domanda, nulla di più. Poiché era norma che, durante le assemblee, le lezioni e la formazione delle file, nessuno dovesse parlare. Anche se questo non accadeva più, era arrivata la fine dell’anno e la fermezza morale quotidiana si era pian piano affievolita. I controllori sembravano non essere più intransigenti come una volta.
Finalmente, dopo quasi dieci minuti d’attesa, la via per la mensa era sgombra, e io e Evan ci avviamo muti verso la grande sala, piena di ragazzi, come delle api in un alveare. Proprio come noi, nessuno era intento nell’arte del chiacchierare. Avevano tutti la testa china sulla sbobba bianca, quasi solida, che alla mensa spacciavano per latte proteico. Ci aggiungevano un sacco di ingredienti strani, me lo aveva detto mia madre. Pensandoci, era da tanto che non la vedevo. Dal Natale scorso, precisamente, quando era venuta a farmi visita. Adesso era passato un mese e non era più venuta, neanche durante le ore di ricevimento. Ma mi aveva avvertito, che sarebbe dovuta partire per qualcosa di importante, che in quel momento non riuscivo a ricordare. Nel silenzio più totale, smorzato dai nostri passi sul pavimento laccato e perfettamente pulito e lucido, ci incamminammo verso un bancone, che aveva attaccato alla tovaglia di fiandra un cartoncino con un enorme numero cinque stampato sopra. Ogni classe aveva il proprio latte proteico, con diversi elementi aggiuntivi a comporlo. In tutti gli anni che avevo passato in quell’accademia, però, il latte aveva sempre lo stesso orrido sapore. Prendemmo un piatto rettangolare dal colore grigio metallizzato e poi un bicchiere di vetro vuoto e ci versammo, da una delle numerose brocche presenti sul tavolo, il latte. Il liquido scorreva con una certa resistenza fuori dalla brocca; quel giorno era particolarmente stantio. E aveva anche uno sgradevole odore. E non ero l’unico a pensarlo, anche Evan stava guardando il bicchiere cercando di trattenere, non riuscendoci, una faccia al quanto disgustata. Sul bicchiere era segnata con una linea rossa la quantità minima di latte che dovessimo bere. Non ero certo che potessero controllare con esattezza quanto ne avessimo versato, ma era meglio non rischiare. Soprattutto nel giorno degli esami. Feci attenzione a metterne la quantità giusta, nulla di più, forse poco di meno. Poi presi un tozzo di pane da un vassoio logoro e leggermente arrugginito. Ne erano rimasti esattamente due, uno per me e uno per Evan. Stessa cosa per le mele, esattamente due. Ne presi una, la più rossa, e la poggiai insieme al pane sul mio piatto. I servizi della scuola non erano molto efficienti, cibo scadente e il più delle volte crudo. Non c’era libertà personale, solo il continuo susseguirsi di un programma giornaliero che andava rispettato con fermezza. Camere separate, sì, ma claustrofobiche. Però tutto era pulito e splendente, quasi come se non accogliesse centinaia di ragazzi e ragazze. La pulizia era rigorosa, così come l’ordine che l’istituto doveva mantenere “ogni ora del giorno e della notte”. La preparazione del personale dell’accademia era eccellente: allenamenti intensivi e diretti a rafforzare resistenza, forza, abilità con le armi ed intelletto; i controllori intervenivano con rigorosità e veemenza quando necessario; correggevano atteggiamenti poco adatti al luogo. Era l’unica accademia in cui si potesse prendere il titolo di Purificatore ed era completamente qualificata, formava ragazzi forti e pronti a prestare servizio impeccabilmente.  
Mi allontanai dal tavolo senza aspettare Evan, ancora occupato a versare il latte al millimetro. Trovai un posto libero tra una ragazza non troppo in forma e un ragazzo che non avevo mai visto prima. Dovevano essere qualche anno più piccoli di me. Mi sedetti sulla scomoda panchina in legno e la ragazza mi lanciò un’occhiataccia, come se fossi lì per insultarla, per poi girare subito la testa, mentre il ragazzo non sembrò neanche accorgersi della mia presenza. Iniziai a bere il latte un sorso per volta aiutandomi a mandarlo giù con un po’ di pane. Quel giorno aveva un sapore ancora più strano, nel senso che era ancora più imbevibile. Lo finii a fatica e subito dopo mangiai la mela, che forse era l’unica cosa presente che fosse fresca, per togliermi dal palato quel sapore orribile. Molti ragazzi non avevano ancora toccato il latte, lo guardavano con occhi pietosi, come ad implorarlo di smaterializzarsi. La ragazza accanto a me sembrò, invece, molto scontenta del piatto misero che ogni giorno le veniva servito. Mi chiedevo come avesse fatto a prendere peso in un posto del genere. Forse aveva una qualche specie di malattia. In effetti, non mi importava neanche. Stavo solo cercando un modo come un altro per non pensare che, da lì a poco, avrei dovuto sostenere l’esame più importante della mia vita.
 I controllori entrarono della porta principale per costringere gli ultimi rimasti a bere il latte, sembravano delle mamme con i loro bebè. Odiavo il fatto che non ci facessero prendere del caffè, al posto del latte. Faceva sembrare tutti più infantili. E mentre, nel silenzio più totale, i controllori finivano il giro delle tavolate con occhi vigili, il suono di una campana rimbombò nella stanza. Tre rintocchi. Era l’ora, per noi di quinto, di sostenere l’esame. Dovevamo recarci in sala alunni. Non avevo realizzato quanto quel momento potesse essere vicino. Mi alzai dalla sedia e per poco non feci cadere la ragazza accanto a me, ero teso, troppo. Non potevo farmi prendere dal panico, non in quel momento. Altre decine di ragazzi si alzarono dal tavolo ammutoliti e spaventati quanto me. E, come se fosse una processione, ci avviamo in fila verso la sala alunni, attraversando il lungo corridoio abbellito da meravigliose colonne corinzie, l’unica parte ristrutturata della sede. Il corridoio era completamente gelato, raccolsi le spalle tra le braccia per riuscire a riscaldarmi. Eravamo in inverno inoltrato, in effetti quello era il primo giorno dopo settimane in cui non nevicasse, anzi fuori il sole stava sciogliendo la neve posatasi la sera prima.
Dalle grandi finestre, che si ripetevano dopo ogni arcata, si poteva scorgere un ampio cortile spoglio e qualche ciuffetto d’erba che veniva strattonato dalla potenza del vento. Gli alberi tutt’intorno, che in estate erano usati come luogo ombrato, ormai secchi e nudi, sembravano però rinvigoriti dalla luce, anche se lieve, del sole. Luce che illuminava gli affreschi disegnati direttamente sul marmo: scene di guerra, figure rappresentanti Lux, dea della luce e della conoscenza. Uno di questi, che aveva sempre catturato la mia attenzione particolarmente, raffigurava Lux mentre fuggiva, i capelli dorati scompigliati dal vento; la toga bianca che sempre portava, distrutta, ridotta a dei miseri cenci; completamente ricoperta di ferite e graffi. Tra le mani stringeva una piccola e debole fiammella, la cui luce illuminava a malapena il bellissimo viso della donna. Dietro di lei un’orda di mani nere, pronte ad afferrare anche il più piccolo granello di luce, avanzava imperterrita. Nulla mi aveva mai colpito come quell’opera, chi l’aveva realizzata (avevo cercato il suo nome, ma non avevo mai trovato risultati) era stato davvero bravo a utilizzare il chiaro-scuro. Molte persone, infatti, erano interessate all’accademia solo per la quantità di opere presente in essa. Era stata riconosciuta dal ministero come patrimonio artistico, ospitava anche un museo sotterraneo. Però durante quel giorno, il giorno degli esami, le entrate erano chiuse.
 Finalmente entrammo in sala alunni. La stanza era cupa, nessuna finestra, l’unica luce disponibile proveniva dal corridoio da cui eravamo appena entrati. L’ambiente seguiva lo stesso stile decorativo del corridoio, solo che l’intonaco era completamente bianco, per dare un effetto luce assente. Il soffitto era costellato da piccole lampadine a muro, che tutte le notti si accedevano come a ricordare un celo stellato. Da quando ne avevo memoria mai nessuna si era fulminata.
Alle due estremità della camera c’era una lunga fila di tavolini che facevano d’appoggio ad un grande schermo da cui era possibile controllare il proprio rendimento scolastico. Erano come dei grandi registri personali. Mi misi in fila dietro un ragazzo alto, molto più di me, con i capelli rasati a scoprire il cuoio capelluto. Il ragazzo fece velocemente, mise la password attento che nessuno lo stesse guardando, e controllò con una velocità repentina una schermata apparentemente bianca, per poi chiudere tutto con disinvoltura e andarsene a testa bassa e schiena ricurva, cosa che lo abbassava alla mia altezza.
Subito dopo che il ragazzo si dileguò, presi il controllo del computer. Non appena toccato lo schermo l’apparecchio si accese mostrando una schermata bianca con linee verde acqua che evidenziavano le voci della pagina. Cliccai sulla voce “Codice Alunno” e ne inserii il mio (14bH7Cc) attento a rispettare le maiuscole e le minuscole. Passai alla voce “Password” e digitai, toccando delicatamente lo schermo all’apparenza fragile, “Howard7” che odiavo come password per la sua ovvietà, ma non trovavo mai la voglia per cambiarla. Pigiai con il medio su invio, forse con troppa forza, e subito apparì una schermata di caricamento. Guardavo con occhi persi il continuo moto circolare del caricamento, fin quando la pagina non si aprì mostrando una tabella con le diverse discipline di cui era possibile guardare le informazioni. Sopra, sul bordo sinistro il mio nome in maiuscolo. Cercai velocemente l’icona “Ordine e pulizia” tra i vari quadrati azzurri che contavano quindici materie e ci cliccai sopra. Si aprì una finestra che conteneva un calendario, dall’inizio del mese ad quel giorno, il 27 Gennaio. E proprio la data odierna era contrassegnata da un elegante punto esclamativo rosso accesso, mirato a catturare l’attenzione. Toccai il punto interrogativo e si aprì una nuova finestra in caricamento, mentre il piccolo computer perdeva qualche bit, a causa dei numerosi ragazzi che stavano utilizzando lo stesso mio apparecchio. Dopo qualche secondo d’attesa e qualche sbuffata dei ragazzi dietro di me (ci stavo mettendo effettivamente troppo), la schermata prese forma e una sola scritta nera, su sfondo bianco, diceva:
 
VALUTAZIONE CONTROLLO GIORNALIERO
 
8/10
 
Presa visione della valutazione -non troppo felice del risultato dato i miei standard-, chiusi il tutto accertandomi di uscire dal mio account.
E nel girarmi, una ragazza dalla bellezza diafana, gli occhi cerulei addolciti da una lucidità naturale, i capelli mossi e dorati raccolti in una coda, tranne per una ciocca che le accarezzava il viso, mi sorrise in penombra mostrando i denti brillanti come piccole perle tra le esili labbra.  
Era mia sorella. Era una delle poche ragazze che era riuscita a preservare la sua bellezza durante il tempo trascorso all’accademia. Anche se quel giorno sembrava distrutta, più pallida del solito, sembrava quasi non riuscisse a tenersi in piedi. Si chiamava Faith. Era diventata il simbolo dell’accademia, faceva la modella presso la più prestigiosa agenzia stilistica di Londra, la Jason. Era lei ad apparire su qualsiasi slogan riguardante l’accademia e non, era per questo che la scuola le faceva continuare, di norma nessuno poteva coltivare attività extrascolastiche. Uno dei suoi scatti più famosi era quello apparso sui cartelloni pubblicitari debiti all’iscrizione all’accademia. La fotografia la ritraeva sulla cima di una collina fatta in un’eccellente computer grafica, mentre dietro di lei tuoni e lampi tempestavano il paesaggio isolato e scuro. Aveva una tuta aderente, la tuta che dovevamo indossare ogni giorno, che non le copriva i fianchi. I capelli per la prima volta dopo anni sciolti, arruffati dal forte vento. Un’espressione accigliata, che scrutava chiunque si soffermasse a guardare. Impugnava una spada dall’elsa dorata impreziosita da qualche cristallo grezzo, il pomolo sembrava un diamante. La scanalatura era profonda e decorata con incantevoli disegni geometrici. La lama perfettamente affilata. E dalla punta uno scorcio di luce, pronto a rendere rigoglioso tutto ciò che la tempesta stava distruggendo. Sopra la foto il nome della nostra accademia: “Raylon Accademy”. Ricordavo ogni singolo dettaglio di quella fotografia, era piaciuta particolarmente anche a me. Anche se rappresentava qualcosa di non vero: le ragazze non avrebbero potuto mai portare i capelli sciolti e mai avrebbero potuto indossare una tuta del genere.
Risposi al suo sorriso con qualche attimo di esitazione. Un sorriso sincero che riservavo solo a lei.
Un controllore, vedendomi far niente, mi fece segno di andarmi a sedere e aspettare insieme ad un altro gruppo di ragazzi. Eseguii l’ordine e poco dopo mi ritrovai seduto vicino ad un esile uomo con gli occhiali, intimidito dalla mia presenza. E qualche secondo dopo Faith mi raggiunse e si sedette accanto a me. Non potevamo parlare, forse, ma non valeva la pena rischiare anche se avrei tanto voluto farlo. Farmi cullare dalla sua voce calda e melliflua. Se fossimo riusciti a superare l’esame, le avrei parlato tutti i giorni.
Osservai le file dietro i pc smembrarsi e poco per volta tutti i ragazzi si sedettero sulle sedie in metallo. Vidi Evan salutarmi appena mentre prendeva posto nella seconda fila. E quando anche l’ultimo ragazzo, leggermente sovrappeso, si sedette sull’ultima sedia disponibile, due uomini, uno slanciato e robusto con capelli bianchi e l’altro simile al primo solo qualche anno più giovane, entrarono in sala alunni. Riconobbi subito il secondo: era il preside dell’accademia; il primo non l’avevo mai visto. Il preside si andò a sedere lanciandoci un’occhiataccia. Mentre l’uomo con passo deciso e austero in volto l’uomo rimase in piedi davanti a noi. Ci scrutò uno per uno e dopo qualche minuto di silenzio iniziò a parlare.
  – Buongiorno a tutti – la sua voce riempiva l’intera stanza. – Oggi, voi massa di cerebrolesi, sarete sottoposti a una valutazione completa e finale del vostro rendimento. Io sono Abner Kam e sono il giudice esterno che assisterà al vostro esame. – L’offesa e la durezza con cui si era presentato sembrò colpire i nervi di qualche povero studente, che iniziò a piangere in preda alla disperazione.
L’uomo sembrò ascoltare i singulti come se fossero il suono di un piacevole violino.
– Ora, so che molti di voi crederà che tutto ciò sia una passeggiata – Ero certo neanche uno lo stesse pensando in quel momento. – allora vorrei dirvi che all’interno della zona dove sosterrete l’esame potreste anche perdere un arto, ma non vi sarà dato soccorso fino a quando non ci si arrenderà, e questo porterà alla bocciatura e alla completa espulsione dall’accademia, o non si perderà i sensi, e questo vi darà il tempo di un anno per riprovarci. E per vostra fortuna all’interno dell’arena non si potrà morire. – Lo pronunciò come se fosse qualcosa di incredibilmente gravoso.
– Detto questo, passiamo alle regole. – Si portò le mani dietro la schiena, il che gli diede un’aria ancora più imponente. E poi come un sonetto a memoria, recitò:
– Non appena entrati nella stanza dovrete fare un breve percorso di corsa, in cui incontrerete relativamente pochi ostacoli. Subito dopo arriverete in un gran spiazzale e lì troverete le armi che potrete usare. Ne potrete scegliere solo tre tra le tante, non siete vincolati nella loro scelta. Adesso, ci sono due esami differenti, uno da quella porta – indicò una porta coperta da un velo bianco che fino ad allora non avevo notato. – E l’altro da quell’altra – e indicò la porta dall’altra parte della stanza.
– Non preoccupatevi, le difficoltà saranno le stesse e entrambi hanno come unico obiettivo quello di accendere le tre lanterne sparse per il percorso. Dovrete darci modo di comprendere la vostra forza, il vostro intelletto e le vostre abilità. Una volta accese tutte e tre una porta si illuminerà e potrete uscire dall’arena vincitori. Tutto chiaro, carne da macello?
Qualche debole sì si alzò dalle sedie, mentre altri, come me, rimasero in silenzio.
– Meglio, perché tanto non l’avrei rispiegato. – e aprì la bocca in un ghigno.
– Adesso, prima di annunciare chi potrà partecipare all’esame dal risultato delle prove scritta – una fitta al cuore che mi fece iniziare ad ansimare, mi ero dimenticato dell’esito delle prove scritte. Abner sembrò accorgersi di me. – vorrei fare un piccolo annuncio, come è di mio solito. Se, mettiamo il caso, riuscirete a superare l’esame e entraste a far parte dei Purificatori, vi renderete conto che tutto ciò che chiamavate “assurdo” qui dentro sarà vero. E soprattutto sarà reale. Entrare nei Purificatori vuol dire voler sacrificare la propria vita per la vita eterna dei nostri cari. Superare quell’esame vuol dire essere consapevoli che ce ne saranno di nuovi che metteranno a dura la prova la vostra resistenza mentale. Quell’arto che qui, forse, speriamo, perderete, lì sarà la vostra vita, una vita che potrebbe essere eterna come il sole. – Lo pronunciò in modo solenne, fiero di fare quel che faceva.
– Quindi vi chiedo, per un bene comune, a tutti coloro che non si sentissero pronti, di uscire dalla stanza e riprovare, magari l’anno prossimo. Perché non vogliamo dei soldati, se il preside me lo permette, senza palle. – Il preside nonostante fosse rimasto commosso dalle parole del giudice esterno, iniziò a ridere di gusto.
– Allora, nessuno? – Mi massaggiavo il petto ripetutamente, cercando di calmare il cuore che continuava a battere sempre più velocemente. Il mio sguardo guizzava da una persona all’altra cercando di vedere qualcuno andarsene. Ma nel farlo non mi chiedevo se io stesso volessi rimanere. Ero pronto? No, forse no. E poi mi resi conto che sarebbe stato stupido anche farsi una domanda del genere. Cosa avrebbe detto mio padre, uno dei più grandi eroi tra i Pacificatori, se uno due suoi due figli non ce l’avesse fatta a superare la pressione? Aveva già programmato tutto, dopo l’esame io e Faith saremmo entrati nella sua pattuglia e avremmo combattuto al suo fianco.
Faith mi prese la mano. Sentivo il suo calore, la sua morbida pelle toccare la mia. Stava affogando tra i dubbi come lo stavo facendo io e come tutti in quella stanza. Quella mano vellutata, per la prima volta, sembrava dire “ho paura”. Senza distogliere lo sguardo da Abner, gliela strinsi e il cuore iniziò a prendere un ritmo regolare.
Dalla tribuna due ragazzi, un ragazzo e una ragazza, si alzarono e se ne andarono. La ragazza in lacrime.
– Nessun altro? – chiese nuovamente il giudice e senza dare il tempo per rifletterci un altro po’ riprese. – Allora passo con il dire il nome dei ragazzi ammessi all’esame d’oggi.
Una donna, la segretaria del preside, avanzò muovendo i fianchi più di quanto era dovuto, verso di lui e gli porse un foglio piegato in quattro. Abner lo aprì con cura con le mani ingombranti e prese a leggere.
– Ammessi all’esame finale: Evan Abel, Karl Alec, Rebecca Brent, Dorian Elison, John Erle, Cassie Flitz, Frank Gawin, Faith Howard, Matthew Howard. – E nel silenzio più totale, mise il foglio a posto. Il mio nome c’era, persi un battito ogni sillaba di esso.
– Bene, chi non è stato chiamato si alzi e se ne vada immediatamente. – Disse poiché nessuno si era ancora alzato.
Una trentina di persone si alzarono, più felici che tristi, e si dispersero per il corridoio. Io e Faith rimanemmo seduti, mano nella mano.
– Voi siete gli unici che meritano di diventare Purificatori. Un elogio soprattutto a Faith Howard che è riuscita a prendere il massimo a tutte le prove scritte. – aggiunse compiaciuto che qualcuno ci fosse riuscito.
– Adesso, vi dirò un’ultima cosa. Una volta entrati nell’arena non potrete arrendervi se non dopo un’ora. Avete un tempo limite di un’ora e mezza, ma sono sicuro che l’esame possa durare anche solo mezz’ora. Minore sarà il tempo maggiore sarà il punteggio. Tutto chiaro? Spero di sì. – I suoi modi si erano addolciti, sembrava fosse sicuro che tra noi qualche neo Purificatore era presente.
Si avvicinò al presidente e in assoluta riservatezza posò la bocca al suo orecchio. Il preside ci lanciò un’occhiata gelida e poi annuì. Abner tornò davanti a noi.
In quei secondi non avevo ancora compreso che avevo la possibilità di lasciarmi tutto alle spalle. Se avessi superato l’esame non avrei più incontrato i compagni a cui mi ero lievemente affezionato, l’ansia che caratterizzava l’accademia, i controlli mattinieri d’ordine e pulizia e la calma pomeridiana… Sarei diventato un Purificatore. Avrei combattuto ciò che da sempre vince l’uomo: la morte. E forse lei sarebbe stata tanto brava da sopraffarmi, un giorno. E fu proprio mentre pensavo a ciò che lasciavo e ciò che ero in grado di prendere, Abner parlò.
– Abbiamo convenuto sia opportuno, per sfizio personale, far iniziare l’esame ai due figli di uno dei più importanti Purificatori di quest’epoca, nonché mio capo. Matthew e Faith Howard, siete i primi. 
  
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