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Autore: Feynman    17/02/2014    3 recensioni
Universo parallelo. Heaven City è la capitale di un mondo sull'orlo del baratro. I Fulmini, soli, si oppongono con forza a quel sistema sbagliato.
Andromeda Black è il capo. Andromeda Black è colei che ha dovuto scegliere tra l'amore e la famiglia, la ricchezza e la lotta, la libertà e la schiavitù del conformismo.
Andromeda Black è una donna che ha perso.
Andromeda Black è una donna che, alla fine di tutto, verrà comunque ricordata.
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Genere: Azione, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Ted Tonks | Coppie: Ted/Andromeda
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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      LEI      


Fissò il cielo. Nuvole temporalesche stavano avanzando da nord. Livide. Minacciose. Nere. Il sole, anche quel giorno, non sarebbe sorto. Erano in pochi a ricordarlo. Aveva fatto la sua ultima comparsa quasi cento anni fa. La sua generazione considerava l’enorme palla di gas una delle leggende più belle che i loro nonni avessero potuto mai raccontare. Voleva dire primavera. Voleva dire tepore. Voleva dire cielo azzurro e terso.
Lei era l’erede di una battaglia che aveva perso di significato.
Loro erano i figli di una generazione di poveri sognatori.
Gli altri erano il futuro, malato e sbagliato, di quel Paese sull’orlo del baratro.

«Cammina!»

 Una colonna di disperati che, con rassegnazione, marciava verso la fine ultima della vita: la Prigione. Nessuno usciva di lì se non come cenere o carne per sfamare i malati cani che infestavano la periferia. Nessuno poteva salvarsi. Lì dentro, gli Eletti, si giocavano ai dadi la morte dei carcerati.
Era in coda alla colonna. L’unica donna. Ebbe il tempo di lanciare un ultimo sguardo ai profili dei lontani grattacieli. Ripensò ai suoi genitori e a quanto dolore avesse provocato a sua madre. Ripensò alle sue sorelle e alla fine che, per colpa sua, avrebbero dovuto subire. Loro tre avevano il destino già scritto. Lei si era ribellata.
Uno di quei grattacieli, il più alto, era casa sua. Immaginò sua madre sorseggiare il the dalla raffinatissima tazzina di porcellana. Le parve di vedere suo padre, vestito di tutto punto, prendere un sigaro dalle dita veloci di un robot. Nella stanza accanto, forse, sua sorella si stava guardando mentre indossava l’abito da sposa. Era destinato a lei. Tutto sarebbe stato per lei se solo, quella notte, non fosse fuggita.

«Ho detto cammina!»

Aveva tirato troppo la corda. Il colpo del manganello arrivò fin troppo presto. Le orecchie le fischiarono. La vista, in pochi attimi, si appannò. Qualcosa di caldo e viscoso iniziò a scivolarle lungo il collo. Quella vecchia ferita si era aperta di nuovo. Non avrebbe mai smesso di sanguinare.

«Prometti che continuerai a combattere! Fallo per me»
«Come puoi chiedermi questo? »
«In nome dell’amore che ci lega»
«Non c’è più niente… »
«Fallo per lei, allora. Fallo in nome della sua memoria. Fallo per Dora… »

Raddrizzò la testa. Arcuò la schiena. Era il comandante di quell’esercito. Tutti quegli uomini si fidavano di lei. L’avevano seguita e ammirata per anni. Quegli uomini, per lei, avrebbero accolto la morte con il sorriso sulle labbra. Quegli uomini, per rivendicare un futuro, avevano perso tutto in quell’ultimo tentativo senza speranza.

Vide gli uomini cadere uno ad uno. Vide gli hovercraft scendere a terra. Scorse, fra gli alberi, quel cugino che aveva fatto scelte sbagliate in nome di una famiglia che non esisteva più: la sua. I Black erano finiti. Heaven City doveva cadere sotto i suoi attacchi. Lei sola, da quel momento in poi, avrebbe potuto governare.
Aveva ricacciato indietro le lacrime e, sciocca, aveva sferrato l’ultimo e suicida attacco. Avrebbe raggiunto la sua Dora. Avrebbe visto il sole sorgere in un altro mondo. Quello, alla fine, sarebbe stato il suo posto: lontano dal sibilo dei cannoni, estranea alla vista di quelle maledette armi laser.
Sarebbero stati solo lei, Ted e la sua Dora.

«Fermi!»

Erano arrivati. L’ultimo sorriso, sul volto, prima di morire. Le ultime, accennate, pacche sulle spalle. Si sarebbero rivisti in un luogo migliore, forse. Sperava, in cuor suo, che le concedessero un’ultima sigaretta prima di dire addio alla vita.
Alzò lo sguardo. Arrivò ad accarezzare il cielo. Davanti a lei si stagliava, prepotentemente, la sua tomba. La Prigione di Heaven City si ergeva su una collina arida e priva di vegetazione in salute. Pochi e rinsecchiti alberi facevano da sfondo a quella costruzione di vetro e cemento. Luogo costruito per quelli che, come loro, avevano provato a gettare a terra il castello di carte. Un carcere per eretici che, senza vergogna, avevano osato sputare sul mondo di bugie e su chi lo governava. Lei stessa aveva morso la mano che l’aveva nutrita.
Uno per uno, i suoi uomini, vennero immatricolati.
Uno per uno diedero il loro nome.
Uno per uno ricevettero il manganello in testa. Lo stesso colpo per tutti. Dritto sulla nuca.
Uno per uno si videro costretti a capitolare.
Ricordavano ancora, quegli uomini, il loro nome per intero. Senza cifre. Senza marchi. Senza etichette. Ognuno di loro, dentro la Prigione, tornava ad essere lo schiavo di Heaven City. I loro nomi, per anni, erano stati baluardi di ribellione. Vessilli da battaglia. I nomi che le madri avevano loro imposto rappresentavano i motivi della lotta. Erano fari di speranza che, in pochi attimi, videro venir distrutti.

«Codice»

Era giunto il suo turno. Lei, come gli altri, aveva un solo nome.

«Andromeda Black»

«Ho detto: codice!»

«Andromeda Black»

L’uomo alzò lo sguardo e si fissò sui suoi occhi. Era diversa dalle sue sorelle. Non possedeva gli occhi neri di Bellatrix, né i penetranti occhi azzurri di Narcissa. Era ordinaria. Confondibile. Per mesi, dopo la fuga, aveva giocato su quel particolare. Da difetto lo aveva tramutato in un pregio.
Il colpo arrivò ben presto. L’ultima occhiata della guardia era diretta al poliziotto che la scortava. L’ aveva già picchiata. Il terreno aveva già bevuto il suo sangue.

«Codice…»

«Andromeda Black. Figlia del Doge di Heaven City e…»

Venne colpita di nuovo. Sentì il ginocchio scricchiolare sotto il peso del corpo. Aveva esagerato di nuovo. era stato più forte di lei.

«Voglio il tuo codice, puttana!»

Deglutì, a forza, la saliva che s’era mischiata al sangue. Avrebbe voluto sputare. Avrebbe voluto sporcare quei bei stivali di cuoio nero che puzzavano di vernice fresca. Le aveva fatto male ricordare chi era stata. Heaven City poteva essere sua. Avrebbe potuto cambiare le cose ed invece era fuggita.

«A13»

«Nascita»

«Tredicesima luna del quarto mese»

Lei, sola, era speciale. Lei, la sorella di mezzo, sarebbe stata la futura Lady di Heaven City. Lei, sola, avrebbe governato dall’altro di quel grattacielo fatto di ferro e cristallo. Lei, sola, avrebbe potuto dettar legge. Non la spietata Bella, non la raffinata Cissy. Solo lei.
Doveva ringraziare le stelle che, per salutarla, si erano allineate. Doveva sorridere alla Luna che si era voluta inchinare verso la Terra e, solo per quel giorno, oscurarsi.
Quella notte non una nuvola aveva solcato il cielo. qualche lontana stella aveva acceso la Luna come da troppo tempo non faceva.

Gli occhi dell’uomo scrutarono a lungo la sua figura. Capelli color cioccolato e cortissimi. Occhi grigio ferro accesi da un fuoco eterno ed inestinguibile. Labbra piene e screpolate. Corpo scattante. Quella non era più Andromeda Black. Quella non era più la figlia prediletta del Doge. Quella non era più l’erede diretta della Lady regnante. Era la figlia smarrita. La figlia corrotta. Il frutto d’un utero malato che, a suo tempo, aveva generato altre figlie.
Il poliziotto, con un gesto di stizza, fece segno all’uomo alla sua destra di marchiarla col fuoco.

«Alza la manica»

Una saetta nera, sotto la manica della maglia, fece la sua comparsa. Veleno sulla pelle d’alabastro. Segno di protesta. Simbolo di rivolta. I Fulmini. Commando d’assalto guidato dalla Pantera Nera che non avrebbe più ruggito.

«Chi servi? »
«I Fulmini»
«Chi è il tuo Dio? »
« La Notte Nera »
«Pronuncia il Giuramento»
«Muoio come A13 e rinasco come Andromeda. Dimentico il mio nome come serva e ricorderò, fino alla morte, il mio nome da ribelle. La Libertà è l’unica mia religione e la Morte unica mia nemica»
Ted la fece alzare. Era bello, quel giorno. Lunghi capelli dai riflessi rossi e occhi chiari come pozze d’acqua limpida. I capelli, dolcemente, le scesero sulle spalle nude ma, prontamente, li raccolse con una mano ed afferrò, con forza, il coltello che le porgevano. Le bastò un unico, secco e pulito movimento. I capelli caddero, scompostamente, nel vivace falò.
Ted prese un ferro arroventato tra le fiamme. La Saetta Nera.
La pelle, a contatto col ferro, sfrigolò. Odore di carne bruciata si mischiò all’aria pulita della notte. I suoi compagni, ed unica famiglia, urlarono e cantarono alla novella Luna. Le sorrise e la baciò. Sapeva di vita. Sapeva di morte. Sapeva di vittoria. Sapeva di lui
Quel giorno sarebbe morta A13 e, per la prima volta, Andromeda avrebbe respirato.


Angolo Autrice: 

Perché di AU ce n'è troppo poco! Non so, ad essere sincera, se sono riuscita a trasmettere quello che volevo. Nella mia testa, questa storia, era molto in stile Star Trek con tantissime creature strane ma, improvvisamente, si è trasformato in questa...cosa senza forme né senso. 

Spero possa piacere comunque,
a presto
Gilraen

 

 
   
 
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