perciò vi beccate 9.880 parole tutte in una volta!
non mi piace in generale lasciare delle note, né prima né dopo il testo, però volevo avvisarvi di un paio di cose:
· i New York Knicks sono una squadra di basket dell’NBA
· la one shot è suddivisa in sette parti, praticamente è una mini long di sette capitoli ahahahah
Sarà sicuramente pesante e a tratti troppo veloce, ma il tutto - o quasi - è stato fatto apposta; ho voluto rispecchiare completamente il ribaltamento di vita che avviene ma vi sto dicendo troppo ahahahah
perciò spero davvero ma davvero che questo malloppo di one-shot vi possa piacere!
mi trovate anche su ask! fatemi sapere e grazie a chiunque si prenderà la briga di leggere :)
buon compleanno
Anna
empire state of mind
Ottobre è il mese che preferisco. New York, in
autunno, si riempie di foglie gialle e
rosse che tappezzano Central Park, ci sono molti più turisti
francesi e
spagnoli e qualche negoziante già si prepara per le svendite
natalizie. A
ottobre evito i taxi, allungo il tragitto per l’ufficio,
qualche volta riesco
perfino a non imprecare contro i ciclisti. Vivo a New York da
più di sette anni
e, nonostante l’Inghilterra sia tutta un’altra
storia, l’autunno americano mi
ricorda un po’ di quando io e mia sorella tornavamo da casa
dei nostri nonni
con i cappotti pesanti e i viali zuppi di fogliame scolorito. Non che
sia un nostalgico o cose del genere, più che altro un
po’ malinconico in certe
giornate. Quelle certe giornate in cui non succede assolutamente
niente, in cui
c’è una routine che si ripete senza sosta, quelle
che passerei davanti ad una
partita di football con una birra in mano ma in cui, puntualmente,
trovo il
frigo vuoto e solo le repliche di una stupida gara di golf. Giornate,
quelle giornate, in cui magari
Naya
si ferma a dormire da sua sorella perché suo marito ha di
nuovo chiesto il
divorzio e in cui io quindi mi ritrovo con l’appartamento
vuoto e una pizza da
ordinare e poi scaldare. Giornate,
quelle giornate, che sono
esattamente
come questa, ma grazie al cielo oggi è giovedì.
Il bar
l’ha trovato Zayn almeno cinque anni fa, quando ancora
studiavo all’università
e non dovevo abbottonare le camicie fino all’ultima asola per
coprire i
tatuaggi. È a
soli due isolati da casa, ha la scritta Revolution
appesa sopra all’entrata, una vetrata che
s’affaccia sul marciapiede e i tavoli
rotondi e un po’ scheggiati, ma Niall dice che offrono una
delle migliori birre
della città - Amico, questa
è vera Guinness
irlandese, non quello schifo che compri da Wal-Mart che costa un occhio della testa! - e in
più, Isaac, il proprietario, ci offre sempre il terzo giro. Deglutisco
nervosamente nel momento esatto in cui l’orologio sopra al
bancone segna le
nove spaccate. Mi sciolgo la cravatta che ho scordato di togliere a
casa,
sbottono i polsi della camicia bianca che non mi sono cambiato e mi
massaggio
le tempie. Naya
non ha risposto alle mie chiamate ma mi ha scritto che
resterà da sua sorella
per la notte, che questa è ancora sconvolta da quando suo
marito ha sbattuto la
porta di casa e che lei proprio non
se la sentiva di lasciarla da sola. Io ho
lasciato il telefono tra i cuscini del divano per evitare di tirarlo
fuori e
scriverle ancora, e adesso un po’ me ne pento. Il
nostro appartamento è privo di qualsiasi cosa senza Naya.
Posso alzare il
volume della televisione o quello dello stereo, posso fumare tutto il
pacchetto
di sigarette che compro solo nel weekend e posso anche rimpinzarmi di
cinese
d’asporto, ma niente compensa la sua assenza. E questo un
po’ mi spaventa,
anche se faccio finta di niente la maggior parte delle volte in cui ci
penso. Passano
almeno cinque minuti abbondanti, prima che Louis varchi la soglia del
locale.
Ha addosso un orribile impermeabile giallo che mi fa sorridere, un paio
di
jeans chiari e delle scarpe da ginnastica. Lancia un sorriso di saluto
a Isaac
dietro al bancone, poi guarda verso la mia direzione e mi raggiunge. “Credevo che questa giornata non finisse
più - rimane con un maglione
blu scuro mente si toglie l’impermeabile e scivola sul
divanetto del tavolo,
con un sospiro - Sai? Dovresti ritenerti fortunato a vedermi ancora
vivo” Ridacchio
divertito per la sua esuberanza, Louis ha ventinove anni ed
è comunque un
ragazzino. Ha già qualche rughetta intorno agli occhi chiari
ma i capelli
ancora folti, di un castano noce. Non si è fatto la barba ma
dimostra comunque
meno anni di quanti ne abbia effettivamente, ha il volto stanco ma allo
stesso
tempo sereno. Allargo
i gomiti sulla tavola e “Non ti preoccupare, Lou –
dico – ringrazio Iddio
ogni giorno per questo” Lui non
risponde ma punta il suo sguardo divertito al mio fianco mentre io con
la coda
dell’occhio individuo i capelli biondi di Niall mentre si
siede accanto a me
goffamente, puntando i palmi delle proprie mani screpolate sulla
superficie del
tavolo. “Ringraziare
per cosa?” domanda con un sorriso, osservandoci entrambi. Niall di
anni adesso ne ha ventotto e davvero,
se solo mi facessi crescere la barba probabilmente potrebbe risultare
benissimo
mio figlio. I suoi lineamenti sono più marcati rispetto a
quando entrambi
seguivamo il corso di letteratura francese insieme, ma ha comunque
ancora i
capelli biondi e gli occhi vispi e blu, il sorriso bianco e dritto e i
modi di
fare sempre un po’ impacciati nonostante la laura in
infermieristica e una
figlia in giro per l’appartamento. “Per
avere Louis Tomlinson con noi anche questo
giovedì” gli spiego, riprendendo
l’argomento iniziale. Scivolo a capotavola per avere una
visione più completa
del locale e Niall ride a bocca aperta, mostrando la dentatura perfetta
che
dieci anni abbondanti di apparecchio gli hanno regalato. Louis
invece alza gli occhi al cielo e trattiene un sorriso, “Come
va?” domanda poi,
cambiando argomento. Io alzo
le spalle con fare indifferente e penso che se non avessi lasciato le
sigarette
a casa probabilmente chiederei ad Isaac di lasciarmi fumare qui dentro.
Invece
giocherello distrattamente con le mie dita lunghe e lascio che Niall
inizi a
raccontare la sua giornata sicuramente
più interessante della mia. “Tutto
bene - risponde, leccandosi le labbra - sono solo molto stanco.
C’è stato un
incidente sulla Fifth Avenue e il
pronto soccorso era un casino allucinante, ho finito neanche
un’ora fa. Tu come
stai?” Louis
annuisce brevemente e stringe le labbra in una linea dura:
“Stanco anch’io -
mormora con un sospiro - Questa settimana ho passato praticamente tutte
le
notti in bianco, Grace ha avuto la febbre alta fino a stamattina e beh, lo sapete come sono i bambini con
l’influenza” Le mani
iniziano a prudermi fastidiosamente mentre osservo Zayn e Liam prendere
posto tranquillamente
uno vicino a Niall e l’altro accanto a Louis. Stanno
già sorridendo, Liam ha tagliato di nuovo i capelli e sembra
ancora più
elegante del solito mentre Zayn indossa uno snapback dei Lackers
con la visiera al contrario e una felpa con la scritta New
York University, probabilmente
risalente al primo anno. Di Zayn
Malik, se non lo conoscessi come le mie tasche, direi che sia un
bambinone, uno
di quelli che non c’hanno proprio voglia di crescere. E
siccome lo conosco e lo
conosco bene, penso solo che certe
volte le apparenze c’azzeccano fin troppo. “Veramente,
Niall - s’inserisce nella conversazione tranquillamente, con
le sue vocali
dell’Ohio e lo sguardo divertito - Harry non lo sa come sono
i bambini con
l’influenza” A
questo punto rimpiango di aver lasciato davvero
il pacchetto di sigarette a casa e forse di non esserci restato io
stesso. Mi
sento rigido, una vampata di calore fastidioso mi fa vibrare un attimo
e mentre
quelli che dovrebbero essere i miei
migliori amici ridono, io combatto con l’istinto di passarmi
una mano tra i
capelli per la frustrazione. “Molto
divertenti” sibilo però, deglutendo. “Scusaci,
amico - Liam maschera la sua ilarità con un colpo di tosse,
mentre mi guarda -
ma Zayn ha ragione. Tu e Naya siete gli unici a non aver ancora avuto
figli -
poi alza le sopracciglia folte e aggiunge subito - Non che questo sia
un male!” Nascondo
le mie mani sotto al tavolo e stringo forte i pugni, chiudendo un
attimo gli
occhi perché questa è una conversazione che
affronto almeno quattro volte al
giorno con la sorella di Naya, con la mia, con mia madre per telefono,
con i
miei colleghi, la mia segretaria, l’anziana
dell’interno 24 e perfino in quelle
rare telefonate con mio padre e non c’è davvero
bisogno di parlarne anche adesso. “Mah
sì, pal! - esclama
Niall,
stringendomi forte una palla - Tu e Naya avete tutto il tempo del mondo
per
sfornare pargoli e rimpiangere i giorni senza pannolini e coliche come
facciamo
noi” Poi fa
un cenno esperto verso Isaac, che annuisce soltanto, facendo troncare
la
conversazione. Faccio
finta di non sentire il nodo all’altezza dello stomaco e bevo
quasi mezzo
boccale di birra con appena me lo piazzano davanti al volto. Ed
è
vero che io e Naya non abbiamo ancora avuto figli, che la compagna di
Liam, Hannah,
aspetta una bambina dopo aver avuto Michael, che Grace ed Edward, i
gemelli di
Louis e Dana, tra un paio di mesi compiono tre anni e che in fin dei
conti sono
tutti dei padri di famiglia belli e buoni, ma siamo ancora giovani,
giusto? Naya ha
solo venticinque anni e io ventisette, siamo reduci da un imbarazzante
matrimonio in municipio nel quale lei ha riso per la maggior parte
della
cerimonia solo perché
sua madre non
accetta la convivenza senza fedi e io ho appena ottenuto una promozione
in
ufficio, dove lo mettiamo un bambino? Non ne
abbiamo mai parlato, comunque. Ne parlano tutti,
non c’è persona che non ce lo
ricordi almeno una volta al giorno, ma poi
quando ci mettiamo a tavola alla sera o sul divano, stretti e vicini,
nessuno
dei due accenna all’argomento. Ma io
ci provo, ci provo davvero a fare
finta di niente, a non sentire le voci fastidiose che mi ronzano in
testa
quando non riesco a dormire. Ci metto d’impegno a non
guardare gli occhi fieri
di Louis quando a Central Park osserva Edward provare a colpire la
palla con la
mazza da baseball mentre Grace m’infila le margherite tra i
capelli, però non
ci riesco. Cerco
di non pensarci, e va tutto bene finché Naya non
c’è e ritornano quelle
giornate. Non
credo che lei voglia un figlio, ad ogni modo, il lavoro la sta
prendendo tanto,
è coinvolta e sempre attiva, probabilmente neanche ci pensa,
ad un figlio. Il
pensiero di Naya con un bambino mi fa sorridere perché,
nonostante tutto, credo
che sarebbe una madre fantastica. Apprensiva, forse un po’
troppo protettiva,
con la sua voce che s’inclina quando cerca di non ridere e
con lo smalto tutte
le settimane diverso. Emetto
un gemito di frustrazione e mi appoggio stancamente allo schienale del
divanetto, cercando di cogliere i tratti della conversazione che si sta
avendo
al tavolo. “Sasha
ieri è tornata dall’asilo in lacrime - sta dicendo
Zayn, le dita a intrappolare
il boccale di birra freddo -
Un suo
compagno di classe le ha tirato le trecce per tutto il giorno” Liam
corruga le sopracciglia in un’espressione apprensiva e io
sorrido appena mentre
lui “Spero che tu abbia fatto qualcosa” dice,
risoluto. “Oh,
andiamo Liam! - esclama subito l’altro, appoggiandosi allo
schienale del
divanetto - Hanno tre anni! Non potevo di certo presentarmi a casa del
marmocchio e minacciarlo - poi alza un angolo della bocca e ghigna - ma
ho
detto a Sasha dove colpirlo, sapete, per precauzione” A quel
punto rido davvero, leggermente più rilassato di prima.
Niall mi segue a ruota
con la sua risata aperta, mentre Louis ghigna quasi compiaciuto
e Liam scuote la testa, contrariato. “Sono bambini,
Zayn - gli ricorda, saccente -
Avresti dovuto chiamare i genitori e risolvere la questione, non
insegnare a
tua figlia come castrare i propri
compagni” “Chissenefrega
dei genitori, Liam” borbotta Zayn, allargando le braccia in
un gesto puramente
infantile. Non credo che riuscirà mai a cambiare. A quel
punto, vedo Louis stringere le spalle di Liam con un braccio magro,
passandogli
una mano tra la nuca rasata e sorridendo sghembo: “Non te la
prendere, Zayn -
dice all’uomo davanti a lui - Liam non ha idea di cosa vuol
dire avere una
figlia femmina. I discorsi educativi con loro non funzionano” Niall
sospira teatralmente un “Concordo”, prima di alzare
il proprio boccale di birra
ormai mezzo vuoto e bere. E
quando tutti e quattro intavolano la conversazione “sindrome
post-parto” non è
che mi senta un pesce fuor d’acqua. Più
che
altro un gatto in mezzo all’oceano, un elefante tra delle
zebre, un coniglio
tra i lupi o, più semplicemente, senza Naya. ⁓ ⁓ ⁓ Ci
siamo conosciuti a una di quelle feste che gli universitari americani
fanno
all’inizio e alla fine dell’estate, nella sede
della confraternita di Niall. Ci ha
presentati l’allora fidanzata di Louis, Keith, quella col
piercing in mezzo
alle sopracciglia e l’accento del Texas. Anche se,
ufficialmente, io e Naya
abbiamo avuto la nostra prima vera
conversazione solo la settimana successiva, al caffè del
college. La
prima cosa che mi è piaciuta di lei è stata la
sua salopette in jeans
arrotolata alle caviglie, poi le sue gambe lunghe e infine la sua
risata
rumorosa e a tratti imbarazzante, coi denti in bella vista e le vocali
nasali
tipiche di chi è di New York. A
quell’epoca non aveva neanche diciannove anni e portava i
capelli biondo cenere
sempre stretti in delle trecce lunghissime. Aveva due orecchini
pendenti di un verde
fosforescente e i polsi stretti e spigolosi. Ha
messo da parte parecchi vestiti pacchiani adesso, ma i polsi, beh, quelli fortunatamente sono intatti. Quando
parliamo del nostro primo incontro con altra gente, lei si appoggia
sempre alla
mia spalla, ridacchiando, mentre io la stringo e dico: “Era
la ragazza più
stravagante che avessi mai visto” e aggiungo: “I
tuoi orecchini facevano
schifo”. Lei poi
accenna ai miei capelli ricci, al graffio sulla guancia che mi ero
fatto
sbattendo contro l’armadio e al mio accento inglese che
“Nonostante ti ami da
sette anni, è sempre più brutto”. Ci
siamo conosciuti come il 75% delle coppie americane, tra le cattedre
dell’università e i bicchieroni di
caffè acquoso, la nostra prima fotografia ce
l’ha scattata una sua amica a tradimento e il primo bacio me
l’ha dato lei
davanti alla mia stanza del college, qualche settimana più
tardi. Le ho
visto cambiare così tante pettinature da far girare la
testa, i suoi capelli
sono diventati neri nel pieno di agosto, poi c’è
stata la frangia coi riflessi
rossi in un ottobre un po’ troppo afoso e anche il caschetto
platino quando si
è laureata in giornalismo. E poi ci sono stati gli anfibi
bassi e quelli alti,
le scarpe con le zeppe di un bianco quasi volgare e i vestiti che
ordinava su
internet direttamente dall’India, le gonne lunghe fino alle
caviglie e le giacche
di pelle sintetica comprate fa Forever21.
Non so
chi di noi abbia detto Io ti amo per
primo, probabilmente è successo in uno di quei
giovedì sera nella sua stanza,
tra uno streaming al computer e l’altro.
L’avrà mormorato qualcuno di noi,
sovrappensiero perché sono solo tre parole un po’
commerciali come le canzoni
su MTV, banalizzate da tutti e usate come difesa e soprattutto come
attacco. A
queste cose, Naya non ci ha mai pensato, non è una ragazza
che si commuove
facilmente, il “ti amo”, noi, lo abbiamo inserito
nei nostri messaggi del
buongiorno e tra i baci della buonanotte, piano piano, senza spaventare
nessuno. Non
siamo stati prevedibili, una di quelle coppie decise a tavolino, siamo
più che
altro dei sopravvissuti, quelli che non hanno mollato, quelli che sono
restati
un po’ dappertutto e quelli che, se li vedi, dici
“ma dai? Ancora insieme?” Siamo
stati sempre qui, anche con il matrimonio più imbarazzante
della storia, le
puntate di CSI Miami registrate e
mai
viste e la lavastoviglie che si rompe ogni mercoledì. Siamo
questi qui, alla faccia di chi non ci credeva. Naya
è
seduta sul tappeto del salotto, qualche giorno più tardi. Ha
in una mano il
pennellino dello smalto bordeaux e l’altra aperta sulla
superficie del tavolo.
Sul via cavo, Oprah sta intervistando l’ultimo attore uscito
dall’ultimo film
per adolescenti di cui mi sfugge il nome. Ero rimasto a Twilight,
sono davvero così vecchio? Abbiamo
cenato presto, ordinando due margherite in quella pizzeria in fondo
alla
strada, quella in cui si spacciano tutti per italiani e dove il
cameriere ci
prova sempre un po’ troppo con Naya. “Ti
piace questo colore?” mi dice improvvisamente, senza voltarsi
nella mia
direzione. È di spalle rispetto a me, che sono seduto
stancamente sul divano, e
indossa un paio di pantaloni della tuta e un vecchio maglione di
cotone. “Mhmh
–
borbotto a labbra serrate – è come
l’altro, no?” La
sento rimettere a posto il pennellino e subito dopo è girata
verso di me, coi
suoi occhi azzurri che mi guardano con scetticismo. Sorrido. “L’altro
quale?” indaga. “Quello
che ti ha regalato Claire per Natale…” “Cosa?!
- esclama, fingendosi scandalizzata - Stai scherzando, spero. Quello
è uno Chanel e non puoi
proprio paragonare Chanel ai saldi
di H&M. Il tuo periodo da
barbone è finito ai ventidue. Torna tra
noi, hipster” Scoppio
a ridere così forte che sento le costole tirare. Lei sbuffa
una risatina
compiaciuta e con una mano si sistema le ciocche biondo platino dietro
le
orecchie, per poi voltarsi e darmi le
spalle di nuovo. Batto
un palmo sulla superficie del divano: “Vieni qui” “Ho
lo
smalto fresco” E non
è
un no. “E
chissenefrega. Vieni qui” Qualche
ora più tardi, in bagno, osservo le tracce bordeaux sul mio
collo. Le tocco più
e più volte, strofinando con le dita bagnate
affinché vadano via. Sorridendo.
Wilma
è
la mia segretaria personale, ha ventun anni e studia lingue alla Columbia. Il lavoro gliel’ha
procurato
il suo patrigno, che da quanto ho capito è un pezzo grosso
dei piani alti e con
il quale non va propriamente d’accordo. Ha i capelli scuri e
il volto ancora da
bambina, mi porta sempre il caffè più decente
possibile e ogni tanto mi dà
ancora del lei nonostante la mia esplicita richiesta durante le prime
settimane. Non
è
invadente, forse un po’ troppo intimorita quando è
una mia giornata no, però è
intelligente e affidabile, la prima a entrare a lavoro e una delle
ultime ad
andare via. È
lunedì mattina e sono pieno di pratiche da sbrigare e
appuntamenti nella sala riunioni,
ho già risposto a sei mail e non sono neanche le dieci. La
vetrata del mio ufficio, come ogni cliché newyorkese che si
rispetti, si
affaccia sulla città, tra Central Park, la Statue of Liberty
coperta dai
grattacieli e i taxi in strada che dal ventisettesimo piano sembrano
tanti
piccoli puntini gialli. Wilma
entra dalla porta socchiusa quasi in punta di piedi, formale ed
elegante come
sempre: “Signor Sty- ehm, Harry
- mi
chiama, abbozzando un sorriso - C’è qui il signor
Peters” “Fallo
entrare Wilma, grazie” le sorrido appena, poi firmo
l’ultimo foglio che mi
capita a tiro e cerco di sistemare il disordine sulla mia scrivania. George
Peters è uno dei nostri più grandi finanzieri.
Quando entra nell’ufficio, con i
suoi pantaloni sportivi e la camicia bianca coi primi bottoni
slacciati, la sua
aura da miliardario fa quasi vibrare le pareti. È senza
dubbio un bell’uomo,
sulla cinquantina, coi capelli di un biondo spento e la pelle quasi
arancione
per tutte le lampade che si deve essere fatto nell’ultimo
mese. Mi alzo
in piedi, sorridendo, mentre lui si avvicina velocemente alla scrivania
e mi
afferra la mano con veemenza: “Harry! - mi saluta come un
vecchio amico e non
come chi, praticamente, mi paga lo stipendio - Come te la
passi?” Ci
sediamo entrambi, “Non c’è male, grazie
- gli sorrido, mettendomi a mio agio -
E lei?” Fa un
gesto incurante con la mano, allargando le gambe sulla sedia,
“Un affare lì, un
affare là…le solite cose, insomma” Passiamo
la maggior parte del tempo a parlare delle sue vincite in banca e
quelle sul
campo da golf, del suo ultimo acquisto - Hai
presente i New York Knicks? Beh,
guardavo il basket con mio figlio e mi son detto
“perché no?” - e del
divorzio con la sua terza moglie. Gli
ultimi cinque minuti incentro la conversazione sull’affare
per il grattacielo
di Brooklyn, lui accetta alla seconda frase e poi guarda il suo Rolex laccato, emettendo un sospiro di
rammarico. “Devo
ancora raccontarti di Dubai, Harry, ma purtroppo ho una Lamborghini
che mi aspetta qui sotto” si alza in piedi e io faccio
lo stesso, divertito. “Non
si
preoccupi - dico, accompagnandolo alla porta - Sarà per la
prossima volta” Non
credo che mi stia ascoltando, comunque. Si sta guardando intorno con
una strana
espressione, le sopracciglia aggrottate
e le labbra serrate. “Vuoi
sapere cosa manca qui dentro, Harry?” mi domanda poi, quando
io apro la porta. “Cosa,
signore?” “Una
bella foto di un marmocchio” ⁓ ⁓ ⁓ Il
giorno dopo sono seduto sul prato di Central Park, Grace Tomlinson tra
le mie
gambe, e lo sguardo puntato verso Louis ed Edward che, davanti a noi,
stanno
giocando a calcio cercando di non colpire le altre persone. Grace
ha gli occhi di suo padre e la timidezza di Dana. Le sue mani sono
sulle mie
ginocchia allargate per farla stare comoda, io giocherello coi suoi
capelli
biondo miele mentre lei sorride spensierata osservando suo fratello
gemello ridere
come un matto. Edward
ha i capelli un po’ più scuri di Grace ma per il
resto è la copia sputata di
Louis: stesso carattere, stesso sorriso già allusivo e
stesso temperamento. Si
aggrappa alla gamba del padre ogni volta che questo calcia la palla,
poi
scoppia a ridere e inizia a correre, finendo irrimediabilmente per
terra. “Zio
Harry” Grace batte una piccola manina contro la mia gamba,
con le sue ‘r’
ancora non pronunciate e la voce da angelo. M’intenerisco
subito perché sono follemente innamorato di questa bambina e
dei bambini in
generale. Le lascio un bacio tra i capelli pizzicandole un fianco. “Dimmi,
pulce” le rispondo e lei ridacchia. “Quand’è
che tu e zia Nana fate un
figlio?” mi
chiede curiosa, senza guardarmi. Mi
irrigidisco, poi emetto un verso frustrato e mi passo le mani tra i
capelli:
“Non ne ho la più pallida idea, tesoro” Naya ha
il portatile sulle ginocchia incrociate e i capelli dietro le orecchie,
un paio
di occhiali spessi da lettura e lo sguardo corrucciato mentre fa
scorrere le
sue iridi sullo schermo. Il salotto è illuminato dalla
lampada all’angolo, la
televisione è silenziata e io sono appena uscito dalla
doccia. Mi
trascino sul divano accanto a lei, voltandomi su un fianco per
osservarla e
studiarle il profilo serio. È
assolutamente la donna più bella del pianeta. Accarezzo
il suo collo magro scostandole dolcemente i capelli, le bacio una
clavicola
scoperta dalla maglietta e faccio scorrere le mie dita sulla sua
coscia, senza
alcun accenno allusivo. Non si
tratta di sesso, tra me e Naya non si è mai trattato solo di questo. È
più un bisogno fisico, un riempirsi a vicenda,
toccare i punti deboli e quelli giusti, completarsi. Il sesso con Naya
è
qualcosa che va oltre la semplice compattezza dei corpi, è
un “guarda che non
ti lascio neanche se me lo chiedi”. Lei
inclina la testa facendomi ridere, “Harry” si
lamenta, e io so di averla
distratta quanto basta per catturare la sua attenzione. “Sono
due ore che sei seduta qui - dico, stringendole un fianco - Cosa
c’è di così
importante su questo computer che ti impedisce di darmi un
bacio?” Mi
guarda con un cipiglio fintamente indispettito, cercando di nascondere
un
sorriso: “Ci sono un sacco
di cose su
questo computer che m’impediscono di darti un bacio -
borbotta saccente - a
cominciare dal mio incredibile sfondo di Leonardo DiCaprio e da questo
maledetto articolo che devo consegnare entro domani mattina” “Mhmh
-
chiudo gli occhi e continuo a riempirle la pelle del collo di piccoli
baci -
incredibile sfondo, eh?” “Harry!
- scoppia a ridere, cercando di non far cadere il computer e nel
contempo di
allontanarsi da me - Mi stai facendo il solletico” Faccio
scorrere le mie labbra sulla sua guancia, poi sorrido contro la sua
tempia e
infine le bacio la bocca, “Sei la solita stronza
guastafeste” sussurro, e lei
spalanca gli occhi, colpendomi su una gamba. Rido e
mi metto in piedi con un piccolo saltello, “Preparo qualcosa
- dico,
sistemandomi i capelli ancora umidi - Desidera qualcosa di speciale,
Miss Stronzaggine?” Non mi
guarda neanche, mentre alza il dito medio. Più
tardi, a tavola, con un piatto di polpettone avanzato e quintali di
grissini,
non riesco a fare a meno di ripensare a quello che è
successo durante il
pomeriggio. Così
quando Naya mi chiede come sia andata la mia giornata, esito qualche
secondo,
prima di rispondere. “Grace
mi ha chiesto quand’è che io e te avremo un
bambino” dico poi, senza giri di
parole. Naya
è
sorpresa, si nota da come fa scattare di un millimetro il suo capo
all’indietro, da come spalanca appena gli occhi a la bocca. Ho
giù
paura della sua ipotetica risposta, perché non è
un argomento di cui
abbiamo parlato e
perché potrebbe
fraintendere le mie parole e credere che io voglia un figlio. E io lo
voglio? Ma poi lei
mi spiazza come al solito, perché scuote la testa e sorride,
“È proprio la
figlia di Louis Tomlinson” commenta, con
tranquillità. Accenno
un sorriso tirato, ancora rigido: “Già”
balbetto, come un quindicenne. “E
tu
cosa le hai risposto?” mi chiede, tagliando
l’ennesimo pezzo di carne. “Che?” “A
Grace. Cosa le hai risposto?” “Che
non ne ho idea” ammetto con un sospiro. Fisso
il mio piatto ancora per metà pieno perché mi
sento instabile, pronto a
ricevere una di quelle risposte che mi hanno sempre fatto venire i
brividi e
gli occhi lucidi. Non lo so se voglio davvero un bambino, ma
l’idea di… Mi piace, ecco. Mi
piacerebbe,
mi piacerebbe avere un figlio, diventare padre, sapere di essere il
centro del
mondo per qualcuno, sentire di far parte di qualcos’altro,
avere una famiglia
tutta mia. Naya
non parla per diversi minuti e credo che forse sia meglio
così, forse è meglio
cambiare argomento e rimettere tutto via, rimettere in ordine le nostre
giornate in cui siamo noi e basta. “Lo
vorresti?” Alzo di
scatto la testa che adesso sento girare vertiginosamente. Naya mi
sta guardando con un sorriso che non riesco a decifrare, quasi
imbarazzato. “Beh,
non…non so - deglutisco e riprendo fiato, in agitazione -
Non saprei…credo,
credo di sì. Forse. E tu?” Lei
inclina la testa, tentennando un po’, ma poi annuisce e
sorride ancora: “Possiamo
provarci. Sai, le cose stanno andando bene per entrambi e in
più sarebbe…figo?” E la
amo così tanto che quasi mi scoppia il cuore. Mi alzo
velocemente e la bacio,
la bacio forte in cucina, poi tra le pareti del corridoio e infine sul
nostro
letto. Chi mai
definirebbe figa l’idea
di avere un
figlio? Quel
giovedì sera sono l’ultimo ad arrivare. Saluto
Isaac con un sorriso ampio, poi prendo posto alla mia solita postazione
facendo
alzare Louis e Liam e infine sospiro soddisfatto quando è
Zayn a chiedermi:
“Cosa diavolo ti sei
fumato?” “Io?
- aggrotto
le sopracciglia con finta ignoranza - Perché me lo
chiedi?” “Il
tuo
sorriso, Harry - mi fa presente Liam - è
inquientante” Scoppio
a ridere, toccando con le dita la bottiglia di birra che qualcuno ha
già
ordinato per me: “Non sono fatto - spiego - sono felice” “Ma
dai? - la voce di Louis è piena di sarcasmo, ma non
m’arrabbio - E da quando tu,
uomo prediletto per il broncio continuo,
sei contento?” Faccio
schioccare la lingua, negando col capo: “Non contento,
Lou - lo correggo - felice” “E
cosa
ti rende così felice,
amico?” mi
domanda Niall, coi denti bianchi in bella vista. E la
voce mi trema ancora un po’ quando “Io e Naya
abbiamo deciso di avere un
bambino” mormoro. Sento i
loro sguardi pungermi come uno spillo, mandandomi scariche elettriche
di
adrenalina o ansia o forse di entrambe le cose. Nessuno fiata per
parecchi
secondi, finché Louis non emette un verso che sembra quasi
un ruggito e Liam
inizia a battere le mani. Il
resto della serata passa tra consigli sui nomi, sui primi tre mesi di
gravidanza che “fidati amico, sono i
migliori e qui ti ho detto tutto” e su come
evitare un’intossicazione da
borotalco. Che
sì,
sono immense stronzate se ci aggiungi quattro idioti e tre giri di
birra, ma in
fondo, a chi importa? ⁓ ⁓ ⁓
La
notizia si sparge in fretta sia al lavoro che tra le nostre famiglie.
Naya
continua a ridere imbarazzata ogni volta che mia madre chiama e i miei
colleghi
mi hanno messo una bustina di preservativi bucata sulla scrivania. L’argomento
“figli” non è più un
tabù, anche se i primi giorni è parecchio strano
parlarne.
Non
facciamo niente di eccezionale, comunque. La nostra vita procede
normalmente,
senza più pillole anticoncezionali e con le idee improvvise
di Naya mentre
guardiamo David Letterman in tv. “Dove
lo mettiamo?” “Ci
serve un appartamento più grosso” “Aiden
mi sa di psicopatico” “Potremmo
vestirlo di giallo che è un
colore neutro, sai, per non confonderlo già con la propria
sessualità” Siamo
sempre Harry e Naya, abbiamo solo inserito qualche conversazione in
più tra un
bacio e l’altro, un nome da aggiungere a una lista che ancora
non abbiamo
stilato e qualche sorriso che sa di qualcosa di diverso.
Mia
madre continua a chiamare, il giovedì sera torna a essere
apatico e Naya inizia
a sospirare un po’ più forte.
“Una
lineetta negativo. Due positivo” “Sei
sicura?” “C’è
scritto sulla scatola, Harry” “Quindi…quindi,
uhm, non..?” “No.
Neanche stavolta” È
un
martedì quando capisco di non riuscire a chiudere occhio per
più di quattro ore
di seguito. Sono
sdraiato sul letto, nudo, con Naya che dorme dandomi la schiena e le
luci di
New York che illuminano i miei occhi ancora spalancati. Sono
passati quasi tre mesi, giorno più giorno meno, e non
è ancora successo
assolutamente niente. Naya
non è rimasta incinta neanche per sbaglio, nonostante abbia
iniziato a prendere
delle erbe benefiche che dovrebbero
favorire la fecondazione e pure uno di quegli aggeggi elettronici che
consigliano quali siano i giorni più fertili della
settimana. Il
nostro rapporto sta diventando sempre più freddo e lei
inizia a infastidirsi
per qualsiasi cosa, dai piatti ancora sporchi ai miei baci sul collo
mentre
scrive. Ho
sempre saputo che io e Naya fossimo diversi da tutte le altre coppie.
È una
caratteristica la nostra e anzi, sono tanti piccoli particolari che ci
rendono
un po’ l’eccezione. È quello che ci
siamo sempre ripetuti, noi siamo
l’eccezione. Adesso,
alle quattro e mezza di un martedì o di un
mercoledì, mi rendo conto che
probabilmente siamo diversi anche così, anche mentre
cerchiamo di avere un
bambino. Il
fatto è che se avessi saputo di rischiare
così tanto, un figlio non lo avrei voluto. E lo so,
può sembrare parecchio
egoistico da dire, ma provate voi a sentire le labbra di Naya sulle
vostre e sentirle
così fredde. Lontane.
Distaccate.
Come se
ci stessimo baciando per fare sesso un po’ più
romanticamente e non perché
respirare da più vicini è ancora meglio. “Una
lineetta” “Okay…allora
io, uhm, vado al bar. Se hai bisogno…” “Ciao” Inizio
a infastidirmi anch’io, comunque. Wilma
comincia a sembrarmi sempre più invadente, i clienti sempre
più pignoli, esco
presto di casa e torno tardi. New York è
l’incarnazione del Natale, tra le luci
quasi psichedeliche appese per la città, gli addobbi sui
rami spogli e le
decine di Santa Claus che cercano
di
farti sborsare cinque dollari per una foto insieme. È
il
ventitré dicembre e siamo tutti a casa
Tomlinson&Kenner per festeggiare i
trent’anni di Louis, il quale al momento del brindisi, coi
piccoli accanto
all’albero di Natale intenti a giocare tra di loro, si
è alzato in piedi e ha
improvvisato un discorso semiserio su quanto sia felice della sua vita
e
orgoglioso dei propri bambini. Io e
Naya abbiamo avuto una mezza discussione a casa, il motivo neanche lo
ricordo
adesso. Sta
parlando con la compagna di Niall, Tyra, entrambe sedute alla tavolata
del
salotto mentre quest’ultima sta cullando dolcemente Valerie,
la sua bambina di otto
mesi. Le
arrivo di spalle, appoggiando il mento vicino al suo collo e baciandole
una
guancia. Lei sorride e non si scansa, mentre Tyra, davanti a noi,
inclina la
testa intenerita e si alza in piedi per raggiungere Niall, seduto sul
divano con
Michael Payne che gli sta mostrando l’ultimo suo modellino
automobilistico. “Hey”
mormoro, baciando una tempia a Naya, che intreccia le nostre mani sul
suo
ventre e alza il volto verso di me. Mi
siedo a mia volta sulla sedia accanto alla sua, incitandola poi ad
appoggiarsi
sulle mie ginocchia. Le avvolgo i fianchi mentre entrambi fissiamo il
salotto
pieno di bambini e risate. Osservo
i suoi occhi farsi più lucidi e più grandi mentre
Niall inizia a mostrare a
Valerie le foto appese alle pareti, con la voce bassa e uno di quei
sorrisi che
riesci a fare solo se provi sulla tua pelle determinate situazioni. Scosto
i capelli di Naya dal suo collo, le bacio l’incavo elegante e
sussurro al suo
orecchio perché voglio che sappia che, nonostante tutto, io
da qui non mi
muovo. Festeggiamo
Natale coi suoi genitori, con sua sorella e suo marito, i loro due
bambini e la
loro tata. Il ventinove prendiamo l’aereo per Londra,
diretto. Atterriamo il
pomeriggio del trenta, poi un treno per il Cheshire e infine casa. Mia
madre ha passato i cinquanta ma è sempre una donna
magnifica; il mio patrigno,
Robin, inizia ad aggiornarmi sul viaggio in Irlanda che hanno fatto a
marzo e mia
sorella Gemma mi presenta il suo nuovo compagno. Naya
è
sempre sorridente, probabilmente questa pausa dallo stato
mentale di New York serve più a lei che a me. Trascorriamo
in Inghilterra una settimana, i nostri baci diventano sempre
più veritieri, le
tengo la mano durante le passeggiate in collina e le dico ‘ti
amo’ ogni volta
che mi sorprende a guardarla. Atterriamo
al JFK di domenica, io con ancora
le
lacrime di mia madre sul colletto della giacca e Naya con un sorriso
che
s’incrina ogni volta che il nostro taxi si ferma ad un
semaforo rosso. Aperta
la porta dell’ingresso del nostro appartamento, non sorride
più. La
routine quotidiana riprende subito lunedì e mi sembra di
aver stretto un po’
troppo la cravatta, aver allacciato le scarpe nel modo sbagliato.
Allento il
colletto della camicia, sciolgo i nodi dei polsini e scopro i tatuaggi
da
diciannovenne. Guardo New York che ha sempre lo stesso sole anche un
anno dopo,
la maestosità di questa metropoli. Disdico tutti gli
appuntamenti del
pomeriggio e me ne sto qui, seduto sulla sedia girevole del mio
ufficio, a
guardare il cambiamento di luce contro i grattacieli, a chiedermi
quanto siamo
piccoli in confronto a tutto questo. Mi domando come l’uomo
riesca a costruire
palazzi di vetro che non crollano mentre io ho smesso di far sorridere
Naya. Ed
è
ancora la donna più bella del pianeta e la amo
così tanto che mi sento
esplodere, ma quando torno a casa, nelle settimane successive, e la
guardo
senza realmente vederla, sono io,
adesso, quello che si domanda “ma dai? Ancora
insieme?” Ma
sì,
dai, ancora insieme? Ancora? Insieme? Zayn mi
chiede di accompagnarlo a Central Park, una domenica pomeriggio. Siamo
seduti su una panchina in legno, lui con lo sguardo fisso verso Sasha
che corre
da una parte all’altra dello spiazzo per le giostre e io con
una sigaretta in
bocca perché è pur sempre il weekend. Naya si
è fermata da sua sorella durante la notte,
io non ho chiuso occhio e credo siano le cinque di pomeriggio. “Allora
- Zayn appoggia una caviglia sull’altro ginocchio, si sistema
lo snapback che
indossa e mi guarda - come va?” “Come
al solito - di merda - e
tu?” Si
stringe nelle spalle e torna con gli occhi fissi sulla figura di sua
figlia
appena scesa dall’altalena: “Non mi
lamento” risponde, scrollando le spalle. “Non
vedo come potresti farlo” mi ritrovo a dire, senza rendermene
conto. “Cosa?”
mi domanda, aggrottando le sopracciglia. “Lamentarti
- gli spiego, e so che la conversazione sta prendendo una piega
sbagliata - non
vedo perché dovresti lamentarti. Hai tutto quello che ti
serve” I miei
occhi corrono a Sasha per un attimo, ma Zayn capisce subito e
stiracchia le
labbra in un sorriso di circostanza: “Non è
così facile come sembra, Harry”
cerca di dirmi, e le sue parole mi fanno scoppiare in una risata di
pancia, per
nulla divertente. “Mai
dai? - mi fingo accigliato, spalancando gli occhi - E lo dici a
me?” Non so
cosa mi stia succedendo, non sono il tipo da giochetti per ragazzini
infantili
e viziati. Mi dispiace trattarlo così perché so
che Zayn non c’entra niente, ma
sono stanco. E anche tremendamente incazzato con tutti. E in
più lui mi viene da dire che non è tutto
così facile? “Sei
stressato amico, - mi guarda un po’, prima di parlare - stai
passando un brutto
momento e ti posso capire...” “Ah
sì?
- stringo i pugni e scoppio, allargando le gambe sulla panchina come
un’onda
che si ritira prima di diventare uno tsunami - E sentiamo, come faresti
a
capirmi, Zayn? Anche Kara non riesce a rimanere incinta? Anche lei non
riesce
più a guardarti in faccia? Mangiate ancora insieme? Nella
stessa stanza? Fate
sesso? Dimmi, amico, come ci si
sente
ad avere una figlia e andare in giro vestito come un diciassettenne?
Deve
essere molto gratificante, crescere con la propria bambina, non
è vero?” Lo
ferisco, lo vedo. Il suo sguardo inizia a vacillare, a perdere quella
patina di
menefreghismo adolescenziale che non lo ha mai abbandonato. Non mi
risponde, mi
fissa e basta, deluso. Sono
uno stronzo, un enorme bastardo, ma il suo dolore è come se
mi calmasse, mi
facesse stare, in qualche modo, meglio. Non sono l’unico che
sta male, adesso
c’è anche lui. E
vorrei dirgli che mi dispiace, perché Zayn è un
ottimo padre, maturo a modo suo
e con la sua passione per i fumetti della Marvel
e il poster di Kobe Bryant in salotto. Non lo dico, non aggiungo
nient’altro. Getto
il mozzicone sulla ghiaia e mi alzo in piedi, lasciandolo
lì.
⁓ ⁓ ⁓ Alzo
gli occhi dal fascicolo che ho tra le mani e sbatto velocemente gli
occhi. Ci
metto qualche secondo a comprendere che ciò che mi ha
distratto è il suono del
telefono sulla scrivania, che s’illumina di una piccola
lucina rossa. Sospiro,
mi sistemo i capelli con un gesto nervoso e lascio cadere la schiena
contro lo
schienale della sedia, alzando la cornetta. “Harry” È
Wilma.
“Dimmi
pure” la incito, passandomi le dita sulle labbra. È
lunedì pomeriggio e stanotte non ho dormito molto, ma il
lavoro mi tiene
lontano dai pensieri e i miei pensieri, oggi, sono tutti concentrati su
Zayn. “C’è
tua moglie sulla due - sembra combattuta sul da farsi - dice che
è urgente” “Passami
la chiamata” la liquido, sorpreso. Naya
non mi disturba mai sul lavoro. “Pronto?”
“Harry!”
mi risponde e la sua voce è alta, squillante, quasi
impaziente. “Hey
-
mi acciglio, lanciando una breve occhiata alla vetrata alle mie spalle
- tutto
okay? Stai bene?” “Quando
torni?” mi chiede di rimando, come se fosse agitata. Guardo
il monitor del mio Mac sulla
scrivania, “Sono appena le tre, Naya - rispondo quindi - Che
c’è? Hai bisogno?” “Ne
parliamo dopo, ciao” mi dice, sbrigativa. Non sembra
arrabbiata, più che altro
parecchio ansiosa. “Naya”
provo a chiamarla, confuso. “Ciao!”
mi saluta velocemente, riattaccando. Guardo
la cornetta, allucinato. Non ho mai sentito Naya così. Non
so se essere
preoccupato o sollevato per una sua reazione dopo così tanto
tempo rinchiusa
nella sua apatia. Decido
di lasciare perdere e chiedo a Wilma di prendermi un caffè. Quando
torno a casa, chiamo Naya un paio di volte, mentre mi tolgo il cappotto
e
appoggio le chiavi all’ingresso. Il
salotto è vuoto e silenzioso e non ho ancora ricevuto una
risposta. “Naya?”
dico di nuovo, entrando in cucina. Lei non
è nemmeno qui, sembra tutto ordinato e calmo, ma
c’è qualcosa che stona. È una
mia impressione, ma trovo che ci sia un non so che di diverso. Osservo
con attenzione tutte le scatole di cereali sulla mensola, poi il bianco
panna
dei mobili e perfino la temperatura interna del frigo e pare tutto
normale
anche se so che non lo è. Mi
accorgo solo più tardi del piccolo oggetto appoggiato sul
tavolo. Lo riconosco
subito perché ne ho visti talmente tanti negli ultimi mesi
da poterne disegnare
uno ad occhi chiusi. Lo
prendo in mano e noto le mie dita tremare. Vengo risucchiato in una
bolla senza
ossigeno, annaspo, cerco di venire a galla ma non ci riesco. Mi si
chiude la
gola e iniziano a fischiarmi le orecchie. Non
c’è
più niente se non il test di gravidanza che ho in mano. È
il
tocco sapiente di Naya che mi sveglia, qualche secondo più
tardi. Abbraccia la
mia schiena, lascia un bacio sulla scapola destra e sento la sua
guancia
appoggiata alla mia camicia. Le sue dita si chiudono
all’altezza del mio
stomaco, intrecciate tra di loro. “Due
lineette” mormora. Ha la
voce emozionata, vorrei sorridere ma non ci riesco. Sono
bloccato. La
rabbia che ho sentito per tutti questi mesi viene spazzata via con due
misere
lineette rosa. Mi
accorgo di star piangendo solo quando Naya scoppia a ridere e mi passa
davanti
per baciarmi, “Allora il tuo amichetto
funziona bene” sibila e allora io la stringo e la bacio
ancora più forte, coi
suoi fianchi che sbattono contro gli spigoli del tavolo e la sua risata
incastrata tra i miei denti. Alla
faccia di chi non ci credeva.
I miei
amici iniziano a raccontare di quella
volta che..., per poi passare al gioco “E
vi ricordate di quando Harry…” e in
un’altra situazione avrei sicuramente
protestato. Stasera evito i commenti sgradevoli, mi concentro sulle
risate
delle persone che h0 intorno e mi lascio trasportare dalle pacche che
mi
lussano la spalla. Non ho
voglia di pensare a che padre sarò, se ne sarò in
grado, se riuscirò a dormire
e su come si prende un braccio un bambino. Stasera voglio solo stare
bene e
tornare a casa da Naya in tempo per baciarla e dormire insieme. Prima
però, devo risolvere una questione. A
metà
serata, Zayn si alza per la sua sigaretta di rito. Non ha nessuno
snapback, ha
tolto l’orecchino all’orecchio destro e non si
è fatto la barba. Lo
seguo fuori dal locale, stringendomi nel mio maglione bianco e
affondando le
mani nei pantaloni della tuta che indosso perché chissenefrega di come sono vestito se sto
per diventare padre. L’aria
di New York
è inquinata ma fresca
ugualmente. Si sentono in lontananza le sirene di una qualche ambulanza
e il
rumore dei taxi indaffarati. Zayn
è
di spalle, ma so che mi ha visto perché so che sta
sorridendo. Faccio
un passo avanti, “Ascolta, Zayn...” “Non
ti
preoccupare - si volta verso di me, il filtro della sigaretta
incastrato tra la
sua dentatura perfetta - non ti devi scusare” “Invece
sì - mi ostino, sospirando - ti ho trattato di merda, non ti
meritavi tutta
quella cattiveria gratuita. Sono stato uno stronzo, mi
dispiace” “Sì,
sei stato un grandissimo stronzo -
concorda, con un sorriso che non riesco a decifrare - ma me lo sono
meritato.
Sai, prima di te non mi ero mai posto il problema di sembrare
grande. Se avessi saputo che il sesso da adulti
è così
bello…” Alzo
subito le mani: “Woah, amico - borbotto e ridiamo entrambi -
certi commenti
tienili per te” Getta
via la sigaretta e mi abbraccia un po’ goffamente, passando
un braccio dietro
il mio collo e scompigliandomi i capelli. “Era
ora che Naya rimanesse incinta - mi dice poi, qualche istante
più tardi - stavi
diventando una palla allucinante. Peggio del solito, per
intenderci” Scoppio a ridere, scuotendo la
testa. Felice. Non so
descrivere quello che provo quando Naya mi dorme accanto con il viso
finalmente
sereno. Il nostro rapporto si è solidificato di nuovo come
se non fosse
successo niente, ci siamo lasciati alle spalle le incertezze e i passi
falsi. Non
ho più dubbi su quello che provo per lei e il solo sapere di
averlo messo in
dubbio mi fa rovesciare lo stomaco. Non
mostra ancora nessun segno della sua gravidanza, siamo solo alla terza
settimana
e ha forse la pancia appena un po’ più rotonda. Sono
tutti elettrizzati, Niall e Louis già scommettono sul sesso
del bambino e Tyra
e Dana già tempestano mia moglie con consigli e aneddoti su
cosa mangiare e
cosa no. Mi
sento più uomo, in un certo senso. Guardo i muri del nostro
appartamento e li
immagino zuppi di tempera, penso i richiami di Naya, i giocattoli
sparsi per il
pavimento e io che inciampo e cerco di non dire parolacce. E
dovrò
fare dei sacrifici, probabilmente. Togliere le sigarette del week-end e
smettere di tornare in Inghilterra ogni volta che posso. Dobbiamo
prendere una
macchina, magari una Monovolume,
una
casa più grande, i pannolini e il libro dei nomi. Dobbiamo
togliere il Nudo di
quel pittore greco che c’è il corridoio,
proteggere le prese elettriche,
mettere il Parental Control sul via
cavo e iniziare a fare uno di quei corsi per genitori inesperti. Prendere
una culla, una carrozzina e spero non una baby-sitter. Togliere
l’abbonamento
allo sport per il pacchetto Baby di
Sky. Aggiustare
la lavastoviglie, mettere in ordine, chiamare mia madre e scegliere il
nome. Nel
letto mi volto verso Naya che dorme ed è tranquilla. Io
sorrido e sono stanco
morto e ci sono un milione di cose
da
fare, ma io e lei siamo ancora insieme e questo è anche
troppo.
“Ti
saluta mia sorella” le sto dicendo, ricordandomi
improvvisamente del messaggio
di qualche ora prima da parte di Gemma. “Gemma! - Naya si blocca di scatto,
spalancando gli occhi e fissandomi - Gemma è
perfetto” Arriccio
il naso, riprendendo a camminare mentre sento il suo sguardo indagatore
su di
me. “Niente
nomi di famigliari e amici - le ricordo - è la
regola” Lei
sbuffa come una bambina e mangiucchia la sua cannuccia rosa, stizzita. Le
osservo le labbra piene e la pelle chiarissima del volto, le ciglia
lunghe. In
silenzio, spero che il nostro bambino prenda tutto da lei. ⁓ ⁓ ⁓ La
prima ecografia è fissata per l’ottava settimana. Il
dottor Davies è un uomo affidabile, ma non riesco comunque a
metabolizzare
altre mani sul corpo di Naya. Cerco
di non darlo a vedere per tutto il tempo in cui, seduti nel suo studio,
ci
spiega quello che avverrà durante la visita. Stringo un
po’ di più le dita
sulla coscia di mia moglie in un gesto territoriale e rimango in
silenzio. Naya
è
agitata mentre si stende sul lettino e anche quando Davies le spalma il
gel
trasparente sul ventre non più piatto. Sono chinato su di
lei, con le mie dita
impigliate nelle sue e il sorriso rassicurante che dice “sono
ancora qui”. L’uomo
inizia a passare la sonda sul suo addome, voltandosi a intervalli
regolari
verso il monitor accanto a lui. Qualche
istante dopo sorride anche lui, “Eccoci qui”
esclama. Naya
s’irrigidisce subito. Sullo
schermo compare un’immagine scura, impossibile da decifrare
senza l’occhio di
un esperto. “Questo
- Davies indica un piccolo bozzolo nero sul monitor - questo
è il vostro
bambino” La
vista mi si appanna un paio di secondi ed è come essere
risucchiati nel vuoto e
tornare a respirare solo grazie alla presa stabile delle mie dita
contro quelle
di Naya. Quello
è il mio bambino, il
nostro bambino. Mia
moglie mi guarda, “Stai piangendo” ride e
singhiozza pure lei. Quando
il dottor Davies ci fa ascoltare il battito, mi sento come quando ho
preso il
diploma, come al mio primo tatuaggio, la nostra prima volta, il mio
primo
colloquio di lavoro, le chiavi dell’appartamento appena
preso, il matrimonio, noi. È
un
cuore che batte forte, con un ritmo calzante, che ti si appiccica da
tutte le
parti. C’è, lo senti, è una presenza. Diventa
il mio ultimo pensiero prima di chiudere gli occhi, con Naya al mio
fianco - sempre - e la foto del
nostro bambino
sul comodino. Farrah
Payne viene al mondo in tre chilogrammi e nove. Ha già
qualche filo di capelli
biondi come quelli di Hannah e il viso rilassante come quello di Liam. Seduto
sulle mie ginocchia, fuori dalla stanza dell’ospedale,
Michael mi racconta di
come sia contento di avere una sorellina. “Anche
se io volevo chiamarla Leila - mi confida, con un adorabile broncio e
gli occhi
cioccolato che osservano con attenzione il piccolo modellino di auto
che tiene
tra le mani - come la mia maestra. Mi sta simpatica” Io e
Naya iniziamo a sperimentare altre prime volte. La
nostra prima torta alla crema, la prima spesa da 300 dollari, la prima
volta in
un ristorante indiano, il primo concessionario di automobili, la prima
culla,
il primo calcio da parte del bambino, la prima cena col mio capo e sua
moglie,
la prima volta in cui tutto sembra completo e al suo posto. La
prima volta in cui sono esattamente dove voglio stare, senza aver paura
che
tutto finisca e non mi rimanga più niente.
Finisce
un mercoledì notte. Mi
sveglio lentamente, senza capire bene il motivo. Apro gli occhi e mi
sembra di
aver dormito non più di un paio di minuti, ma quando mi
volto verso il
comodino, la sveglia segna le 3AM. Faccio
scorrere i palmi delle mani sul materasso per riprendere il controllo
delle
articolazioni e mi blocco di scatto tre secondi più tardi. Accendo
la luce dell’abat-jour e mi alzo velocemente e
c’è del sangue
tra le coperte. Il
materasso è macchiato di una pozza rosso scuro,
così come la camicia da notte
di Naya, sul suo ventre. Lei
continua a dormire, il suo respiro è rilassato, innocuo. Mi
osservo le dita sporche e inizio a tremare violentemente. Non
connetto la mente alle mie azioni, vorrei svegliare Naya e invece
prendo il
telefono. Dovrei portarla in ospedale ma compongo il numero di Niall. Non
sento più niente. Mi
chiudo in bagno, sedendomi sul bordo della vasca e tirando i miei
capelli così
forte da farmi male. Niall risponde al quinto squillo. “Sei
fortunato che io abbia appena finito il turno, amico, chi diavolo
chiama alle…
- singhiozzo, chiudendo gli occhi di scatto e lui si blocca - Harry?
Che
succede?” “Tu…tu
sai quando… - non riesco a parlare -
Non è n-normale il sangue, vero? N-non è normale,
c’è qualcosa…qualcosa che non
va” “Harry
ti prego, spiegami - quasi mi supplica - Cos’è
successo? Dov’è Naya?” “Rispondi! - batto un pugno chiuso contro
la mia coscia tremante, asciugandomi un occhio con il tallone della
mano - Non
è normale il sangue durante la gravidanza” La mia
non è una domanda perché lo so,
ho
bisogno solo di sapere che sto sbagliando. Lo
sento sospirare: “No, Harry - mormora e sembra aver capito
tutto - Non è
normale” Singhiozzo
più forte e la mia gabbia toracica si chiude
improvvisamente. Mi mordo le
nocche per non iniziare a urlare. “Ma ehy!, Harry non è detto che si
tratti di
un aborto - cerca di consolarmi ma è tutto inutile - Portala
in ospedale però.
Adesso” Chiudo
la telefonata l’attimo dopo e quello dopo ancora il telefono
si schianta contro
il legno della porta. Non
riesco a percepire i miei stessi movimenti, il mio respiro, quello che
penso e
quello che effettivamente faccio. Vorrei
mantenere la calma, prendere un paio di minuti per capire cosa cazzo fare e invece ansimo e piango, mi
graffio il volto per cercare di alleviare il dolore e strofino gli
occhi per
seccarli e smettere di stare così male. Voglio
smettere di pensare, voglio smettere di sentire. Non voglio
più niente, non mi
rimane più niente. Sono
vuoto, esattamente come l’utero di Naya. La
sveglio dieci minuti più tardi con le lacrime agli occhi. “Amore...”
sussurro, nella penombra della stanza. Mi
guarda un paio di secondi, sbattendo le palpebre per capire cosa sia
successo.
Mi sembra una bambina che cerca delle risposte, si guarda intorno,
guarda il
mio sorriso spento e poi le coperte intrise di rosso. “Harry…”
sembra una richiesta d’aiuto. “Shhh
-
l’aiuto ad alzarsi, stringendola come se fosse di vetro -
vieni qui” “Mi
fa
male tutto” balbetta e inizia a tremare un po’. La
porto in bagno, la spoglio lentamente e lei si lascia spogliare con
tutta la
fragilità del mondo. Il suo
corpo è spento, come se fosse privo di vita. La
faccio sedere dentro la vasca, le pulisco il ventre sporco, le cosce
rosse e le
mani tremanti. Ha lo sguardo fisso sulla parete davanti a lei e io
capisco solo
in quel momento di star toccando un corpo vuoto.
Quando
chiudo il getto della doccia, Naya scoppia a piangere. Possiamo
fare finta che vada tutto bene e possiamo fare finta che funzioni.
Possiamo
costruirci sopra altri muri, altri pali, altre sicurezze. Possiamo far
finta di
non piangere, si può sorridere e fare l’amore se
questo servisse a qualcosa, ma
con le assenze non ci puoi fare niente. Le
assenze son bastarde. Le assenze sono costanti che ti ricordano il
posto vuoto,
il bozzolo nero sul monitor. Le
assenze sono fatte per ricordarti ogni
giorno che ti tocca sopravvivere anche senza. Senza
qualcuno. Senza
qualcosa. Nel mio
caso, senza tutto. Non
riusciamo più a guardarci negli occhi. I miei sono sempre un
po’ troppo rossi
per via delle lacrime che verso tra la pausa pranzo e una riunione,
quelli di
Naya sono spenti, persi da qualche parte. Inizio
ad addormentarmi sul divano e a svegliarmi col mal di schiena, salto i
giovedì
sera con gli altri e piango. Piango
tantissimo. Piango anche per Naya. Lei non
piange, ogni tanto i suoi occhi si inumidiscono mentre sta cucinando ma
nient’altro.
È come se fosse bloccata. Smettiamo
di parlarci da un giorno all’altro. Capisco
che c’è una differenza sostanziale tra
l’essere vicini e lo stare insieme. Per
esempio, mentre guardiamo Oprah in tv, le nostre mani quasi
si sfiorano. Siamo
vicini, ma non siamo insieme. E mi
viene da piangere ancora se penso che forse avevano ragione gli altri. Ma dai?
Ancora insieme? Non lo
so. ⁓ ⁓ ⁓
Naya
non riesce a reagire. Rifiuta le attenzioni di sua sorella, esce di
casa solo
per consegnare gli articoli in redazione e smette di rispondere alle
chiamate
sul suo cellulare. Passa
le sue giornate in silenzio, lo sguardo fisso contro qualcosa senza mai
vederlo realmente e le gambe
sempre più
magre. “Parlami”
la supplico una sera. Mi
dà
le spalle e subito la sento irrigidirsi tra le mura del corridoio. “Guardami,
Naya - dico ancora, facendo un passo avanti - Dimmi qualcosa.
Reagisci” “Avrei
voluto che avesse il colore dei tuoi occhi” sussurra
solamente. Ed
è
straziante. E non
ci rimane più niente.
Io
invece avrei voluto che avesse i suoi occhi solo per dirgli:
“Hai gli occhi più
belli del mondo”. Volevo che avesse la sua
creatività, i suoi zigomi, il naso
elegante e la sua risata a tratti fastidiosa. Avrei
voluto insegnargli ad andare in bicicletta, e leggergli le favole della
buonanotte per farlo stare meglio. Avrei voluto che mi stringesse forte
durante
i temporali e avrei voluto sgridarlo quando sarebbe entrato nel nostro
letto. Avrei
voluto dargli un nome importante, non comune perché sarebbe
stato unico. Avrei
voluto averlo sulla scrivania del mio ufficio, in braccio a sua madre,
entrambi
che sorridono e sorridono a me. Forse
c’è qualcuno che ha pensato “Si
può sempre riprovare”, ma come? Non
riusciamo ad andare avanti neanche con la forza di entrambi, come
possiamo solo
pensare di riprovarci? Ho
sentito il suo battito, il suo
cuore.
Un cuore che ha smesso di battere davanti ai miei occhi, sotto il mio
udito. Non si
sanno le cause, è sempre difficile accertarsene e in
più a nessuno importa
davvero. Abbiamo
perso un figlio. Un
figlio che forse avrebbe avuto gli occhi più belli del
mondo. Un figlio che gli
occhi non li ha mai aperti. E anzi,
forse dire ‘perso’ è sbagliato. Perdere
qualcosa che puoi ritrovare da qualche parte. “Perso”
si usa per chi ha ancora una speranza. E noi? E forse
è perso
perché perdere è molto meno
doloroso. Non
è
perso, è solo che non c’è
più. Arriviamo
al capolinea da un giorno all’altro, senza neanche
accorgercene. Non ci
tocchiamo più, evitiamo di guardare la televisione insieme e
io finisco per
fumare tre pacchetti di sigarette in un week end. Nessuno
riesce a capire, “Bisogna andare avanti” dicono, ma
non ti spiegano come fare. Ti
danno i consigli, ti incitano a seguirli, ma poi? Naya
smette di provarci molto prima di me, non so esattamente come, ma
smette. E penso
che portare avanti una relazione con questo vuoto sia autodistruttivo. “Non
abbiamo
perso solo un figlio - sussurra una notte, nel buio della nostra stanza
-
abbiamo perso tutto” Io ho
perso lei. Le
carte del divorzio le firmiamo a settembre, nella sala riunione del mio
ufficio, con il suo avvocato e il mio. Naya ha
lo sguardo fisso contro i palazzi di New York fuori dalla vetrata.
Annuisce
quando i legali stilano i suoi diritti e firma meccanicamente come se
stesse
decidendo come vestirsi e non come se stesse mettendo fine al nostro
matrimonio. I suoi
capelli sono lunghi, ormai le sfiorano i seni. La ricrescita
più scura mette in
evidenza il colore grigio dei suoi occhi. Non ci
scambiamo uno sguardo, una parola. Vorrei
dire qualcosa, vorrei dire che mi dispiace, che non è colpa
sua. Vorrei dire
che mi mancherà come l’aria, che non ne
troverò di donne come lei, che lei e
anzi, loro, saranno gli unici.
Sempre. Ma
è comunque
tutto inutile. Non
amerò mai nessuno come ho amato Naya. Ogni
tanto mi chiedo quanto possa far male amare così tanto,
così tanto da
distruggersi. Posso
uscire con un sacco di donne e posso anche provare a essere innamorato
di una
di queste, ma non sarà mai la stessa cosa. Abbiamo
venduto l’appartamento, io ho trovato un loft vicino
all’ufficio e lei si è
trasferita temporaneamente da sua sorella. Nella
mia testa, nelle mie azioni, nelle mie parole, ci sarà
sempre quel puntino
nero, quel bozzolo. Un’assenza.
Una costante. Non
amerò mai nessuno come ho amato Naya e il nostro bambino. E se
mai lei dovesse tornare, sarò sempre qui, a leccare le sue
ferite e a
condividere i vuoti per riempirli con i nostri baci che dicono ancora
“guarda
che non ti lascio neanche se me lo chiedi”. Ci
sarò
sempre, e da qualche parte, saremo sempre noi due. Noi tre.
Alla
faccia di chi non ci credeva. |