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Autore: ___Ace    17/02/2014    9 recensioni
Non c’è mai nulla di sicuro. Un giorno sei vivo e quello dopo sei morto. Niente è certo, niente è scritto, niente è indelebile. E allora, cosa ti rimane? Perché vivere fuori se si muore dentro?
La vita apparentemente perfetta di Eustass Kidd cambia in un istante. Il suo cuore l’attimo prima funziona e l’attimo dopo si blocca. Quando riprende a battere, la sua esistenza si trasforma e la sua strada incrocerà quelle di altre persone con problemi e punti di vista differenti. Speranze, sogni, ideali, tutto verrà condiviso, giudicato e, forse, esaudito.
Oltre a questo, però, si scontrerà anche con la vita apparentemente pacata di Trafalgar Law e, se prima Kidd era convinto di non aver bisogno di nessuno aiuto per andare avanti, si dovrà ricredere. Perché potrebbe scoprirsi bisognoso di un cuore nuovo per sopportare quel saccente e malefico bastardo se non vuole finire all’obitorio prima del previsto.
Kidd/Law.
Ace/Marco.
Penguin/Killer.
See ya.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2.

 

Uh? Ma dove sono finito? Aspetta, che piano è questo? Che, il decimo? No, no, no, ho sbagliato proprio! Va bene, fa nulla, adesso torno indietro, magari per strada incontro qualcuno che vuole aggregarsi a me. Certo che Kidd poteva anche accompagnarmi invece che restarsene a dormire. Dannazione, dovevamo andare alla ricerca del quinto elemento un fottuto mese fa e nessuno si è ancora deciso a prendere parte attiva nel gruppo. Insomma, che egoisti! Prima perché devono litigare, poi perché uno deve fare gli esami e l’altro rintanarsi in camera, ma che diavolo! L’avrei chiesto a Kira-chan, ma lui non può ancora camminare. Che peccato, sono mesi che ha quei maledetti affari a ingessargli le gambe, si può sapere quando si decidono ad iniziare con la sua riabilitazione? Poveretto, di questo passo difficilmente l’avrò affianco tanto presto. Mhm, bene, da quella parte dovrebbero esserci gli ascensori. Toh, ma guarda! Quei muri sono tutti colorati e dipinti! Che bello! Voglio vederli meglio, non sapevo si potessero imbrattare le pareti! Devo farlo anche io!
Mi diressi verso quella che sembrava una sala d’attesa trasformata in un’insolita sala giochi, anche se il silenzio che vi regnava stonava molto con l’allegria che i colori infondevano alla prima occhiata. Mani, scritte, auguri, battute e disegni di ogni genere erano raffigurati su quattro pareti e mi facevano sentire come se fossi appena capitato dentro un asilo pieno di bambini, anche se non c’era anima viva in quel momento. In particolare, il muro rivolto verso nord era completamente dedicato a un dipinto che mi mozzò il fiato, tanto era bello e particolareggiato. Per non parlare dei colori e del significato che poteva avere. Un’enorme e imponente fenice con le ali spiegate si alzava in volo proprio sopra alla testa del letto di un paziente che notai solo allora, stupendomi non poco e incuriosendomi l’attimo dopo, tanto che mi avvicinai per scoprire di chi si trattasse. La sedia a rotelle cigolò, ma il rumore non sembrò destare sospetti nel ragazzo che sembrava profondamente addormentato. Aveva l’aria rilassata e il volto coperto di lentiggini lo faceva sembrare un ragazzino. Probabilmente doveva essere appena maggiorenne, o giù di lì, e un groviglio di capelli corvini era sparpagliato sul cuscino immacolato. Respirava regolarmente e alcuni fili collegati ad una macchina accanto a lui sparivano sotto alla maglia del pigiama, utili a tenere sotto controllo il battito cardiaco e pronti ad annunciare qualsiasi cambiamento. Li conoscevo bene, anche Law era stato sottoposto a quegli affari quando aveva avuto una ricaduta.
Poco distante dal letto vi era un comodino con alcuni oggetti personali, tra cui una bottiglia d’acqua, un calendario con i giorni passati segnati e una foto che ritraeva un gruppo di mocciosi sorridenti e sghignazzanti in mezzo ad un prato. Guardandola meglio potei distinguere quello che doveva essere il tizio sdraiato a letto in quel momento.
Un fruscio di coperte attirò la mia attenzione e mi voltai a guardare il viso del poveretto sotto e lenzuola.
«Come sono maleducato» iniziai a dire, «Io sono Penguin, piacere di conoscerti. Tu come ti chiami? Ace? Che bel nome, mi piace! Sai, lascia che te lo dica, la tua stanza è una bomba e quel disegno è fantastico! Chi l’ha fatto? Un tuo amico, capisco. Beh, deve essere bravo, dico davvero, e dov’è adesso? Ah, anche lui sta qui in ospedale? Meglio così, magari lo becco in giro. In che reparto? Sul serio? Ma allora lo conosco! Cioè, l’ho visto gironzolare da quelle parti, se ne sta sempre da solo e per conto suo. Ha l’aria un po’, come dire, triste? Apatica? Oh, se è come dici capisco perché è in quello stato, mi dispiace molto. E loro chi sono?» chiesi, indicando la foto di poco prima, «I tuoi fratelli? Così tanti? All’orfanotrofio? Dunque tu sei stato adottato, ma hai comunque continuato a seguirli e a stargli accanto in questi anni? Sei così altruista, i miei complimenti. Come sono carini e ce ne sono anche di più grandi, sembrano simpatici. Il primo ha un ciuffo assurdo, senza offesa. Thatch, che strano nome, quasi quanto i capelli. Quello accanto con i baffi, invece? Vista? Fa a fette qualsiasi cosa, interessante, cioè, forte, è un bel passatempo, credo. E quel maschiaccio davanti a lui? Una femmina! Scusami, non volevo offenderla, ma non mi ero reso conto che… Oh, d’accordo, allora sto tranquillo se a prima vista si confondono tutti. Ma guarda, questo deve essere il ragazzo dei graffiti di cui mi hai parlato. Quindi è qui che l’hai conosciuto, tutto chiaro. Ah, ehm, vive con te? Non pensavo foste… ah, certo, certo, tuo fratello acquisito pure lui. Scusami, ma sai com’è, insomma… beh, lasciamo perdere. Dai, non ridere, ho fatto una figuraccia, lo so, dimentichiamolo. Hanno dipinto loro la tua stanza, immagino. Ma si, ovvio, dovevo capirlo. Un augurio di pronta guarigione. Come sono stati dolci, vorrei anche io una famiglia come la tua, si preoccupano molto per te. Ma che dici? Vedrai che andrà tutto bene e sono sicuro che li riabbraccerai tutti molto presto, fidati, me lo sento. Hai una volontà forte, non ti abbattere. Figurati, ricordati che sono gli ottimisti a fare il mondo, i pessimisti non ci provano nemmeno. Senti, mi sei simpatico, Ace, quindi te lo chiedo: ti va di fare parte di un gruppo? Siamo in quattro per ora e qui ci sono solo io, ma tra noi abbiamo uno che vuole diventare chirurgo; un motociclista spericolato, e bellissimo, lasciamelo dire… Cosa? N-no, c-che ti salta in mente? Non mi piace, e-ecco, è complicato… Basta, andiamo avanti! Dicevo, lui e poi una specie di Drag Queen con il ciclo, si, parlo di un maschio. Conto di arruolare altre due persone per completare l’opera. Sai, se si hanno degli amici su cui contare è più facile affrontare la vita, non ti pare? Vedo che siamo d’accordo, quindi accetti? Si? Wow, sono contentissimo! Devo dirlo agli altri! Se più tardi ripasso a salutarti è un problema? Magari trovo anche questo tuo amico. Come hai detto che si chiama? Marco, molto bene. Ah, non sai quanto mi ha fatto piacere incontrarti, e pensare che sono capitato da queste parti per caso! Che fortuna ho avuto. Tu da quanto sei qui? Cosa? Quasi otto mesi? Accidenti, sono parecchi; io sono qui da tre e già non ne posso più, ma non posso farci nulla, vedi?». Gli indicai la mia gamba mutilata, alzando un po’ la stoffa del pigiama per evidenziare il moncherino, «Me l’hanno tagliata. Buffo vero? Che? Ma no, figurati, ci ho fatto l’abitudine, più o meno. Non è così male e la sedia a rotelle è un ottimo mezzo di trasporto quando impari come sfruttarla al meglio, sono serio. Non provo dolore e poi l’ho persa facendo una buona azione, quindi sono in pace con me stesso, che è la cosa più importante. Uh? Ma dai, non farmi ridere, non sono un eroe, ho solo evitato ad un mio amico un brutto incidente, infatti ne è uscito illeso. Smettila, mi fai arrossire, non sopporto i complimenti. Certo, va bene, ti lascio riposare adesso e ripasso più tardi come promesso con gli altri, sempre se riesco a recuperarli. Ti avviso, sembrano avanzi di galera, ma quando impari a conoscerli non sono male, maleducazione a parte. Allora ciao Ace, a dopo! Sono felice di averti come compagno!». Così, ammiccando e salutandolo con la mano, uscii da quella che era la sua stanza e mi avviai verso gli ascensori tutto allegro e sorridente. Avevo appena reclutato un nuovo componente grazie ad un colpo di fortuna e questo sembrava anche simpatico e gentile. Certo, bisognava essere bravi per capirlo, ma non era male, anzi, molto tranquillo e loquace. Chissà cosa avrebbero detto gli altri.
Mentre riflettevo con entusiasmo su tutto ciò, il ragazzo nella camera, sorrise nel sonno.
 
*
 
Sbuffai seccato, alzando gli occhi al cielo e voltandomi dall’altra parte del letto, rivolgendo il mio interesse alla parete spoglia e fissando un punto indefinito fuori dalla finestra, tappandomi le orecchie e coprendomi la testa con il cuscino. Tutto pur di estraniarmi dal mondo e ridurre al minimo la voce di quel saccente mucchio d’ossa.
Da quando l’avevo conosciuto, un mese prima, mi aveva letteralmente rovinato l’umore e tutte le giornate seguenti. Non avevo mai conosciuto nessuno di più insopportabile, pungente, menefreghista e irriverente come lui. Invece di spegnere la fiamma della mia rabbia con le sue battutine, la alimentava ed era sempre una lotta accesa per aggiudicarsi l’ultima battuta o il dominio l’uno sull’altro. Certo, trenta giorni erano relativamente pochi per dire di conoscere una persona, ma sentivo che non saremo mai e poi mai andati d’accordo, anzi, nemmeno volevo provarci. Non aveva niente di interessante e non valeva la pena perdere tempo prezioso per uno con il suo caratteraccio. Per non parlare dell’aspetto inquietante, dannazione!, uno zombie era meno pauroso e di sicuro più sorridente. Me lo ritrovavo tra i piedi senza nemmeno accorgermene, sbucava all’improvviso, silenzioso e con quel ghigno a storpiargli le labbra che lo rendeva ancora più sinistro e cupo. E quello sguardo. Dio, a volte mi era sembrato di avere accanto il Diavolo in persona. Con quegli occhiacci grigi e freddi da fare invidia addirittura alla stagione invernale stessa. Gli occhi erano il male minore e potevo sorvolare persino sulle occhiaie profonde e sui capelli scuri, anzi, dire scuri era dire poco perché questi erano di un nero talmente nero che non ero più tanto sicuro che il colore stesso potesse essere quello più scuro nella scala cromatica. Doveva per forza essercene uno che descrivesse meglio quella sua tonalità, tipo qualcosa come nero notte o, che cazzo, nero Trafalgar, ecco. Insomma, se avesse voluto avrebbe persino potuto sembrare appena passabile, ma aveva dovuto per qualche contorta ragione rendersi ancora più tetro. Seriamente, chi andava in giro con la scritta ‘death’ tatuata sulle nocche delle dita? Assurdo, semplicemente assurdo e non gli avrei mai creduto se mi avesse detto che l’aveva fatto per seguire uno stile di vita o un genere musicale. A me piaceva il metal pesante, ma andiamo, mica mi vestivo come uno sbandato; borchie, catene, vestiti bucati e capelli a parte. Quello era pazzo come il suo amichetto. Dovevano stare in psichiatria o in manicomio, ne ero certo.
«Eustass-ya, mi stai ascoltando?» fece con voce infastidita dal mio poco interesse, «Guarda che sto parlando della tua situazione e dovresti fare attenzione. Non tutti hanno un cuore debole come il tuo».
Chiusi gli occhi e iniziai a contare fino a dieci, conscio che avrei dovuto continuare almeno fino a cento dato che per calmarmi e ignorare le insinuazioni di quel bastardo dovevo impegnarmi fino in fondo. In qualche contorto modo quell’impiastro di Trafalgar era riuscito ad appropriarsi di una copia della mia cartella clinica e mi era piombato in stanza, Dio solo sapeva come, con tutte le scartoffie in mano e, senza chiedere il permesso, si era accomodato su una sedia, troppo vicino al mio letto e alle mie orecchie, e aveva iniziato a leggere ogni riga di quelle pagine, facendo commenti, insinuazioni e dicendomi cosa secondo lui andava fatto. Ma chi cazzo si credeva di essere? Il mio medico personale? Infermiera sarebbe stato meglio, almeno l’avrei sbattuto al muro senza tante cerimonie.
«Possibile che tu non ti sia mai fatto qualche esame per controllare la tua salute? Tralasciare così il tuo organismo, che spreco!» stava commentando, per l’ennesima volta. L’avrei scannato vivo, senza dubbio, poi l’avrei nascosto all’obitorio assieme al resto dei morti. Quello era il suo posto.
«Questo si che è divertente» sghignazzò dopo alcuni minuti di silenzio, durante i quali avevo iniziato a sperare che gli fosse venuto un qualsiasi malore e che l’avesse stroncato sul posto, «Alla prova dello sforzo hai resistito davvero così poco? Che delusione».
«Chiudi quella boccaccia!» ringhiai, mettendomi seduto con uno scatto e cercando di strappargli di mano tutti i documenti riguardanti la mia situazione, senza però riuscirci e rischiando di sbilanciarmi e cadere dal letto. Per tutta risposta, l’altro si allontanò di qualche centimetro per assicurarsi di essere fuori dalla mia portata e, sfoggiando un ghigno sadico, gettò il tutto ai suoi piedi, incrociando le braccia dietro la testa e allungando le gambe per posare i piedi sul materasso.
«Come sei irascibile, Eustass-ya» sfotté, «Stavo solo cercando di aiutarti».
«Al diavolo, non ho bisogno del tuo aiuto. Io sto benissimo e se mi verrà un infarto sarà solo colpa tua!» lo accusai, fulminandolo con lo sguardo per poi scacciare i suoi piedi con una manata infastidita.
«Ma dai, ti faccio battere così forte il cuore? Come sei romantico» ironizzò soddisfatto, facendomi arrossire per la rabbia.
Rimasi a fissarlo a bocca aperta per qualche secondo, incapace di ribattere prontamente. Come si permetteva quello stronzo di prendersi gioco di me in quel modo e senza la minima preoccupazione? Infame, lo odiavo con tutto me stesso!
Stavo valutando le possibilità che avevo di saltare giù dal letto e acciuffarlo per sbattergli quella testaccia di cazzo contro il muro, quando decise di fare il suo ingresso il rompi coglioni per eccellenza. Sul serio, quel piccoletto superava addirittura Trafalgar, anche se il suo livello di stronzaggine era impossibile da battere.
«Oh, Penguin, giusto in tempo. Eustass-ya stava per commettere un omicidio» lo salutò a quel punto quella piaga che aveva rimesso le sue zampacce sotto al mio naso, approfittando della mia distrazione. Gli rivolsi un’occhiata di fuoco.
«Eustass-ya può ucciderti lo stesso e poi eliminare il testimone» lo ammonii minaccioso, ma il mio intento di impaurirlo scemò quando l’invalido di turno iniziò a parlare a voce alta e con entusiasmo malcelato. Ero certo che, se avesse potuto, si sarebbe messo a saltare e ad abbracciarci.
«Non indovinerete mai cosa è successo! Sono così contento e anche voi dovreste esserlo!».
«Cosa gli hanno dato?» farfugliai, più a me stesso che ad altri, ma Trafalgar sembrò credere che gli avessi appena rivolto la parola di mia spontanea volontà.
«Facci l’abitudine, tende ad essere molto espansivo quando è di buon umore».
«Neanche avesse scopato con Killer!» sbottai, stupendomi non poco nel sentire il moro accanto a me sbuffare divertito, trattenendo una risata e voltandosi da un'altra parte per non essere notato. Ma pensa, allora aveva anche lui i suoi punti deboli, buona a sapersi.
Tornai a fissare il moccioso che non aveva smesso un attimo di ululare allegro, blaterando frasi senza senso e tirando in ballo la stronzata di formare un gruppo, argomento che mi aveva assillato da un mese a quella parte e sapere che avrei dovuto averci a che fare tutti i giorni fino a quando non mi avrebbero dimesso mi faceva sentire male, malissimo. Quell’idiota era davvero convinto che io facessi parte di quella combriccola di matti e che fossi loro amico e pretendeva che gironzolassi per l’ospedale con loro, anche se uno si faceva vedere solo quando voleva e un altro non poteva muoversi, ingessato dalla testa ai piedi. Risultato? Dovevo sorbirmi Penguin da solo e la cosa non mi andava affatto. Fortunatamente in quelle ultime settimane ero stato sottoposto ad un mucchio di esami e così avevo perso tempo, inoltre, ogni volta che vedevo il brutto muso di Trafalgar, mi sentivo ribollire il sangue e finivo per incazzarmi per un nonnulla con lui, così me ne andavo da un’altra parte per non averlo intorno. Funzionava, solo che me lo ritrovavo puntualmente fra le palle in ogni caso.
«Abbiamo un nuovo componente!» esultò infine, avvicinandosi pericolosamente al bordo del mio letto, «Sta al decimo piano e si chiama Ace! Alzatevi adesso, così andiamo a salutarlo e ve lo presento!». Così dicendo mi afferrò per un braccio e fece forza nell’intento di tirarmi su. Inutile dire che non mi spostò di un centimetro e che sulle mie labbra fece capolino un sorrisetto soddisfatto. Povero illuso.
«Sparisci microbo» mormorai annoiato e, con uno spintone, spedii la sua carrozzella all’indietro, facendola cozzare contro il muro, tanto che il piccoletto rischiò di sbalzare per terra con tutto il peso. Fortunatamente per lui ciò non accadde e sul pavimento ci finì solo il suo stupido cappello.
«Bravo, ti senti potente adesso?» mi sfotté Trafalgar, battendo le mani in modo sarcastico e scuotendo il capo esasperato, facendomi alzare gli occhi al cielo per chiedere la grazia di vederlo scomparire il più presto possibile.
Penguin, invece, non dava segno di volersi arrendere e ritornò alla carica, stavolta attaccandosi al braccio del suo compare e iniziando a tirarlo verso di sé. Inaspettatamente a quello che credevo, il ragazzo si alzò di sua spontanea volontà, stiracchiandosi inarcando la schiena e raccogliendo le scartoffie riguardanti la mia salute, riordinandole e premendosele al petto come a voler far intendere che non se ne sarebbe separato.
I loro occhi si posarono su di me nella muta richiesta di seguirli e rimasero a fissarmi per una decina di minuti, persino quando decisi, con un grugnito stizzito, di alzarmi e infilarmi i pantaloni della tuta abbandonati ai piedi del letto. Non mi vergognai di mostrarmi mezzo nudo, non ci feci caso, non ero uno timido e pudico, per quanto mi riguardava potevano guardare e rodere, uno spettacolo del genere non si vedeva tutti giorni, soprattutto in ambienti come quello.
Quando fui pronto rivolsi loro un ghigno carico di aspettativa che venne però smontato nel giro di qualche secondo da entrambi perché Penguin sembrò non averci fatto caso e schizzò fuori dalla porta iniziando a parlare d’altro, mentre Trafalgar aveva l’espressione da perfetto indifferente e, con un’alzata di spalle, si avviò verso l’uscita, iniziando a sfogliare la mia cartella e mandandomi in bestia. ‘Fanculo, non sapevano apprezzare un capolavoro quando lo vedevano.
«Annotazione personale: abbassare l’ego smisurato di Eustass-ya».
«Cosa hai detto?» sibilai velenoso, ottenendo in cambio un sorriso tanto falso quanto viscido.
«Niente».
Giuro che ti sopprimo, maledetto bastardo. Hai poco da fare quella faccia soddisfatta, tanto prima o poi ti darò una lezione che non dimenticherai tanto facilmente, parola mia! Te le faccio ingoiare quelle scartoffie, poi ti sbatto al muro e ti faccio urlare in tutte le lingue del mondo e solo allora ti spezzerò le ossa. Dannato pezzo di…
«Kira-chan!».
Mi riscossi dai miei pensieri non appena i miei timpani esplosero a causa dell’urlo disumano che fece Penguin, alzando le mani verso il cielo come se davanti a lui fosse appena apparsa la Santa Vergine. Sbigottito guardai nella direzione in cui prese a lanciarsi a tutta birra con la sedia a rotelle, notando un tizio pieno di bende a fasciature che, accortosi della minaccia che incombeva su di lui, tentava disperatamente di fare marcia indietro per svignarsela. Peccato che non sembrava avere molta dimestichezza con quella carretta, quindi non riuscì a fare molto, soprattutto con solo un braccio libero, e venne inevitabilmente investito dalla felicità del piccoletto che, in un moto di confidenza e fratellanza, accostò la sua vettura a quella del biondo e lo abbracciò di slancio, facendomi ridere di fronte alla smorfia di dolore che fece l’altro per la stretta subita. Evidentemente le sue condizioni non erano così rosee, ma almeno poteva uscire da quella sua stanza anonima e silenziosa.
«Kira-chan che bello vederti! Puoi uscire, quindi? Eh, puoi? Vuol dire che da oggi in poi potremo girare per l’ospedale assieme! Vedrai, ti insegnerò tutte le scorciatoie, come curvare senza perdere la stabilità, come andare più veloce e tutti trucchetti simili! Ci divertiremo un sacco ne sono cer…».
«Frena, frena, frena!» lo apostrofò Killer, impallidito per l’orrenda notizia che aveva appena ricevuto, «Non ho la minima intenzione di…».
«Così è questo Killer-ya?» si intromise Trafalgar quando li raggiungemmo, seguito a ruota dalla mia espressione divertita e incuriosita da tutto ciò. Mi stava simpatico Killer, forse era stato la prima persona sulla faccia della terra a non infastidirmi appena l’avevo conosciuto e mi dispiaceva davvero molto che avesse una palla al piede come spasimante, ma la cosa aveva un che di estremamente assurdo, quindi avevo deciso che mi sarei goduto un po’ le loro scenate per poi intervenire e salvarlo da quel tipetto soffocante.
Penguin si voltò verso di noi annuendo convinto e con gli occhi che brillavano per l’emozione. «Si, si! Hai visto, Law? Te lo dicevo che si sarebbe unito a noi molto presto! Giusto in tempo per andare a trovare Ace».
«Vedo» mormorò solamente Trafalgar, superandoci e dirigendosi verso le scale, «Prendete gli ascensori, ci vediamo al decimo piano e poi ci farai strada, d’accordo?» sentenziò, mentre l’espressione sul viso di Penguin si faceva sempre meno affidabile e quella di Killer sempre più preoccupata. Probabilmente il piccoletto non stava nella pelle per passare qualche minuto completamente solo con il suo sogno ad occhi aperti. Quest’ultimo, per tutta risposta, sembrava preso dal panico e cercava invano di trovare qualche scusa per defilarsi. Tutto fu inutile perché la sua sedia a rotelle fu arpionata da quel pazzo col cappello che lo trascinò tutto raggiante verso la sua meta, più che deciso ad ottenere quello che voleva.
Repressi un brivido iniziando a seguirli. Forse dovevo davvero fare qualcosa per aiutare Killer.
«Eustass-ya, non prendi le scale? Ti facevo più sportivo e intrepido».
Strinsi i denti, deviando dagli ascensori e superando quell’impiastro, iniziando a salire i gradini velocemente. Se credeva che mi sarei tirato indietro davanti a quella sua sfida si sbagliava di grosso. Anzi, sarei persino arrivato per primo!
Erano solo quattro piani, potevo farcela benissimo.
 
*
 
«Va meglio adesso?».
Credo di si, avrei voluto dire, ma rimasi in silenzio e risposi con un sospiro profondo, tenendo ancora la testa tra le ginocchia e la schiena appoggiata al muro freddo che, in qualche modo, calmava il bollore che mi era corso lungo le vene qualche attimo prima.
Avevamo da poco superato gli ascensori del nono piano ed ero arrivato fin lì senza il minimo sforzo, seguito a ruota da Trafalgar che, anche se qualche scalino più indietro, sembrava intenzionato a non mollare. Stava andando tutto bene, stavo pure vincendo, quando un violento capogiro mi aveva fatto vacillare e perdere il controllo del mio corpo, mentre un violento tremore mi aveva fatto sussultare e ritrovare accasciato carponi a terra e con il fiato corto. Le mani mi tremavano e mi sembrava che l’aria che inalavo non arrivasse in modo preciso ai polmoni. Tra tutto quel casino, avevo creduto per un attimo che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro.
Non l’avrei mai ammesso, ma era stato solo grazie a Trafalgar se ero riuscito a calmarmi e a riprendere il controllo. Si era accovacciato accanto a me e mi aveva fatto sedere sulle scale, con calma e senza fretta, facendomi piegare le ginocchia verso il petto e, con delicatezza, guidando la mia testa a contatto con esse in modo da fermare le vertigini e il tremore. Il marmo freddo e le pareti avevano contribuito a tranquillizzarmi e un’invitante bottiglietta d’acqua che avevo svuotato per metà era magicamente apparsa sotto al mio naso.
Mentre aspettava che mi calmassi era andato alle macchinette del nono piano per prendermi qualcosa da bere, tornando alla velocità della luce per assicurasi che le mie condizioni non fossero peggiorate e sorridendo soddisfatto quando avevo riacquistato un colorito più intenso, nonostante avessi la carnagione chiara di mio.
«Da ora in poi basta scale» fece categorico, ma con un tono di voce meno astioso del solito e quasi ironico, «La morte sarebbe una liberazione per te ed io non ho intenzione di lasciarti andare in pace tanto presto». Una frase del genere poteva assumere tante sfumature e significati diversi, ma detta da lui appariva in un solo e unico modo plausibile. «A meno che tu non sia così debole».
Ghignai involontariamente, incapace di trattenermi, «Mi stai minacciando, sfidando o cosa?» gli chiesi, divertito dall’idea di aver appena trovato il mio personale tormento.
«Ti sto dando un motivo per combattere» dichiarò, sghignazzando a sua volta e allacciando il suo sguardo al mio quando decisi finalmente di alzare il capo. «Anche se non ha un briciolo di moralità, è sempre meglio di niente».
La determinazione nei miei occhi lo fece sorridere ulteriormente e, in quel momento, sancimmo il nostro silenzioso accordo. Nessuno dei due sarebbe morto, pena la consapevolezza di essere stati vinti dall’altro.
«Avanti» disse dopo qualche attimo di stallo, porgendomi la mano per aiutare ad alzarmi, «Gli ascensori sono laggiù, l’ultimo piano lo faremo con quelli».
Ignorando la sua mano tesa mi rialzai da solo, spolverandomi distrattamente i pantaloni e respirando prontamente, felice di constatare che l’aria arrivasse dritta, dritta nei miei polmoni, donandomi sollievo, mentre il mondo era ritornato immobile, smettendo di girare su se stesso come una trottola. Trafalgar sbuffò per poi precedermi e farmi strada.
Lo affiancai, affondando le mani nelle tasche e notando con immenso piacere che ero più alto di lui nonostante la differenza di età che, se solo ci pensavo, ancora mi infastidiva. Dopotutto, nonostante rimanesse un autentico stronzo, mi aveva aiutato. Chissà, forse sul suo conto mi ero sbagliato e l’avevo giudicato troppo in fretta. Magari, da qualche parte nel suo animo, era gentile e altruista.
Una volta all’interno dell’ascensore mi appoggiai stancamente alla parete, mentre lui premette il pulsante con il numero dieci. Le porte si chiusero automaticamente, lasciando che il silenzio ci avvolgesse e dandomi modo di riflettere e decidere se avessi dovuto ringraziarlo, dandogli una seconda possibilità, o fare finta di nulla e fingere che non fosse accaduto nulla.
«Eustass-ya, piantala di fissarmi» sbuffò, voltandosi a guardarmi e facendomi rendere conto che l’avevo osservato per tutto quel tempo senza nemmeno accorgermene, facendogli così intendere cose sbagliate e fuori luogo, «Non avrai mica intenzione di baciarmi come fanno nei film, spero» dichiarò, accompagnando il tutto con un ghigno canzonatorio. Ovviamente doveva rovinare tutto e mandare a puttane la sua reputazione e l’idea di bravo ragazzo che per un misero istante mi aveva dato.
No, questo qui è uno stronzo e io col cazzo che lo ringrazio. Al diavolo lui e la sua gentilezza.
Mi imbronciai, voltandomi dall’altra parte e ignorando la risata che mi giunse alle orecchie poco dopo e che mi fece sentire ulteriormente idiota. Andiamo, mica l’avevo guardato perché volevo baciarlo.
Come gli é venuta in mente un’idea simile? Nemmeno sotto tortura! Nemmeno per un culo così… Oh, maledizione, perché ci sto pensando adesso? Per quale assurdo motivo? Lo odio, lo odio, lo odio!
Strinsi i pugni, nascondendo le mani dietro alla schiena, e mi imposi di non aggredirlo, avrei solo contribuito a divertirlo ulteriormente e avrei fatto esattamente il suo gioco. Dovevo calmarmi, invece, e essere superiore, allora avrebbe smesso di infastidirmi e se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe.
«Dì un po’» disse ad un tratto, facendomi sussultare nel ritrovarmelo accanto, anche lui appoggiato alla parete dell’ascensore che, invece di salire, stava scendendo. Probabilmente qualcuno  lassù aveva deciso di punirmi e di lasciarmi più tempo del previsto in compagnia di quel demonio.
«Che vuoi?» borbottai, guardandolo con la coda dell’occhio.
«Non vorresti baciarmi?» domandò schietto, fissando un punto dritto davanti a sé e parlando con tranquillità, come se la sua fosse una domanda qualsiasi, come se mi avesse appena chiesto di che colore erano i miei calzini. Mi stupì un poco, ma decisi di prenderlo sul serio e pensai seriamente di poterlo fare. Dopotutto, cosa importava? Quello che mi trattenne, però, fu il mio fortissimo senso dell’orgoglio. Non potevo di certo dargliela vinta così facilmente.
«Quindi vuoi un bacio». Non era una domanda la mia, solo una semplice constatazione che mi fece gongolare. Per una volta avevo io il coltello dalla parte del manico e l’avrei punzecchiato un bel po’ prima di accontentarlo.
«Non ho intenzione di pregarti, caro Eustass, quindi rispondi alla mia domanda: si o no?».
«Non così in fretta, Trafalgar» lo avvisai, sorridendo e chiudendo gli occhi come riflesso involontario, alzando poi il capo verso l’alto godendomi quell’attimo di pace, dimenticando i miei problemi. Sembravamo due ragazzini.
«Molto bene, in questo caso…». E mi fu addosso, le mani fra i miei capelli e le sue labbra sulle mie, leggere, quasi come un soffio.
Si allontanò l’istante dopo, tornando ad appoggiarsi alla parete, ma più vicino, tanto che le nostre spalle si sfioravano. Restammo in silenzio per un altro po’, ognuno perso nei propri pensieri, e le porte dell’ascensore fecero in tempo ad aprirsi per poi richiudersi senza che nessun altro salisse, riprendendo a salire verso la nostra destinazione.
Alla fine sospirai, spostando il peso da una gamba all’altra e notando di sfuggita Trafalgar voltarsi a guardarmi con un sopracciglio sarcastico inarcato.
«Che dolce, sospiri addirittura con aria sognante» sfotté, scoccandomi un’occhiata malandrina.
Sbuffai, scocciato questa volta, roteando gli occhi e allontanandolo da me con una spinta, senza metterci però tanto impegno, sentendolo ridere vittorioso subito dopo.
Che razza di impiastro.
 
*
 
Sette mesi e diciotto giorni, pensai, sospirando amareggiato e segnando per l’ennesima volta un altro giorno andato a vuoto sul calendario che tenevo a portata di mano sopra al comodino.
Era diventata ormai un’abitudine passare le giornate in quel modo, ovvero vagare per l’ospedale come un fantasma nell’attesa di un qualche cambiamento che, a discapito di tutte le mie preghiere, non avveniva mai. I giorni passavano, diventando mesi e avevo il terrore che presto si sarebbero trasformati in anni.
Mi imposi di sorridere, voltandomi verso il ragazzo addormentato lì accanto, lasciando scorrere lo sguardo sul suo viso e sui capelli sbarazzini, tentando in tutti i modi di riportare alla mente le immagini della sua risata e della sua spensieratezza che tanto mi mancavano in quei momenti. Era passato troppo tempo e, per quanto mi ostinassi a sperare, l’ansia e la paura, purtroppo, si erano insinuate nelle mie viscere, facendomi dormire male la notte e lasciandomi un senso di impotenza addosso. Non potevo fare nulla, non ne ero stato capace nemmeno all’inizio e se adesso le sue condizioni erano così ignote era solo colpa mia.
«Perché hai dovuto fare di testa tua? Ti avevo detto di startene al sicuro, invece tu dovevi fare l’eroe, come tuo solito, vero?» mormorai per la milionesima volta. Quelle domande ormai mi giravano per la testa da tempo e speravo sempre di ottenere una risposta plausibile ma, puntualmente, mi arrivava alle orecchie solo il rumore dei macchinari e il silenzio opprimente che i primi mesi aveva rischiato di farmi impazzire.
Lasciai vagare lo sguardo sul dipinto che gli avevo fatto per il suo compleanno un mese addietro, con la speranza che anche lui, come una fenice, potesse risvegliarsi, risorgere, riprendere a vivere. Andavo da lui tutti i giorni, passavo ore e ore accanto al suo capezzale, parlando, dormendo, passeggiando, facendo qualsiasi cosa, a volte anche piangendo, e aspettando che aprisse gli occhi e che riprendesse a sfottermi per la mia assurda pettinatura o per il mio fastidioso menefreghismo.
Sospirai, poggiando i gomiti sul materasso e scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte, conscio di quanto lo potessero infastidire mentre dormiva.
Ace, ti prego, apri gli occhi.
Un baccano che non avrebbe dovuto esserci nei corridoio suscitò la mia attenzione e impedì alla tristezza di travolgermi, facendomi corrugare la fronte quando le voci si fecero più alte e vicine, fino a che la porta non si aprì, rivelando la figura di un tizio con un cappello piuttosto eccentrico, seguito da un altro nelle sue condizioni per quanto riguardava il trasporto, ma messo decisamente peggio per le gambe completamente ingessate. Dietro di loro, successivamente, apparvero due ragazzi dalle differenti espressioni: uno incazzato e l’altro con un sorrisetto beffardo sul viso, sordo agli insulti che il primo gli stava dirigendo, con tanto di gestacci e minacce di morte.
Non li avevo mai visti, nemmeno all’orfanotrofio, ed ero molto restio nel credere che Ace conoscesse davvero gente come quella, insomma, erano uno diverso dall’altro ed ero certo che non fossero nemmeno tanto raccomandabili a giudicare dal loro stato di salute. Quello biondo con i capelli lunghi, poi, doveva di certo essere uno spericolato.
«Ti uccido nel sonno, Trafalgar!» stava dicendo l’energumeno rosso, stringendo i pugni e incenerendo con lo sguardo quello che gli stava a qualche centimetro di distanza, il quale aveva l’aria rilassata e per niente preoccupata, anzi, pensò bene di mandarlo a quel paese alzando il dito medio nella sua direzione, cosa che non servì affatto a calmare gli animi.
«Si può sapere che fine avevate fatto? Mezz’ora per fare quattro piani! Persino io sono più veloce con le stampelle!» si stava lamentando il primo che era entrato, mentre l’altro suo compare in sedia a rotelle si grattava la testa perplesso, indeciso se intervenire a frenare le ire del rosso o lasciare che si arrangiassero da soli.
Il ragazzino che recava la scritta Penguin sul frontino del cappello sembrò accorgersi solo allora di me e, con un sorriso da un orecchio all’altro, tanto grande e genuino da ricordarmi terribilmente quello di Ace, mi venne incontro porgendomi amichevolmente la mano.
«Tu devi essere Marco, giusto?» esultò, sorprendendomi e dando inizio ad una serie di curiosità su di lui e su come fosse a conoscenza della mia identità. Ero certo di non conoscere nessuno la dentro, a parte, ovviamente, il ragazzo sul letto di fianco.
Gliela strinsi, ma non dissi nulla e non accennai ad un sorriso. Non lo facevo mai nemmeno quando rivedevo una persona cara dopo tanto tempo, semplicemente era nel mio carattere e aspettai che continuasse, lasciandogli intendere che non avevo la minima idea di chi lui potesse essere.
«Sono contento di conoscerti, finalmente, io sono Penguin» si presentò puntandosi il cappello e ridacchiando per la mia espressione stupita, «Speravo di trovarti qui, Ace mi aveva detto che saresti passato».
Non fu il fatto che conoscesse il nome di mio fratello a togliermi il respiro, ma le parole che aveva usato in seguito alla sua spiegazione. Era impossibile, Ace non si era svegliato e non parlava da mesi. Era in coma.
«Scusami» sussurrai, sentendo il sangue gelare nelle vene e stringendo le mani sulla stoffa dei miei pantaloni, «Tu hai parlato con Ace?».
Dietro di lui gli altri tre ospiti si erano fatti silenziosi e, osservando prima le pareti, poi il paziente a letto, poi noi due, ascoltavano interessati la conversazione, curiosi quanto me di capire cosa stesse succedendo.
«Beh, non ci ho proprio parlato» ammise Penguin, torturandosi le mani con fare nervoso, «E’ difficile da spiegare. Vedi, io posso sentire quello che pensa, di conseguenza riesco a… Ehi, ehi aspetta! Che fai? Stai calmo!».
«Andatevene, tutti» dissi, senza voler ascoltare oltre quella farsa e alzandomi in piedi, pronto a buttarli fuori con la forza se fosse stato necessario. Non dovevano permettersi di prendersi gioco in quel modo di persone nelle condizioni di Ace. Nessuno doveva azzardarsi a farsi beffe di lui, non dopo quella che aveva passato e che era ancora costretto a sopportare, non dopo che aveva salvato la vita a tutti quei ragazzini. Non dopo che si era sacrificato per me.
«Calma amico, abbassa i toni» sbottò a quel punto il tizio con i capelli rossi, facendo un passo avanti e affiancando Penguin, il quale, alzando le mani in segno di difesa, si mise tra me e lui per calmare gli animi, assicurando che andava tutto bene e che poteva spiegarsi meglio.
«Marco» fece, rivolgendosi direttamente a me e, dopo aver deglutito a fatica prendendo coraggio, iniziò ad avvicinarsi lentamente, aggirandomi e recuperando dal comodino la foto della mia famiglia, quella dove Ace era tanto felice. Provai un moto di fastidio nel vedere come la teneva con sicurezza tra le mani, dopotutto, quello era uno dei miei ricordi più cari e non mi andava di condividerlo con gli estranei, ma quello che fece dopo mi lasciò senza parole, stordito a più non posso.
«Questo è Thatch, giusto?» domandò, indicando un tipo dall’aria beffarda nella fotografia e con un ciuffo castano di dimensioni alquanto discutibili. Notando il mio sgomento, continuò a fare i nomi dei miei fratelli, fermandosi persino a elencarmi i loro gusti e passatempi, facendomi mancare le forze e costringendomi a rimettermi seduto, sentendomi oppresso da tutte quelle sensazioni contrastanti.
Com’era possibile che sapesse tutte quelle cose e quei particolari? Era impossibile che avesse tirato a indovinare, anche perché i miei famigliari erano persone piuttosto bizzarre. Nessuno, a parte chi li conosceva bene, poteva dire di sapere qualcosa sul loro conto, perciò la possibilità era una e una soltanto: quel piccoletto aveva davvero detto la verità, ma come fosse riuscito a parlare con Ace ancora non mi era chiaro. Come poteva pretendere che credessi sul serio che lui potesse comunicare o leggergli il pensiero? Andiamo, rasentava l’impossibile!
Decisi allora di metterlo alla prova, alzando lo sguardo su di lui e fissandolo truce, pronto a prenderlo a pugni se mi avesse mentito o anche solo preso in giro.
«Se è vero che puoi sentirlo, allora rispondi a una domanda» proposi, iniziando a pensare a qualcosa di cui solo Ace fosse stato a conoscenza. Volevo chiedergli se avesse saputo dirmi a che età ero stato adottato, ma pensai che poteva aver spiato nella mia cartella clinica e essersi imparato per bene i miei dati e informazioni personali, così cercai più a fondo, trovando infine quello che mi serviva.
«Questo lo sa solo lui» mormorai, indicando con un cenno del capo il ragazzo che dormiva profondamente, «E’ una domanda che mi piace porre alle persone e solo lui mi ha dato una risposta accettabile e ricca di significato. Sono certo che se la ricorda, quindi non avrai problemi a riferirmela, no?» feci sarcastico, facendogli intuire quanto poco credessi alla sua versione, ma vedendolo determinato ad andare fino in fondo a suo rischio e pericolo, continuai. «Dimmi: cosa ci uccide e cosa ci rende eterni?».
Penguin rimase in silenzio, voltandosi di poco verso Ace per osservarlo meglio, come se lo stesse guardando negli occhi, mentre, alle sue spalle, i suoi compagni osservavano scettici quanto me la scena. Tutti tranne quello che rispondeva al nome di Trafalgar, il quale, con le braccia incrociate al petto e un ghigno di vittoria sulle labbra, aspettava la risposta. Sul serio credeva a quelle stronzate? O stava solo reggendo il gioco all’amico?
In quel momento il ragazzino mi rispose, freddandomi e facendomi venire la pelle d’oca, mentre un brivido di freddo mi correva lungo la schiena. Il mio mondo, per un istante, vacillò.
«Nessun uomo lo sa, ma sono sicuro che siano la stessa cosa».
Se fossi stato in piedi probabilmente a quell’ora mi sarei ritrovato a terra, tanto era forte l’emozione. Non c’erano più dubbi, nessun altro avrebbe potuto pronunciare quelle esatte parole. Quindi era per forza vero; poteva percepire quello che pensava Ace; poteva comunicare con lui; poteva… Poteva…
Alzai gli occhi, incollandoli ai suoi e guardandolo implorante. «Ti prego» lo supplicai senza ritegno, «Ti prego, dimmi cosa sta pensando. Ti prego!».
Mi sembrava che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro nel petto e l’ansia, l’aspettativa, un miscuglio indistinto di sensazioni mi aggrovigliava lo stomaco, togliendomi persino il respiro. l’unica cosa a cui pensavo era il desiderio di poter sentire Ace ancora una volta, godere delle sue battute, dei suoi discorsi, delle sue follie. Lo volevo disperatamente.
Penguin sorrise dolcemente, guardando di nuovo il moro che dormiva solo in apparenza, rivolgendomi subito dopo uno sguardo divertito.
«Ha detto, o meglio, ha pensato che dovresti smetterla di essere così paranoico. E’ stanco di sentire le sue lamentele». Arrossì un poco nel rispondermi, forse per paura di offendermi, invece scoppiai a ridere, trattenendo a stendo le lacrime e passandomi una mano sul viso, sentendo tutta l’ansia scemare e provando una strana e insana gioia in tutto ciò. Ace non si era svegliato, era vero, ma almeno avevo trovato un metodo, anche se incredibile, per parlargli, per riuscire a capirlo. Fino a quando non si fosse espresso di nuovo da solo, mi sarebbe andato bene.
«Non ci credo» disse una voce infondo alla stanza, ma non feci caso a chi l’avesse detto.
«Penguin è pieno di sorprese, Eustass-ya, non te lo dimenticare».
«Può davvero percepire i suoi pensieri? Come è possibile?».
«Killer ha ragione. Come fa?».
«Chi può dirlo? Ha un’inclinazione particolare a capire gli stati d’animo delle persone. E’ sempre stato bravo in questo».
«Lui mi sente quando parlo? Mi capisce?» chiesi al ragazzino che era appena diventato la mia salvezza. Non gli sarei mai stato grato abbastanza.
«Certo!» annuì convinto, «Ti ascolta sempre e, aspetta, mi ha appena chiesto se per favore puoi smetterla di disturbarlo la notte. Dice ch se tu non riesci a dormire non è un problema suo. Ti consiglia anche qualche calmante o sonnifero».
Risi di nuovo, dando un buffetto sulla spalla a Ace, «Sei sempre il solito, non cambierai mai». Per un istante mi sembrò di vederlo sorridere leggermente e ciò riaccese la speranza di poterlo riabbracciare molto presto.
«A quanto pare devi un favore a Penguin» constatò il ragazzo con il pizzetto, Trafalgar, avvicinandosi e sedendosi sul bordo del letto, sorridendo in modo ambiguo.
«Oh, certo, tutto quello che vuole» dichiarai, non capendo gli sbuffi esasperati del rosso e dell’altro in sedia a rotelle, il quale sembrò voler sbattere la testa contro il muro.
«Ecco che ricomincia» borbottò disperato.
Nel frattempo Penguin si schiarì la voce e, con una cerca solennità, mi chiese se volevo entrare nel loro gruppo, informandomi che Ace ne faceva già parte e spiegandomi anche che grazie a me sarebbero stati al completo, nonché un sostegno l’uno per l’altro.
«E non preoccuparti di Kidd» aggiunse poi, indicando il rosso che, con una smorfia sul viso, osservava il tutto con disgusto, «E’ maleducato, ma infondo ha un cuore d’oro».
Trafalgar scoppiò a ridere senza ritegno e, se il biondo non si fosse posizionato davanti a lui, sarebbe sicuramente finito in rianimazione a giudicare dall’espressione omicida che gli rivolse quel temerario Kidd.
«Finiremo per ammazzarci tutti».
«Via, via, Killer, sii ottimista» lo rimbeccò Penguin, facendolo sbuffare e scuotere il capo con fare arrendevole. Quest’ultimo si rivolse poi direttamente a me,
«Sei ancora in tempo per salvarti» mi avvisò, ma ero in debito con il suo compagno e se voleva che mi aggregassi a loro, allora l’avrei fatto più che volentieri. Dopotutto, ero stanco di restarmene da solo ad affrontare quei giorni lunghi e difficili. Magari era vero che, assieme, le cose sarebbero migliorate.
Perciò sorrisi gioviale, guardando prima Ace e poi quel gruppetto di sconosciuti che erano entrati per caso nella mia vita, ribaltandola totalmente e dandomi una nuova speranza. Erano strambi, certo, ma, per qualche strano motivo, mi ispiravano fiducia.
«Sono dei vostri» dichiarai con convinzione, stringendo la mano a Penguin che iniziò ad esultare, congratulandosi con me e facendo spuntare l’ombra di un sorriso anche sulle facce burbere degli altri.
Mi rivolsi allora a Ace, sfiorandogli una mano e guardandolo dolcemente.
Mi sei mancato tanto, fratello.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Buonasera a tutti ^^ so che è tardi, ma mi sono impegnata tanto per finirlo e correggerlo, quindi ve lo beccate a queste ore, LOL.
Mi sono resa conto che oggi è lunedì e, anche se non sono ancora sicura della tempistica di questa storia, ovvero non so quando e come aggiornerò, ho deciso che per oggi avrei aggiunto un capitolo, anche perché erano un paio di giorni che covavo l’ispirazione, quindi ecco qui, spero sul serio di aversi incuriositi, soddisfatti, fatti sospirare, piangere, ridere, quello che volete, insomma.
Che dire? Beh, ovviamente l’ospedale non è un ambiente così carino e simpatico, ma le sorprese non mancano, soprattutto le situazioni ambigue, come avrete notato.
Oggi si parte con Penguin che, dopo essersi perso per i corridoi, capita per caso nella stanza di Ace, il bello addormentato per eccellenza, e si mette a chiacchierare con lui del più e del meno, stringendo subito amicizia e arruolandolo nella sua ciurma. Praticamente, a occhi sconosciuti, sembra parlare da solo, ma la cosa è molto più complicata e stupefacente. Ripeto, questa long l’ho tratta da una serie televisiva, Braccialetti Rossi, e anche lì un ragazzino poteva sentire i pensieri del suo compagno in coma da mesi, così non ho potuto non inserirlo. Ma di questo parleremo tra poco, volevo solo essere chiara. Ah, e no, non seguirò in modo preciso la trama del film, penso che il resto lo inventerò di sana pianta, solo mi era piaciuta l’idea dell’essere collegati mentalmente e del gruppo di amici in ospedale, tutto qui.
Penguin mi è sembrato il più adatto per interpretare la parte del sensitivo, è il più allegro, socievole e spensierato. Ho anche accennato a come ha perso la gamba, ma lo spiegherò meglio più avanti, praticamente è un piccolo eroe **
Il bellissimo dipinto sulla parete nella stanza di Ace lo immagino così:
http://static2.wikia.nocookie.net/__cb20111115211548/onepiece/it/images/5/5a/Marco_trasformato.jpg
‘Sono gli ottimisti a fare il mondo, i pessimisti non ci provano nemmeno’. L’ho letta in una rivista, la frase, se non ricordo male, viene niente meno che dal personaggio della Marvel, ovvero il fantastico Iron Man. Ritengo il tutto una vera e propria filosofia di vita.
E poi arriva uno sbuffante Kidd, costretto a sorbirsi Trafalgar, il quale sembra divertirsi ad infastidirlo con la sua presenza. Bene, noi siamo contenti, vero? Soprattutto quando litigano e si scannano vivi, sono così perfetti, un mix esplosivo, non c’è che dire. I due passano il tempo assieme, non sempre, ma quando possono e quando capita e non perdono l’occasione per beccarsi, neh? Mi pare giusto u.u allora, andiamo con ordine perché faccio confusione.
A parte il punzecchiarsi a vicenda, vorrei parlare della salute di Kidd. La spiegherò andando avanti, ma, a quanto pare, il suo cuore inizia a non reggere più molto bene, infatti, facendo le scale, si sente male e Trafalgar lo aiuta senza pensarci due volte, mostrandoci che, forse, non è così insensibile, soprattutto verso chi sta male. Lo scambio di battute che avviene tra i due non è inteso in senso romantico o affettivo, è, come dice Law, un incentivo per far si che Kidd continui a lottare senza cedere. Magari, col tempo, potrebbe diventare qualcosa di più, ma per adesso no. Nemmeno il bacio a fior di labbra che si scambiano in ascensore. Non volevo metterlo, ma non ho resistito e, anche se la cosa sembra ambigua o stonata, il tutto avviene in modo molto ‘sciallo’, ossia tranquillo, senza impegno. E’ stato un momento così, un battito d’ali, un soffio. Personalmente lo trovo tanto carino e ruffiano :3
Ad ogni modo passiamo ora a Marco.
Marco, splendore. Voglio più Marco/Ace in giro, sia chiaro, e anche più Penguin/Killer. Avanti, sono coppie adorabili!
Dunque, Marco gironzola per l’ospedale ed è lui che segna i giorni sul calendario. Non sappiamo ancora cosa sia successo a lui e a Ace, ma lo scopriremo, anche perché devo ancora deciderlo anche io ^^
Ace in ogni caso, è in coma da otto mesi, quasi, e non si sveglia. La fenice, ovviamente, è un augurio di pronta guarigione, basta pensare alla leggenda legata ad essa. Ed ecco la sorpresa: Penguin sente i suoi pensieri, si. Con stupore di tutti, il piccoletto si fa valere ancora e lascia gli altri a bocca aperta, soprattutto il povero Marco che a momenti sviene. Più avanti parlerò meglio del suo rapporto con Ace, ma credo si possa intuire che i due sono molto, molto legati e, ommioddio, mi sento male, non si parlano da mesi e uno combatte tra la vita e la morte! Piango!
‘Cosa ci uccide e cosa ci rende eterni?
Nessun uomo lo sa, ma sono sicuro che siano la stessa cosa’.
Onore e gloria all’uomo/donna che ha fatto questo discorso. Purtroppo non conosco il proprietario, ma tutti i diritti vanno a lui.
Concludo che sono stanca morta!
Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto e che la storia sia apparsa già più interessante, in ogni caso accetto qualsiasi critica o consiglio costruttivo ^^ giuro che risponderò alle recensioni, se ce ne saranno, lo giuro e chiedo umilmente perdono per qualsiasi ritardo, ma sono incasinata oltre ogni dire.
Grazie come sempre a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.
  
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