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Autore: Claa    18/02/2014    2 recensioni
SPOILER se non si è finito Mass Effect 3
Dalla ricostruzione e il risveglio traumatico di Shepard alla sintesi e la lettera di commiato di Liara.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Liara T'Soni
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho finito Mass Effect quattro settimane fa (volevo essere accurata) e ancora non ne sono uscita del tutto, pensate (ne uscirò mai?).
Mass Effect è un gioco crudele e subdolo, solo per combattenti accaniti, per chi anche nella vita si sente un po’ un sopravvissuto e per i masochisti, ovviamente (a me è piaciuto tantissimo, per dire).
Nel finale, come ho spiegato nella descrizione, ho scelto la sintesi: la mia Shepard non avrebbe potuto fare diversamente. Inutile dire quanto sia stata dura, ma era giusto fosse lei. È morta come è vissuta: all’insegna dell’amore e dell’amicizia.
Ma siccome mi piangeva il cuore a pensare che, dopo tutto quello che ha passato, non abbia avuto una possibilità migliore insieme alla sua romance, Liara, ho buttato giù quest’idea, per chiudere un cerchio.
È anche un omaggio a due dei miei scrittori contemporanei preferiti, David Grossman e Isabel Allende; il loro spirito, i loro insegnamenti e la loro passione mi sono sempre d’ispirazione.
La fanfiction si snoda in un arco temporale che va dalla rinascita di Shepard ad alcuni anni dopo il suo (tristissimo) sacrificio, fra dei suoi pensieri frammentari e la lettera di commiato di Liara. Se volete allegria o non apprezzate il melenso, non vi consiglio di proseguire.
Buona lettura! E che sia di vostro gradimento.




Ai miei amici, che sono la mia squadra

Non avremo combattuto contro delle gigantesche macchine insettoidi,
ma certe cose, anche se ordinarie, sembrano comunque o no la fine del mondo?



 

Il luogo in cui gli amanti non si lasciano




Due anni. Tutti mi credono morta, e anche tu. Liara, con te ho abbracciato l’eternità. Davvero non riesci a sentirmi?



Fermare i Razziatori... Prima che morissi era la mia missione, ora è qualcosa di più. Sono qui per questo. È il mio scopo.



Io sono il comandante Shepard. Il collante, a sentire la dottoressa Chakwas, ciò che tiene assieme l’equipaggio. Non devo voltarmi, non devo vacillare. Sarò forte per tutti coloro cui la forza verrà meno.



Eppure, tutto è crollato quando ti ho rivista.



Un passo dopo l’altro.
Uno ancora.
Un altro.
Finché di me non rimarrà più nulla.



“Tuo padre mi ha definita una stronzetta antropocentrica.”
“Beh, lo sei.”
“Mille grazie.”
Hai ridacchiato e io ho scordato il motivo della mia stizza.
“Voi umani siete individualisti e pertanto inclini all’egocentrismo, che nei casi più disperati può sfociare il megalomania. Per esempio, nell’antico Egitto…”
“Sì, sì, risparmiamelo.”



“Accoppiarti con un Prothean sarebbe un’occasione irripetibile, per te” ho detto beffarda, punta dalla gelosia.
“Per la Dea, Shepard… Ripetilo e io… io…”
Stavi per usare Singolarità su di me, quindi ho riso, a metà tra l’intimorita e il divertita, e, viola come un pomodoro viola, hai riso anche tu.



Venitemi a prendere, Razziatori.
Datemi la morte, cosicché possa riposare
al fianco degli amici
che non ho saputo aiutare.
Ma Liara?
Merita più di questo. Merita un futuro rigoglioso, il più bello
ma il suo futuro è nelle mie mani
e devo restare viva
viva
il più viva possibile
perché lei possa vederlo.



“Concentrati”
Nell’oscurità, la tua voce mi ha raggiunta pulita e meravigliosa. Stavo sprofondando.
Concentrati, mi hai detto. Ho aperto gli occhi.



Mi hai guardata come si guarda un fiore o un paesaggio sublime al tramonto. I tuoi occhi limpidi brillavano di luce imperitura. Al lato della tua bocca, piccola, perfetta, dolcissima, una ruga.



Thessia è perduta, le asari non hanno più una casa. Liara non è in sé.
Le avevo promesso che avrei salvato il suo pianeta e l’ho delusa. Ho fallito. Non sono stata all’altezza. Dare del proprio meglio, credere fermamente, talvolta non è sufficiente.
Il confine tra illudere e infondere speranza è labile, ma di sicuro non è con le parole che si salva un popolo.
Spronarla è la cosa più utile che possa fare, ma non so per quanto ancora ne avrò l’opportunità.

Quante battaglie può sopportare un singolo cuore?

Mi dispiace, Liara.



Ho seppellito la mia ira e ci ho costruito sopra.
Quando verrà fuori, se verrà fuori, tutto si spaccherà.



Ti ho domandato: “Cosa ne sarà di noi domani?”.
“Non lo so” hai sospirato, accoccolandoti contro di me. Hai strusciato la guancia sulla mia spalla e hai respirato la tua calda melanconia nell’incavo della mia clavicola.
Ti ho stretta apprensiva, con urgenza, come un malato che si aggrappi alla sua ultima speranza.
Tu hai deglutito e hai cercato di parlarmi con voce fluida, per trasmettermi calma. “In questo momento noi esisteremo per sempre, Shepard. Se avremo paura, ci basterà tornare a questo momento, e saremo al sicuro.” Hai taciuto, e poi hai detto, aggrappandoti a me a tua volta: “Quando non avremo più una guerra da vincere, e ci saremo lasciate alle spalle la paura della morte, potremo dimenticarci dell’universo e amarci pienamente, come se la nostra storia fosse ancora da scrivere, e tutto ancora da fare.”



“Ce la faremo, Shepard.”
Mi hai guardata implorante, come sull’orlo di un baratro.
“Per quel che vale, grazie a voi, grazie a te, è come se ce l’avessi già fatta.”



Insomma la sintesi, eh? Doveva essere così fin dall’inizio.
Liara, perdonami. So che capirai.
Siate felici,
io
lo sarò con voi.
Keelah se’lai.





Cara A.,

sono io, Liara.
Questa lettera è il mio ultimo dono a te, mio grande amore a lungo compianto.
Da quando ci hai lasciati, ho scoperto il piacere e il potere benefico della scrittura, tanto che ora l’idea di separarmene mi pare una follia.
Mi sono prefissa l’obiettivo di ripercorrere la nostra storia e di narrartela come non ho potuto fare nel breve, troppo breve tempo che abbiamo avuto a disposizione; per elaborarla, per onorarti e salutarti. Ho protratto il nostro saluto per anni. È arrivato il momento che io vada oltre la sofferenza – già ti sento che borbotti sarcastica: “non sarà presto?”.
Ma prima ti ringrazio per aver dischiuso ai miei occhi l’immensa complessità, varietà e bellezza della vostra cultura, permettendomi di adorarla come la adoravi tu. Dicevi che una delle poche cose che mancavano alla vostra Terra era la magia. Tuttavia, le vostre colorate tradizioni musicali, le vostre lingue, così diverse, e i nomi comuni che date alle cose – non c’è forse qualcosa di magico in tutto questo?
La letteratura, l’arte, mi hanno portata a capirvi meglio e a svelare un lato di voi che ai più è ignoto. Voi siete il popolo della grandezza e della miseria. Siete creature caduche, un concentrato di emozioni, sensazioni, ricordi e sogni: siete come il nucleo di una galassia, relativamente piccolo rispetto all’estensione totale del sistema, ma fondamentale. Studiarvi mi ha arricchita, in tutti i modi possibili. E ora non sono più soltanto un’asari e una scienziata, ma anche una donna.
Ora seguimi, Shepard. Ho bisogno che tu mi stia accanto.

Incontrarti mi ha permesso di cambiare e di reinventarmi.
Il mio interesse nei tuoi confronti, all’inizio puramente accademico, si trasformò rapidamente in qualcosa di nuovo e stupefacente. Mi intrigavi, volevo esplorare la tua mente e stanare i tuoi desideri, ma non sapevo come. Quando ci confrontammo, in un ardito slancio di sincerità – anche adesso rinvangarlo mi provoca ondate di calore –, e tu mi dicesti che provavi i miei stessi sentimenti, io riuscii soltanto a pregare che non notassi il tremito che scuoteva tutto il mio essere. Mi rifiutai di crederti quando in seguito mi confidasti quanta stabilità ti avessi ispirato in quell’occasione. Non potei fare a meno di ridere: e pensare che per me, quella forte, eri tu. Eri tu lo stimolo d’innesco di ogni mia reazione. Se lottavo, lottavo per noi, e grazie a te, che sradicasti il mio pessimismo e condividesti con me il dolceamaro piacere della speranza e dell’attesa, che avevi appreso a fatica nella tua terra natia.
Tu nascesti sotto un segno di fuoco – mi raccontasti una volta parlandomi dei segni zodiacali, dell’influenza dei pianeti secondo la vostra astrologia, dei loro allineamenti e delle loro opposizioni. Il fuoco è impetuoso, imprevedibile, antico; il suo calore può dare ristoro e le sue fiamme possono divorare senza alcuna pietà. Fin da subito, tu, figlia del fuoco, mi chiedesti passione e coinvolgimento, ignorando o non curandoti della mia profonda timidezza e svagatezza, della mia pelle blu acciaio. Dimenticavi le mie origini e credenze, che hanno impresso il loro stampo dentro di me: per le asari l’atto carnale è spesso visto come un eccesso (sebbene vi sia una porzione di noi che opti per la promiscuità; io non sono di quella scuola, però). Invece tu lo esaltavi e, nell’intento di persuadermi, ricamavi paziente nella mia mente immagini, suoni e odori che mi imbarazzavano e attraevano terribilmente allo stesso tempo. Non potevi sospettare la confusione e il trambusto che agitarono quei miei giorni. Per te era semplice, fisiologico, perfino. Il mio corpo, in questo senso, è nato con te, dalle tue mani e dai tuoi baci. Sentivo salire l’inquietudine al pensiero di un altro corpo unito al mio, uno dentro l’altro, compenetrati, svegli, pulsanti all’unisono. Le mie vene contro le tue, compresse e gonfie. E i nostri spiriti abbracciati, indissolubilmente. È stato incredibile, ti dissi. Tu sei incredibile, mi dicesti, e ci guardammo appagate, pronte al colpo. Dopo Ilos, inondammo la nostra completezza e l’allargammo ancora e ancora – perché ogni essere dal principio è di per sé completo. Insieme imparammo a eludere i dubbi e a plasmare risposte, giocammo ad amarci intensamente, disperatamente e poi, stordite, ne pagammo le conseguenze. Ci toccammo ovunque e in tutti i modi in cui due persone possono toccarsi, facendoci del male di proposito: volevamo guarire dal nostro passato per amarci nude e senza confini.
L’andamento ciclico che regola tutte le cose normalmente suscita negli individui paura e scompiglio, il cambiamento è in linea di massima malvisto. Per noi, invece, fu fonte di sollievo, l’estrema promessa di un ricongiungimento destinato a sciogliersi e diluirsi in ogni possibile realtà. Una specie di assicurazione sulla nostra unione. Ci saremmo ritrovate, dove, quando o come non aveva importanza.
Col passare degli anni i miei ricordi si fanno sempre più sfocati, ma tempo addietro ricordavo ogni nostro dialogo o sguardo. Ogni tuo raro sorriso. Quanto vorrei poter ricordare come allora. Quanto vorrei poterti riavere indietro, Shepard.
Prima di andare a dormire, esprimo il desiderio di incontrarti nell’unica dimensione a me percepibile che ancora me lo consente: quella onirica, augurandomi altrettanto acutamente di non dover rivivere, neanche in sogno, la nostra penosa separazione o la tua morte definitiva.
Se ripenso alla Normandy ghermita dall’incendio, alla deriva… e tu sola nella desolazione dello spazio, sento le energie scivolarmi di dosso. Nella navetta, tesa verso il vetro, osservai inerme la deflagrazione che distrusse la Normandy e quasi smisi di respirare – forse volevo smettere.
Recuperare il tuo corpo esanime fu straziante, eri quasi irriconoscibile. Con non poche perplessità ti affidai a Cerberus, dicevano che avrebbero potuto ridarti la vita; non avrei gettato un’opportunità preziosa come quella. Ma chi saresti stata, una volta tornata dall’aldilà – l’aldilà umano –, non c’era scienziato che avrebbe saputo dirmelo. E forse, d’altronde, non saresti tornata affatto.
Per mesi non riuscii a riposare appieno. Speravo, come oggi, di trovarti nei sogni, e ti trovavo, ma i sogni erano incubi e addormentarmi divenne presto troppo doloroso. Fuggivo dal sonno perché incapace di sopportare di perderti di nuovo ogni notte. La dottoressa Chakwas si occupò di me e mi aiutò a superare questo fastidioso disturbo, ma quando mi propose di assumere degli antidepressivi io non volli sentir ragioni. Dovevo soffrire perché ti avevo abbandonata – rimbombava oscura l’eco delle nostre voci sulla nave un istante prima del disastro: “E anche io non me ne vado” ti dissi. “Liara, va’” mi esortasti tu, allorché io risposi: “Sì comandante”. Sì comandante.
Non volevo altro che riavvolgere il tempo e tornare a quell’istante per rimanere a morire con te. Incominciai a odiarti. Razionalmente comprendevo quanto fosse assurdo incolpare te della nostra sciagura, del dolore che mi teneva prigioniera, ma emotivamente non ero pronta ad affrontare la realtà e la rabbia mi manteneva attiva.
Saperti viva mi dilatò il cuore e mi liberò.
Vederti fu strano. Subito, come un sistema di controllo altamente specializzato, registrai le differenze del tuo volto: il naso più simmetrico, una pelle perfetta, quasi di plastica, le guance meno scarne e le tracce di quelle cicatrici incandescenti… L’intervento ti aveva ringiovanita di almeno cinque anni, ma sui tuoi occhi pesava una stanchezza che non conoscevo.
Su Ilium accettasti di appoggiarmi nella mia causa e reperisti informazioni sull’Ombra, sebbene non fosse totalmente legale – e tu hai sempre tenuto molto alla liceità. Vedevo come combattevi contro te stessa, quanto sforzo richiedessero il tono delicato con cui ti rivolgevi a me e quei “sì”, “se posso fare altro…”, “come stai?”, prodotto di un’enorme rinuncia. C’era solo una scrivania a dividerci, ma il vuoto tra noi cresceva incontrollato, nutrito dalle nostre parole distanti, asciutte, banali. Tu, che ti rabbuiavi se dalla mia bocca uscivano discorsi di vendetta, avevi già intuito quale tumore infettava il mio cuore, e sospettavi che presto avresti dovuto fare una scelta: assecondarmi o fermarmi. Ovviamente mi avresti fermata, perché non avresti permesso che mi lordassi le mani o la coscienza. Per fortuna il fato fu clemente e per una volta non fosti costretta a scegliere: lo Yahg costitutiva un problema, se non lo avessimo fatto fuori, sarebbe stato lui a far fuori noi. Mi percorre un brivido se penso al tuo coraggio, alla tua integrità inviolabile e profonda. Avresti lasciato che io ti disprezzassi, mi avresti lasciata andare, pur di trarmi in salvo. Non lo scorderò mai, Shepard.
Fosti per tutti rifugio, lampo di luce nelle tenebre, gigante che sorregge il cielo sulle proprie spalle. Non eri sola, naturalmente, ma chi portava il fardello più grande eri tu: la sorte di ciascuno dipendeva da te. Fosti l’orgoglio di tutta la galassia; amarti era così semplice. Ma io ti avrei amata anche se avessi ceduto, lasciando che ogni cosa andasse in malora. Eri un’umana alta tre centimetri in meno di me, che non sapeva mettersi gli orecchini se non davanti a uno specchio, ma nessuno era disposto a vederlo. E il tuo corpo, perennemente ricoperto di ematomi… scovarli, in seguito all’eliminazione dell’allora capo dell’Ombra, nella tua cabina con l’acquario, fece riaffiorare in me una tristezza sepolta, che mi colpì come il terreno colpisce la schiena di chi cade, togliendomi il fiato. Quando accennasti ad un lieto fine, ad avere una famiglia nostra, con tanto di bambine azzurre e una casa, sfiorasti un punto che mi recò una gioia e un’amarezza indescrivibili. Piansi perché eri viva, perché avrei potuto perderti di nuovo, perché stare con te, battibeccare nella nostra maniera, canzonarci, abbracciarci, mi rendeva felice sopra ogni cosa. E la felicità può terrorizzare più di qualsiasi ignoto.
Non ci fu secondo in cui non vegliasti su di me; durante i combattimenti ti voltavi in continuazione per accertarti che stessi bene e che fossi coperta a dovere. Pretendevi che mi concentrassi sullo sviluppo delle capacità di difesa perché volevi sapermi al sicuro, con gli scudi al massimo dell’efficienza. Tu potevi essere intrepida, io no. Tu potevi prendere l’iniziativa, io no. Se non a letto. Effettivamente, non eri brava nel sedurre, ma nel confortare sì, e questo mi piaceva. Dimostrava una certa innocenza nonostante gli anni.
In pubblico non l’avresti ammesso, ma eri un’idealista. Volevi credere che ce l’avremmo fatta, che nessuno sarebbe stato lasciato indietro, che la vittoria sarebbe stata di tutti e non soltanto dei superstiti; dovevi crederlo, per non smarrirti e rimanere fedele a te stessa. Ma la vita è talmente fragile… Conoscevamo i rischi, come li conoscevi tu, così facemmo un patto: fingemmo che ogni cosa fosse salda, che non si potesse morire per un solo colpo di pistola, e andammo avanti.
Sorrido al pensiero della tua voce che mi chiamava per cognome nel rimprovero e nello scherzo, delle tue viziate e tenere richieste d’attenzione, o della tua testarda gelosia nei miei riguardi; mi giravi attorno circospetta, marcando il territorio come un animale, vigile, implacabile. L’eroina Shepard attanagliata dalla gelosia per la compagna T’Soni, i Galactic News avrebbero fatto pazzie per un titolo simile!
Per quanto apprezzassi la riservatezza, ci tenevi che fosse chiaro che ero di tua proprietà – se avessi potuto leggere, ti saresti offesa; avresti storto il naso alla parola “proprietà”. Avresti detto piuttosto che ero tua per volere della natura, per assioma. Tu, che consideravi la matematica alla stregua della petrografia – anzi, i “sassi” erano più interessanti.
La mia, di gelosia, si palesò nel momento meno adatto: la Terra era stata presa d’assalto dai Razziatori e noi ci eravamo appena rincontrate su Marte. Fui lieta di rivederti, ma tu e Alenko apparivate più affiatati di quanto ricordassi. Tu non fuggivi da lui come fuggivi da me. Osservarvi dibattere, scambiarvi sguardi, ascoltare la tua voce scorrere posata e conciliante verso di lui, per lui, mi turbò. Quando lo portasti di peso nell’infermeria della Normandy, intercettai i tuoi occhi lucidi e raggelai. Non ero preparata a vederti in lacrime, perché sapevo che sarebbe spettato a me sorreggerti – avrebbe voluto dire che la tua sofferenza era reale, tutta quella sofferenza… Te la trascinavi dietro come un cadavere, senza un lamento né una supplica; capirla appieno mi avrebbe disgregata, e non poteva accadere, non se avevamo deciso di portare a termine la missione. Temevo che la tua debolezza sarebbe stata la mia, invece non persi la calma, cercai di spronarti e tu, grazie alla Dea, rinsavisti. Lentamente, però, ti stavi allontanando. Avevi visto quel bambino morire e non ti davi pace. Pensai che, se avessi potuto, avrei volentieri rimosso e trasferito quella sequenza di immagini dalla tua memoria alla mia, per risparmiarti almeno un po’ di dispiacere. E, all’improvviso, capii: funzionavamo a incastro, eravamo un meccanismo perfetto che combinato non avrebbe conosciuto fallimento. Ci saremmo raccolte a vicenda, avremmo attinto energia l’una dall’altra, ce l’avremmo fatta.
In un baleno è come se tu fossi qui, a creare la “geografia” del mio corpo; a baciarmi fra le sopracciglia, “dove dimora il terzo occhio”, e la “vetta” del mio “nasino”, le “fosse abissali” ai lati delle mie labbra, le mani, sempre prima il palmo e poi il dorso; a sorridermi da sopra le mie nocche “montagne della luna”; a solleticarmi le guance “morbide come colline” con le ciglia; a mordermi e stringermi i piedi da cui non volevi separarti, perché “sono la tua base, e custodiscono la mappatura dei tuoi organi, e quindi necessitano di costanti e amorevoli cure”.
Era sufficiente un tuo sguardo, un tuo particolare timbro di voce, la bellezza candida ed erotica del tuo corpo nudo o semplicemente la tua vicinanza per farmi sentire feconda, prospera. Avrei voluto esistere in ogni tuo attimo, in ogni abbraccio dato e pupilla che ti avesse riflessa, per non perdermi neanche un battito del tuo cuore o sospiro.
Mi facevi preoccupare più di quanto fosse tollerabile, ma mi ero stancata di starti a sgridare e avevo imparato a non esternare il mio disappunto, che tu comunque avresti ignorato o esorcizzato con battute di scarso spirito. Mi viene in mente la volta in cui ti gettasti con un mech negli abissi dell’oceano di 2181 Despoina per fare due chiacchiere con uno dei Leviatani, o quando ti collegasti al consenso Geth senza alcuna certezza, o ancora durante il periodo di licenza, quando distruggesti un ristorante, cadesti in una vasca per pesci e ti facesti sparare dai mercenari assoldati dal tuo clone. Per non parlare di quando ti scontrasti frontalmente con un Razziatore, tu, la tua arma e lui. Con te, era certo, non si stava mai tranquilli.
Non mi capacitavo di come riuscissi a non perderti d’animo neppure nelle situazioni più sfavorevoli, da dove andassi a ripescare la volontà per scherzare, ma la risposta era lì, proprio davanti a me, e infine, con commozione e immenso dolore, avvertii ciò che tu avevi già chiaro da tempo: plausibilmente la vittoria sui Razziatori sarebbe costata un ulteriore sacrificio, e quel sacrificio eri tu. Lo sapevo, chiunque lo sapeva, ma quasi persi la ragione: tra sapere e accettare c’è un divario colossale. Ero furiosa perché ero stata un’ingenua e perché, a causa di quella guerra, avresti pagato di nuovo tu – noi, avremmo pagato di nuovo noi. Mi accasciai sconvolta, mentre una nuova, orribile quanto bellissima consapevolezza si faceva strada dentro di me. Tu l’avevi già accettato. Premevi affinché non ci dessimo per vinti e fossimo lucidi e fidenti. Ci mostrasti come si fronteggia la minaccia, come si può essere vivi in un campo di devastazione, braccati dalla morte; come si dice addio.
Avevi deposto la tua fede in noi, per far sì che crescesse sana e protetta. Sentivi che in te non c’era più terreno fertile, non è vero? Ogni perdita era un pezzo di te che se ne andava, lo vedevo, e malgrado ciò non ti sottraevi al dolore, e nel tuo intimo, sotto la corazza, rimanevi aperta al mondo, sensibile al cambiamento, spaventata come noi tutti ma ferma.
Con Thessia gli equilibri prestabiliti rischiarono di andare in frantumi. Era ironico e triste che non fossi riuscita a recuperare proprio la mia patria, e tuttavia non ebbi il cuore di fartene una colpa, sebbene fossi arrabbiata e mi sentissi distrutta. Ma dovevo pur accanirmi con qualcuno, e così sfogai la mia frustrazione su me stessa, per ciò che sarebbe stato fattibile e non era stato fatto.
Venisti da me – camminavi avanti e indietro, irrequieta, e io compresi con assoluta esattezza quanta distanza esista fra l’essere soli e il tocco di chi ci è caro. Una distanza che può essere tragica, insanabile, oppure minuscola e inconsistente, come un granello di polvere. Quindi venisti, e mi consolasti, pur non sapendo cosa ci sarebbe stato ad aspettarti; avrei potuto mortificarti, urlare, ma nessuna di queste prospettive era bastata a fermarti. Eri avvilita, sconfitta, ma eri lì per me. Incoraggiandomi non facesti che confermare la mia teoria dell’incastro, e a poco a poco, timidamente, entrambe ci riavemmo e ci riavvicinammo.
Quando mi salutasti, nella desolazione da cui si alzava il raggio trasportatore, mi sentii morire. Erano gli ultimi istanti con te. Non ti avrei più rivista. La calma con cui mi parlasti, la tua serenità, mi spiazzarono. Eri pronta, e avrei dovuto esserlo anche io.
Non hai solo reso la mia vita migliore, Shepard. Tu l’hai presa, la mia vita, e l’hai salvata, l’hai illuminata. Tu sei il senso che do a me stessa. Tu e io siamo uno, Shepard.
Dicevi che chi ci ama non ci lascia mai veramente, e adesso so cosa intendevi, perché quando ne ho bisogno, se chiudo gli occhi, sento te che mi stringi e sorridendomi mi dici, con voce che è ovunque: “Andrà tutto bene”.
Fosti la soluzione ad ogni problema e la speranza delle genti di tutte le epoche. Rinunciasti al tuo futuro per quello della galassia – come avrei voluto che tu fossi qui per vedere di quanta felicità ci hai fatto dono! Ma la tua felicità fu la tua scelta. Nella fine su tutto vince l’amore.
Ora, che il tempo faccia il suo corso, che si susseguano le generazioni, che fioriscano le civiltà. Unirci, ricordarci che non siamo soli era il tuo compito, e nessuno avrebbe potuto svolgerlo al tuo posto.
Non abbiamo avuto un futuro insieme, in questa realtà, ma la ciclicità è dalla nostra parte e un giorno lo avremo.
In qualsivoglia realtà, io non ti aspetterò, io ti verrò a cercare.
Ed esigo tu faccia lo stesso (se no saranno guai!).

La nostra storia si interrompe qui, Shepard.
Mi auguro sia servito. Mi manchi come non mai. Manchi a tutti.
Ti amo, e sì, ti perdono.

 
Per sempre tua,

Liara




 
  
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