Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: Nidham    18/02/2014    0 recensioni
Cosa succede quando perdi te stesso e ritrovarti significa affacciarsi su di un mondo che non avresti mai voluto conoscere? In una Parigi a metà tra il reale e il fantastico, Alexandra si farà strada verso verità impensate, attraverso incontri affascinanti e terribili, nemici pericolosi e amici impareggiabili, fino a decidere se varcare l'ultimo cancello e accettare un destino da cui sembra non esserci scampo.
Genere: Avventura, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

“Era uno spazzacamino?”

Il suo sguardo val più di mille parole.

“No, era Babbo Natale!”

“Babbo Natale non esiste.”

“Neanche gli spazzacamino, ormai” si china a fare qualcosa che mi lascia ulteriormente perplessa, perché sembra annusi quello strano pulviscolo e solo dopo ne mette un pizzico in un fazzoletto di carta. “E neanche quell'essere dovrebbe esistere.”

Le sue ultime parole sono così sussurrate da essere quasi inudibili e non credo fossero rivolte alle mie orecchie. Non è normale credere davvero nel sovrannaturale e lo dico nonostante la mia migliore amica sostenga di essere una medium e siano successe diverse cose strane nell'arco delle poche ore in cui ho ripreso contatto col mondo; se fossi appena un po' più impressionabile, potrei quasi arrivare a parlare di fantasmi e stregonerie, ma, per fortuna, passati gli attimi di irrazionalità, sono ancora abbastanza padrona di me stessa da comprendere di essere solo vittima di scompensi emotivi derivati dallo shock e dalle medicine, per non parlare dello stress post traumatico e della fastidiosa questione legata alla mia amnesia. Insomma, ce n'è di materiale su cui costruire qualche psicosi.

“Alex, so che mi ritieni uno svitato, ma devi stare attenta” mi guarda negli occhi e è difficile credere che sia solo uno squilibrato con manie di persecuzione, perché il suo sguardo è fermo e severo, sotto la curva imbronciata delle sopracciglia. “Ci sono cose... persone che potrebbero farti del male.”

“Per quanto ne so...”

“Anch'io, sì! Hai ben specificato questo concetto” mi interrompe, sbuffando.

“Veramente volevo dire che le maestre elementari non dovrebbero avere troppi nemici. Certo, per i brividi freddi che avverto ogni volta in cui penso al mio lavoro, potrei anche essere un'insegnante tanto orribile da essermi guadagnata delle ritorsioni” la scarica di adrenalina mi ha abbandonato e inizio a sentirmi veramente troppo stanca per qualsiasi elucubrazione mentale. “In ogni caso, se hai la coda di paglia dovrei preoccuparmi.”

“Non ho la coda di paglia” borbotta arricciando il naso in quella smorfia che ho già imparato ad attribuirgli. “E tu devi riposare. Farò quello per cui sono venuto e poi ti lascerò in pace.”

“Io non me lo ricordo neanche più perché tu sia venuto qui” ma lo lascio rientrare in casa, sperando di non dover sostenere un nuovo assalto dall'interno o dall'esterno.

Il calore pare tornato alla normalità e mi accorgo adesso per la prima volta, vedendo l'espressione di Gabriel, di aver lasciato un discreto casino in giro, quando mi sono messa a frugare in cerca del mio introvabile passato. Sul letto c'è ancora la copertina aperta del DVD consegnatomi all'ospedale, semi nascosta dal pc e da un paio di cuscini.

“Quando hai avvertito gli sbalzi di temperatura?” ha sempre un'espressione particolare quando si guarda intorno, incredibilmente assorta e indagatrice, come immaginerei sul volto di un guerriero mandato in avanscoperta per rilevare tracce del nemico e come ritengo inappropriata in un tizio che non indossi o un'armatura o una divisa mimetica e sia semplicemente in piedi nel mio monolocale. In questo caso, però, noto anche qualcos'altro sul suo volto, una leggera smorfia di disapprovazione, mentre, istintivamente, raccoglie un paio di quaderni abbandonati per terra e li impila in bell'ordine sulla mensola accanto al televisore.

“Non è che ci siano stati con cadenza regolare. Una volta ho iniziato a sentire caldo appena uscita dalla doccia e poi incredibilmente freddo mentre guardavo il filmato su Emile.”

“Hai un filmato?”

“Mi è stato consegnato in ospedale, ma non so da chi; un altro piccolo mistero a cui ancora non ho trovato risposta. E comunque il DVD deve essere rovinato, perché funziona solo quando vuole lui.”

Non penso mi abbia ascoltato fino in fondo, mentre armeggia al mio lettore, cercando senza successo di farlo accendere.

“Ci son problemi a tutto l'impianto elettrico, te lo dico io” provo a dissuaderlo senza risultato. “Anche prima s'è acceso senza che lo toccassi.”

Mi guarda irritato e preoccupato, ma non commenta, ricominciando a esplorare lo spazio minuscolo in cui è costretto a muoversi.

“Se non sei un elettricista o un tecnico di qualche tipo, dubito potrai aiutarmi” lo osservo sfiorare il davanzale della finestra con movimenti rapidi e delicati, forse per togliere qualche granello di polvere. “E poi potrebbe derivare tutto dagli psicofarmaci, te l'ho detto. Mi è successo anche in ospedale. Vedevo pure cose strane, lì, quindi figurati!”

“Che tipo di cose?”

“Allucinazioni, incubi, non saprei. Ad un certo punto avrei giurato che ci fosse una bambina vicino al mio letto e di averle persino parlato, ma sembrava uscita da un film horror di serie B, a pensarci adesso: tutta pallida e contusa, con l'orsetto in stile Halloween. Poi c'era un dottore, omonimo di quel tale Johnson, che doveva divertirsi a imitarlo, vestendo secondo la moda del suo predecessore. Un'idea piuttosto macabra, visto che il primo s'è suicidato, e collegare le loro figure non può essere rassicurante per i pazienti. Io ho anche sognato di essere finita tra le sue grinfie e di essere diventata una cavia per i suoi esperimenti! Tra l'altro ho fatto un mix tra le mie fantasticherie: la piccola Lolie, nel mio delirio, veniva rammentata come fosse un'altra paziente di quel folle” non so bene perché perda tempo a raccontargli queste sciocchezze, ma è in un certo senso catartico liberarsi dal fardello dell'irrazionalità, trasformandola in storia.

D'altra parte Gabriel mi ascolta con estrema attenzione e non sembra giudicarmi pazza, anzi i suoi occhi si fanno più cupi, man mano che continuo a straparlare, e sono tanto penetranti da spingermi quasi a distogliere i miei.

“Cos'hai detto, esattamente, a entrambi?”

“Al dottore che era pazzo, credo. In più modi” mi stringo nelle spalle, perché, onestamente, non ho voglia di scandagliare con troppa precisione quei ricordi.

“Nei tuoi vari modi gentili, sì, immagino.”

“Ascolta” mi ribello. “Quando mi trovo legata ad un letto con degli elettrodi collegati alla testa e uno che dice di volermi aprire la pancia come fossi un cappone il giorno di Natale, non ho voglia di essere molto cortese.”

“Lo credo bene” e non c'è ironia, nel suo tono, come invece mi sarei aspettata.

“Alla bambina non ho detto niente di particolare” continuo, un po' rabbonita. “Voleva giocassi con lei e mi ha chiesto aiuto. Non lo so, non l'ho ascoltata troppo, non mi piacciono i bambini.”

“Lo so” ha un brivido, forse perché mi ritiene una donna snaturata o perché condivide i miei sentimenti.

“Comunque la cosa più inquietante rimane l'infermiere maniaco.”

“Si può sapere chi sarebbe? Hai già accennato a questo tizio.”

“Un tale grande, grosso e poco piacevole che mi ha iniettato qualcosa di rossastro nella flebo, ignorando le mie proteste. Il dott. Lumiér ha continuato a negare che ci fosse mai stato qualcuno del genere, il che, a ben pensare, non è molto rassicurante.”

“Ti ha fatto del male?”

“Dipende da cosa mi abbia iniettato. Di certo aveva un'aria irritante e poco raccomandabile. Ma potrei aver immaginato anche lui” mi siedo sul letto. “E' sconfortante.”

Mi sfugge dalle labbra prima di riuscire a ricomporre un'espressione neutra e coraggiosa. Non voglio guardare Gabriel perché non sopporterei un'altra faccia compassionevole, ma avverto la sua mano stringere per un istante la mia spalla, in un gesto veloce che mi trasmette solo forza e comprensione.

Continuo a fissare ostinatamente il pavimento finché non sono certa di riuscire a evitare di coprirmi di ridicolo con qualche lacrima patetica.

“Hai detto che ti ha iniettato un farmaco di colore rosso?”

“Sì e, anche se non volevo prenderlo, tutto sommato deve avermi fatto bene, perché il dolore è diminuito quasi subito. Poi sono iniziate le visioni, ma non posso attribuirle con sicurezza a quella roba. Dalla cartella clinica sembrava mi avessero imbottito di schifezze.”
“Credo dovresti dare retta al tuo istinto, anche in futuro. E' sempre stato molto sviluppato, per quanto la tua testardaggine lo osteggi.”

“Hai idea di cosa fosse?” a questo punto non mi meraviglio più di nulla.

“Sì.”

Aspetto.

Lo guardo interrogativa.

Inizio a spazientirmi: “E?”

“Ed è un farmaco non convenzionale, diciamo. Almeno se la mia supposizione è esatta.”

“Ma non possono usare roba del genere in ospedale!”

“Non veniva dall'ospedale” mi corregge. “Prima dell'incidente eri stata contattata da un tale, un riccone dongiovanni che voleva incontrarti e che potrebbe trafficare con cose del genere.”

Lo ammetto, quando ha detto “riccone”, la mia attenzione si è un po' affievolita. Magari è anche giovane e carino.

“Alex, mi stai ascoltando?” mi scuote stando attento a non farmi male. “E' un tipo pericoloso, ti avevo già avvertita.”

“Quanti anni ha?”

“Troppi!” sbuffa esasperato.

“Ah, è vecchio?” che delusione.

“Decrepito” borbotta cupo, spostandosi a perlustrare il bagno.

Dovrei seguirlo, ma non ne ho alcuna voglia, sono troppo stanca. Finalmente la mia casa non sembra respingermi e riesco a sdraiarmi senza preoccuparmi di dover lottare con le coperte per mantenere una temperatura corporea accettabile.

Sembra quasi che la presenza di Gabriel allontani le brutte sensazioni, ma è la solita sciocchezza a cui smetterò di pensare non appena mi sarò ripresa del tutto.

“Dovresti andare anche tu a riposare” gli consiglio, tra uno sbadiglio e l'altro, mentre lo sento armeggiare con la tenda della doccia. “Non sembri in forma.”

Non ottengo risposta e evito di insistere, ma sto quasi sognando quando lo avverto chinarsi su di me, sistemandomi il piumone intorno alle spalle e sfilandomi le scarpe, per adagiarmi più comodamente sul letto.

Vorrei ringraziarlo, ma temo di mugugnare solo qualcosa di intellegibile mentre svanisce oltre la porta, approfittando del mio momentaneo attimo di debolezza per fuggire senza avermi dato un brandello di spiegazione.

Dormo di un sonno agitato e non me ne meraviglio. Nelle ultime ore ho sopportato più emozioni di quante me ne sarei augurata per una vita intera e non ho idea di cosa potrà succedermi appena riaperti gli occhi.

Nel sogno vedo immagini confuse, cupe, sanguigne, in un susseguirsi rocambolesco di volti e emozioni contrastanti. Ad un certo punto sono certa di scorgere Emile, in piedi vicino a me, di spalle, con il pennello in mano e la tela quasi intonsa davanti, mentre la lacera con rabbia ed esasperazione e ride in maniera inumana, borbottando frasi sconnesse.

Vorrei allontanarmi da lui, ma, allo stesso tempo, provo anche un irresistibile desiderio di toccarlo, anzi, di toccare quel dipinto e imbrattarmi coi colori che hanno iniziato a sgorgare da esso come sangue da una ferita.

La tela si trasforma davanti ai miei occhi, allungandosi e contorcendosi in spirali di pietra levigata, più nera dell'inferno, stranamente simili alle forme voluttuose della statua femminile che avevo visto nel giardino di Morel.

Dormendo, il nostro cervello collega le immagini più disparate, è ovvio, ma in quel momento tutto assume una logica perversa e inquietante a cui è difficile ribellarsi, per cui non mi viene neanche in mente di sorridere quando il giullare, scolpito alle spalle della donna, apre su di me i suoi occhi gialli da rettile e mi fissa con un ghigno malevolo, rivelando due file perfette di denti piccoli e puntuti.

Le mie gambe rifiutano di collaborare, o forse è la mia stessa testardaggine a tenermi inchiodata lì, con lo sguardo fisso in quello inumano del demone di pietra, come se volessi sfidarlo o sfidare il mio istinto, che saggiamente continua a gridarmi di fuggire e nascondermi.

È più vicino adesso, o magari sono io ad essermi avvicinata, pur senza muovermi. Posso vedere un intrico scomposto di vene violacee pulsare sul suo volto adunco, ormai quasi del tutto libero dalla prigione di marmo, e avverto il tanfo nauseabondo del suo respiro scivolare lungo il corpo perfetto della donna per arrivare a sfiorarmi le guance.

“Ti sto aspettando” sembra sibilare in quel soffio. “Alexandra De Raven!”

Non smetto di fissarlo, non posso e non voglio. Non abbasserò gli occhi davanti a lui, che non deve permettersi di pronunciare il mio nome.

Chiaramente, in un incubo succede sempre il contrario di quanto vogliamo, quindi non mi meraviglia che il mio desiderio venga bellamente ignorato e quel mostro provi a chiamarmi di nuovo.

“Alexan...”

“Silenzio!” cerco di gridare furente, ma non è la mia voce a rompere il suo sussurro, bensì il gracchiare penetrante di un corvo, levatosi in volo tra di noi, mentre il cielo stesso sembra tingersi del nero delle sue piume.

Per fortuna la scena sfuma intorno a me, ma il sollievo è fugace, perché sogno di essere seduta sul granito sbreccato di una lapide coperta di muschio, circondata da cappelle funebri e tombe desolate.

Da quale barbaro ricordo la mia mente abbia recuperato questa scena proprio non riesco a immaginarlo. Forse il cimitero rappresenta il mio inconscio senso di colpa per essere l'unica sopravvissuta ad una carneficina, o forse l'idea del corvo ha creato uno strano collegamento con pensieri funerei.

L'unica cosa certa è che, se non posso rilassarmi neanche dormendo, vorrei proprio svegliarmi.

Provo a pizzicarmi il braccio senza successo, così inizio a muovermi tra i sentieri geometrici, cercando di non far scricchiolare la ghiaia sotto i piedi, quasi temessi di disturbare il riposo eterno di qualcuno. Da qualche parte dovrà pur esserci un'uscita e magari, oltrepassandola, quest'incubo finirà.La risatina crudele che fa eco al mio pensiero è poco rassicurante, soprattutto tenendo conto che non vedo nessuno vicino a me.

Perdo il senso del tempo e mi accorgo di aver girato impossibilmente intorno quando mi ritrovo davanti alla stessa lapide su cui ero seduta. È un angolo estremamente buio e trasandato del cimitero, circondato da rovi e erbacce, quando mi chino a leggere il nome inciso sul granito, la lapide diventa uno specchio distorto, su cui il mio viso si riflette velato e confuso, a differenza della piccola e paffuta mano bianca che appare ben nitida dall'altro lato del vetro, pronta a ghermirmi.

Apro gli occhi di scatto, trovandomi a sedere sul mio letto disfatto, con l'improbabile sensazione di essere stata svegliata da un ululato roco, più selvaggio e potente di quello di un cane.

Sospiro, irritata e sollevata, mentre controllo che tutto sia in ordine intorno a me e mi scuoto dal torpore fastidioso che ancora mi offusca la mente.

Gabriel ha lasciato accesa la luce sopra i fornelli, forse per non farmi sentire disorientata al risveglio. Un gesto premuroso che, però, mi permette di vedere, in quella flebile penombra, qualcosa che non ha niente di rassicurante: l'impronta di una mano in tutto e per tutto simile a quella del mio incubo sopra la superficie appannata dello specchio del bagno.

Ammetto di sussultare per un attimo, ma è più un riflesso delle brutte sensazioni provate in sogno che un reale senso di pericolo, perché la mia casa adesso è confortevole e accogliente, colma di un silenzio rassicurante e priva di strani incidenti elettrici o elettronici.

Quell'impronta sulla specchiera deve essere un semplice alone di polvere travisato dai miei occhi assonnati; ad ogni modo, visto che l'istinto non vuol saperne di convincersi di qualcosa di tanto ovvio, mi alzo per andare a controllare e, anche se non vorrei, non posso negare che questo segno sia dannatamente simile ad una mano di bambino, la creatura più inquietante di tutte. Stacco un pezzo di carta per pulire, ma un brivido gelido mi trattiene, mentre osservo il mio fiato addensarsi in una nuvola sottile e torno a imprecare contro il mio impianto di riscaldamento; pur con tutta l'immaginazione del mondo non esiste che la temperatura di un appartamento passi dai venti ai tre gradi nel giro di un minuto, deve essere il mio corpo a subire sbalzi ormonali o qualche altra diavoleria.

Comunque credo di star migliorando, perché il malessere dura solo qualche attimo e non è accompagnato dai soliti fremiti di assurda inquietudine; posso togliere polvere e condensa dal vetro e tornarmene a letto, ma il mio piano viene stravolto dal leggero scricchiolare di un asse di legno sul pianerottolo. E' un rumore innocente e senza quel folle paranoico ad incitarmi non provo alcun senso di pericolo, ma sono stufa di gente che venga a passeggiare davanti alla mia porta, così la spalanco senza riflettere e mi trovo a fissare con occhi sgranati proprio il folle paranoico di cui sopra, seduto a gambe incrociate davanti a me, con uno sguardo colpevole anche più sorpreso del mio.

“Ma che diavolo...” inizio a farfugliare. “Gabriel! Che ci fai qui?”

Guardo l'ora per la prima volta e mi accorgo che sono quasi le sei del mattino.

Lo fisso sconvolta e arruffata mentre si alza con un movimento atletico e repentino, portando avanti le mani in segno di pace.

“Non sono qui per spiarti” si giustifica subito, allarmato dalla mia espressione omicida. “Ti giuro che me ne sarei andato all'alba e non ti avrei disturbato.”

“Che razza di perversione feticista è questa?”

“No” borbotta, avvicinandosi un po' troppo per i miei gusti e impedendomi di chiudergli la porta in faccia. “Alex, ti prego, non volevo fare niente di male, solo proteggerti.” L'ultima confessione gli sfugge tra i denti e vedo bene che vorrebbe rimangiarsela immediatamente.

“Proteggermi?” sbotto infatti. “Da cosa?”

Sento dei tonfi provenire dal piano di sopra e mi accorgo di urlare.

“Da cosa?” gli sussurro contro allora, sempre più arrabbiata, mentre senza ragione alcuna lo lascio entrare di nuovo nel mio appartamento.

“Da...” si interrompe, mi guarda di sottecchi, poi prova a ricominciare. “Non importa.”

“Invece importa eccome” lo scuoto. “Mi sono stufata del tuo svicolare e dei tuoi tentativi di spaventarmi senza darmi alcuna spiegazione.”

“Magari riuscissi a spaventarti un po'!” si lamenta esasperato. “Almeno saresti meno avventata”

“Ora mi dici cosa facevi qui fuori, oppure chiamo la polizia.”

“Volevo assicurarmi che tu stessi bene, ok?”

E' assurdo, ma suona vero.

“Stavi male, sei appena tornata a casa dopo un brutto incidente, volevo esserti vicino nel caso avessi avuto bisogno di aiuto.”

Molto dolce, molto logico, ma non del tutto sincero.

Gabriel è un pessimo bugiardo, appena prova a nascondere qualcosa abbassa il mento e si tormenta l'orecchio, con aria tanto colpevole che persino un bambino subodorerebbe la bugia. Oppure potrebbe essere un imbroglione talmente in gamba da saper simulare anche questa sua lapalissiana innocenza. Quando lo guardo negli occhi propendo assolutamente per la prima ipotesi, ma non per questo sono meno arrabbiata.

“Eri partito bene, ma ti sei sciupato sul finale” inizio a rimproverarlo, poi noto i cerchi sotto gli occhi e il leggero brivido delle sue spalle. “Cazzo, Gabriel! Sei tu che hai bisogno di aiuto.”

Lo spingo a sedere sullo sgabello e gli poggio una mano sulla fronte, ancora troppo calda.

“Dovevi andare a casa a riposare, non startene qui al freddo” ma ora le mie parole non contengono alcun rimprovero: qualsiasi siano state le sue motivazioni, per quanto insensate o folli, ha messo il mio benessere davanti al proprio e il gesto mi commuove più di quanto vorrei, costringendomi a preoccuparmi per qualcuno a cui, per un'immensa serie di logiche ragioni, non dovrei affatto interessarmi.

“Sto bene” mente di nuovo. “Ora tolgo il disturbo.”

Lo fermo prima che tenti di alzarsi e prima che io stessa abbia il tempo di razionalizzare.

“Ascoltami attentamente, perché non lo ripeterò un'altra volta: ti sono grata per la tua premura, sempre che non sia piuttosto un'ossessione malata o un qualche piano astruso per tenermi d'occhio” lo minaccio con un dito, prima che possa protestare. “Non so perché, ma nonostante tutte le tue stranezze, credo tu sia un bravo ragazzo e voglio fidarmi di te. Anzi, mi fido di te anche se non vorrei farlo e non mi dai motivi per farlo. Quindi, se vuoi continuare ad avere a che fare con me, devi smetterla di mentire, fare omissioni o raccontare mezze verità. Piuttosto dimmi che non puoi spiegarmi qualcosa, ma non rimpolpettarmi la prima scusa che ti venga in mente, chiaro?”

Sospira e sembra stanco, nonostante tutta la sua determinazione.

“E' dall'inizio che provo a fare come tu dici, ma ogni volta non ti sei accontentata della mia risposta.”

Odio che mi si rinfaccino le cose, soprattutto quando chi lo fa ha ragione.

“Va bene” gli concedo. “Io non insisterò, ma tu cercherai di dirmi tutto ciò che puoi.”

Annuisce e, per la prima volta, sorride, quasi di nascosto; anche se è solo un leggero increspamento delle labbra, quel sorriso gli tocca gli occhi e, se fossi appena un po' meno prosaica, potrei quasi credere che fosse quello e non la febbre a farli risplendere.

“Quindi” continuo, mentre metto il bollitore sul fornello, con l'idea di preparare un tè per entrambi. “Da chi avresti dovuto proteggermi?”

Si mordicchia il labbro e tentenna, il che è un bruttissimo segno: notizie frammentarie in arrivo.

“Non eravamo gli unici a indagare su questa storia e i nostri colleghi non sono tipi raccomandabili. Preferiscono agire di notte, di solito, per questo non volevo lasciarti sola.”

“Non dovremmo dirlo alla polizia?”

“La polizia non può fare niente, se non aumentare il casino. Se entrasse di mezzo alle nostre ricerche, potremmo dire addio a qualsiasi speranza di scoprire cosa sia successo al tuo amico e ai miei.”

Il pensiero non è confortante, anche se, al momento, non ricordando un accidente di Emile, la cosa che mi disturba di più è supporre di aver qualche pazzo criminale alle calcagna, piuttosto che rischiare di non venire a capo di un qualche astruso mistero. Ovviamente, risolvere il secondo problema porterebbe probabilmente a mettere una pietra sopra anche al primo, quindi suppongo di poter continuare a giocare al detective ancora per un po'.

“Va bene” accetto la sua versione dei fatti. “Ma chi sarebbero di preciso questi nemici? Mafiosi? Drogati? Gli orchi di Saruman?”

Non mi sta nuovamente ascoltando, ma fissa con intensità un punto preciso sulla parete del mio bagno.

“Se ne hai bisogno, fa pure” lo incoraggio, supponendo che non sia stato comodo trascorrere le ultime ore su un duro pavimento di legno. “Ma abbassa la tavoletta, quando hai finito.”

Sembra seguire il mio suggerimento, ma invece di chiudersi la porta alle spalle e cercare un po' di privacy, si mette a sfiorare i contorni dello specchio, studiandolo con attenzione, a tratti quasi annusandolo, a giudicare dal modo in cui dilata le narici.

A questo punto ha vanificato la mia precedente pulizia, riempiendo di ditate tutta la superficie, ma non riesco a rimproverarlo quando mi accorgo che il suo indice, alla fine, si è fermato esattamente nel punto in cui avevo creduto di vedere un'irreale mano bianca e paffuta.

Mi guarda interrogativo, ma mi rifiuto di rispondere.

“Qualunque cosa fosse se n'è andata adesso” prova a rassicurarmi sollecito, senza accorgersi che i sottintesi impliciti del suo ragionamento potrebbero piuttosto terrorizzarmi, se non fossi la persona razionale che sono.

“Non c'è mai stato niente, Gabriel!”

Apre la bocca per ribattere, poi si ricorda il nostro patto e tace.

“Se non devi fare qualcosa di sensato, lì in bagno, vieni a sederti. Il tè è pronto.”

“Grazie” la sua mano trema impercettibilmente nell'afferrare la tazza.

È assurdo, sembra grande, grosso, indistruttibile e poi noto minuscoli segni che mi fanno venir voglia di proteggerlo e prendermene cura, quasi fosse un morbido cucciolo ferito, per quanto col pelo ispido e i denti da latte sempre snudati in un caotico ringhiottare.

Tutto ciò è dannatamente pericoloso, molto più di qualsiasi attentato incendiario o boss mafioso che possa avere attaccato al culo.

Gli aggiungo un paio di cucchiai di zucchero nel tè, nonostante le sue proteste, e avvicino la scatola di biscotti, costringendolo a prenderne un po'.

“Grazie” ripete soltanto, mentre il silenzio ci circonda in un clima di illusoria pace.

Avverto istintivamente una strana familiarità in questa situazione, ma è un sentimento assurdo, perché, anche prima dell'incidente, conoscevo pochissimo Gabriel e avremo potuto far colazione insieme al massimo due o tre volte; troppo poche per sviluppare una consuetudine.

Eppure sto bene qui, seduta davanti a lui a questo tavolino minimalista che ci lascia appena lo spazio per appoggiare le mani senza costringerci a sfiorarle. Sto bene col suo viso a pochi centimetri dal mio e le gambe praticamente incollate alle sue, troppo lunghe per riuscire a non invadere il mio spazio vitale. Mi sento sicura, nonostante non ne abbia motivo e non voglia provare niente di così rischioso e incomprensibile: alla fin fine questo tizio continua ad essere un estraneo paranoico che crede nei complotti spionistici e negli ufo. Ed anche se è tanto carino e singolarmente dolce, potrebbe essere un maniaco venuto a uccidermi.

Lo guardo negli occhi e proprio non riesco proprio a credere alla seconda ipotesi, ma la prima analisi è innegabilmente reale, senza contare il fatto che, al di là di tutto, rimane uno spiantato.

“Ho qualcosa sul mento?” si preoccupa, sentendosi scrutato.

“Mangia un altro biscotto” mi limito a spingergli tra le mani la confezione, per distrarmi dai miei foschi pensieri. “E non protestare! Hai bisogno di assumere zuccheri, visto che hai passato la notte in bianco e già stavi male.”

“Neanche tu stai bene. Dovresti andare a farti medicare il braccio, più tardi” indica la fasciatura che mi ricorda la brutta esperienza non ancora conclusa e nasconde le cicatrici che me la ricorderanno per tutta la vita.

“Sto meglio” e mi stupisco di essere sincera e non stoica nell'affermarlo. “Dormendo il dolore si è affievolito.”

Aggrotta le sopracciglia.

“Strano.”

“Meglio così, no? Magari stavo male proprio per tutte le schifezze che mi somministravano.”

“Magari” inizia a dire poco convinto, quando il frusciare metallico della televisione lo interrompe e ci fa sobbalzare entrambi.

“Ecco, riprendi tutti i quadri” la voce di Emile mi provoca i brividi. È anche più roca e impastata dell'ultima volta in cui l'avevo sentita, perfetta per intonarsi al suo aspetto anche più miserevole e stremato.

Evidentemente il lettore DVD ha ricominciato a manifestare la propria indole ribelle, mostrandomi un uomo completamente distrutto, emaciato fino a sembrare più uno scheletro che un essere vivente, coperto di chiazze di vernice scura, miste alle macchie giallastre della pelle malsana, tremolante come la fiamma di un cerino in mezzo ad una tempesta.

“L'hai acceso tu?” mi chiede Gabriel, senza staccare gli occhi dallo schermo.

“No” e la mia risposta si fonde alla mia voce nel filmato.

“Emile, devi rimanere calmo!”

“Certo, certo” mente come un drogato che voglia un'altra dose. “Ma tu non dimenticare nessun particolare. I quadri sono in ordine cronologico.”

La telecamera fa una carrellata veloce delle opere. Troppo veloce per soddisfare la mia attuale curiosità, ma abbastanza lenta da lasciarmi intravedere sempre lo stesso soggetto, leggermente modificato in una sequenza quasi fumettistica: il primo quadro rappresenta villa Morel dal lato del cortile, con la fontana gotica ben delineata e uno sfondo surreale privo dei palazzi che dovrebbero circondarla. È inquietante e cupo, ma abbastanza innocuo. La seconda opera è identica alla prima, se non fosse che il cielo, prima totalmente nero, ha iniziato ad assumere sfumature rossastre lungo la linea dell'orizzonte e la porta della casa è leggermente aperta.

Non sono in grado di vedere bene i dipinti successivi, ma la telecamera rallenta su quello che credo essere il sesto o settimo, mostrandomi uno sfondo quasi totalmente rosso e la villa con le pareti contorte e rovinate, avviluppate da radici scure simili a viticci d'edera che potrebbero crescere all'inferno. La porta è ormai spalancata e c'è una figura che si affaccia sulla soglia, ma è indistinta e non capisco nemmeno se sia un uomo o una donna.

Il mio dubbio si sana dopo poco, perché la stessa figura appare in primo piano qualche tela più tardi e si rivela essere un uomo di mezz'età in abiti eleganti e antiquati, con capelli castani dal taglio severo, gambe lunghe, un po' storte, e spalle curve, ma per posa e non per difetto. Il suo volto doveva essere stato tratteggiato con molta precisione da Emile, anche se io non riesco a vederlo bene nel filmato: sono del tutto concentrata sull'enorme ascia da macellaio che quel folle tiene tra le mani adunche, con una dedizione simile a quella di una madre col figlio neonato.

“Quando saranno tutti presenti, scopriremo l'ultimo” Emile ha ricominciato a parlare e la telecamera si sposta su di lui, in piedi fremente al centro della sala, davanti al dipinto misterioso di cui mi aveva parlato l'ispettore. “Deve essere rivelato solo al momento giusto della serata, all'ultimo rintocco della mezzanotte.”

“Sicuro che non si trasformerà in una zucca?” evidentemente ero solita fare dell'ironia fuori luogo anche prima dell'incidente.

“Alex, non scherzare!” e c'era anche allora qualche squilibrato pronto a rimproverarmi. “E' tutto pronto? Lo champagne c'è? Quel tuo amico si è fatto più vivo?”

Gabriel si volta a guardarmi per un istante, confermando il sospetto che Emile si stesse riferendo a lui.

“No” mi ascolto rispondere nella registrazione. “Non riesco a rintracciarlo da ieri.”

“Faremo senza” non saprei se la voce di Emile appaia turbata dalla mia notizia, visto che è sempre ampiamente sopra le righe. “L'importante è che le dodici persone ci siano tutte.”

“Sarebbe importante ne venissero anche di più, o questa inaugurazione sarà un fiasco.”

“Se ne manca una saremo nei guai, lo sai” continua senza dar adito di avermi sentito.

“Vuoi dirmi perché?” io sembro esasperata e anche un tantino preoccupata, ma, col senno di poi, mi sento di affermare che non avrei potuto esserlo neanche la metà di quanto mi senta inquieta adesso.

“E' bene che tu non lo sappia ancora” mi fissa con sguardo allucinato, muovendo la testa in un tic meccanico e innaturale che lo fa assomigliare ad una strana bambola di latta, con le labbra arricciate sulle gengive sporgenti e coperte di vernice. “Ne ho bisogno Alex! Ne voglio ancora!”

La sua supplica è quasi un grido, di rabbia, frustrazione e astinenza.

“L'ispirazione, ho bisogno dell'ispirazione” si lancia verso un barattolo di vernice dimenticato in un angolo e lo apre con foga.

La ripresa si fa confusa, perché probabilmente mi stavo avvicinando per strappargli quella roba di mano, ma prima che il filmato si interrompa, un particolare ancora più assurdo degli altri attira la mia attenzione: uno strano fumo denso e scuro si alza in una spirale contorta dal vasetto, circondando Emile e nascondendolo alla vista, come una fitta coltre di nebbia rinchiusa in una stanza senza luce.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: Nidham