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Autore: Chamelion_    19/06/2008    2 recensioni
Avrei forse preferito non vedere nulla; anche la fioca e tenue luce emanata dalla luna calante era eccessiva quella notte. Paradossalmente, ero più spaventata dal chiarore che dal buio: in quel momento ogni singola molecola del mio corpo bramava l’oscurità, perché avevo paura.
Paura di vedere.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non riuscivo a dormire, accecata da tutto quel buio, assordata da quel totale silenzio.
Maledetta, maledetta luna.
Avrei forse preferito non vedere nulla; anche la fioca e tenue luce emanata dalla luna calante era eccessiva quella notte. Paradossalmente, ero più spaventata dal chiarore che dal buio: in quel momento ogni singola molecola del mio corpo bramava l’oscurità, perché avevo paura.
Paura di vedere.
La verità mi faceva male come una lama incandescente sulla carne. Avrei voluto non vedere nulla, neanche me stessa, il mio corpo. Ogni cosa sapeva di lui. Ed io mi sentivo infettata da un morbo senza cura.
Dannata luna. Perché esisti? Perché mi costringi a vedere? Stavo in piedi davanti alla finestra: il davanzale troppo basso mi esponeva forse al rischio di sbilanciarmi e cadere dal settimo piano del condominio; ma non mi importava granché. Attraverso le tende, talmente sottili che riuscivano a malapena a velare il chiarore, guardavo il cielo nero, completamente nero… Tranne per la luna, la cui presenza gettava su di me piccole particelle di luce che racchiudevano la consapevolezza che cercavo di sfuggire.
Aprii la finestra e lasciai che la calda brezza estiva mi investisse, si insinuasse tra i miei capelli, nella mia bocca, nei miei occhi, facendoli quasi lacrimare. Cercavo un contatto con il mondo, la natura, la vita. Provai a chiudere gli occhi, e per un momento mi illusi di essere riuscita a scappare nel buio, come se potessi ignorare la realtà. Ma non appena osai schiudere le palpebre, mi trovai davanti la stessa luna, costante, brillante… e inesorabilmente rivelatrice.
Sentendo i passi avvicinarsi, cercai nuovamente di illudere me stessa, questa volta non di non vedere, ma di non udire.
In ogni caso, non sarei potuta scappare.
Tenni lo sguardo fisso sulla luna, sempre, ma questa volta la mia mente era talmente concentrata sui passi che udivo, che non ebbi paura di quel grande corpo celeste che mi sovrastava in tutta la sua grandezza. Questa volta sembravo pregare quel gigante di inghiottirmi nella sua bianca consistenza, di prendermi, di uccidermi piuttosto, purché lo facesse prima che il rumore dei passi si concretizzasse nella presenza di una persona.
Ma la luna, forse perché impegnata a rischiarare il mondo notturno, sembrò non udire la mia muta ma intensa preghiera. E così, a un tratto, i passi, che ormai si erano fatti troppo vicini per essere ignorati, si fermarono. Proprio dietro di me.
Continuai a fissare, imperterrita, la luna nel cielo. Finsi di non sentire il pesante respiro di lui alle mie spalle.
“Sono tornato” lo sentii dire. La sua voce mi provocò un brivido sconvolgente, e sentii tremare ogni atomo del mio corpo, come se le note prodotte dalle vibranti corde vocali di lui fossero tanti piccoli pezzi di ghiaccio.
Non mi voltai a vederlo. Semplicemente, tenendo lo sguardo fisso come sempre, gli risposi: “Tu torni sempre”.
Il rumore di un passo, uno solo: fu sufficiente perché il suo corpo sfiorasse il mio.
“È vero” disse. “Io torno a cercarti”.
Le sue mani, così incredibilmente calde, scorsero sui miei fianchi, levigandoli, e si congiunsero attorno al mio ventre: il suo corpo aderì completamente al mio; avevo paura anche di respirare, perché lui poteva percepire ogni mio movimento.
“E io?” gli chiesi, come se spettasse a lui rispondere a quella domanda che riguardava me.
Sentii il suo mento appoggiarsi sulla mia spalla. Continuai a tenere gli occhi fissi sulla luna, anche se in realtà non guardavo né vedevo.
“Tu non scappi” mi disse.
Sentii il fiato proveniente dalle sue labbra sul mio orecchio, e sussultai terribilmente. Abbassai di colpo il capo, guardando adesso la strada sotto di me: l’asfalto, le macchine, persone piccole come formiche. Il mondo era sotto di me. Io ero fuori dal mondo.
“Non posso scappare” replicai, mentre la stretta di lui si faceva ancora più forte, tanto che mi sembrava che avessimo i nostri organi in comune: i polmoni, lo stomaco, il cuore. Lo stesso respiro, le stesse strette e crampi, lo stesso battito.
“Puoi” mi contraddisse.
Era vero. Potevo.
Gli esseri umani possono fare tutto. Anche sottomettersi, certo, ma scegliendo di farlo.
Io potevo scappare.
E la mia mente, la ragione, mi imponeva di farlo. Era il mio corpo a trattenermi. I miei sospiri, il mio cuore, la mia carne bruciante di passione, e tutto ciò che mi rendeva umana. Il mio essere umana mi obbligava a restare. A rigor di logica, però, io potevo farlo: aveva ragione.
“Anche adesso” precisò.
L’unica via di uscita che in quel momento mi si presentava era costituita da quella finestra, dai sette piani che mi separavano dall’asfalto, e dall’asfalto stesso. Solo così sarei potuta fuggire.
Ed era proprio questo che intendeva lui.
Infatti esercitò una maggiore pressione col suo corpo contro di me, come per spingermi fuori dalla finestra; ciononostante, mi teneva stretta come se volesse fondere la sua pelle con la mia.
La paura di cadere non mi sfiorò neanche per un istante. “Ma l’hai detto tu” gli dissi di rimando. “Io non scappo”. Una delle sue mani abbandonò il mio ventre e mi prese dolcemente, ma con fermezza, il mento, voltando il mio viso verso il suo. Non opposi resistenza alcuna; soltanto, chiusi gli occhi. Non volevo vederlo.
Non volli aprirli neppure mentre, dopo aver così voltato il mio viso, mi obbligava a girarmi completamente, comandando il mio corpo come un abile burattinaio che fa muovere la sua creatura.
Davo ora la schiena alla finestra aperta, e l’aria caldissima mi faceva rabbrividire la schiena seminuda; i tremiti più profondi, però, erano provocati dal tocco di lui.
Aprii gli occhi.
Funesta, esecrabile luna.
Perché hai fatto luce sul mondo? Perché non hai conservato una piccola porzione del buio che agognavo soltanto per me? Perché hai permesso ai miei occhi di vederlo?
La creatura che conoscevo di più, e di meno, al mondo, era di fronte a me, così vicino che sicuramente poteva sentire il mio cuore battere contro il suo petto. O ero io a sentire il suo, contro il mio?
Con gli occhi sembrava volermi dire molte cose; sembrava affamato di me, sembrava volermi divorare con il solo sguardo. Eppure la sua stretta non mi ingannava: riconoscevo il tocco di chi ha fame non del corpo, ma dell’anima, dello spirito.
Voleva fare sua la mia anima, il mio essere me stessa. Non voleva il mio corpo. Voleva me.
Passò un dito esitante sulle mie labbra serrate, le accarezzò lievemente da destra a sinistra. Poi, con un’esitazione ancora maggiore, con le stesse dita le schiuse, riuscì a sfiorare l’interno delle mie labbra, la mia bocca.
Chiusi gli occhi e lasciai che un fremito s’impadronisse del mio corpo. Gli permisi di esplorare la mia bocca, poi le mie gote, il mio mento, il mio collo, i miei capelli: tutto con quelle stesse dita leggere e quasi infantili, con una lentezza indescrivibile.
Poi, a un tratto, con la sua mano mi afferrò con più sicurezza: mi accarezzò il collo, poi si fermò e si avvicinò col viso.
Mi baciò con dolcezza, tanta che sentivo ogni più piccolo tremito delle sue labbra sulla superficie delle mie. Mi abbandonai ai suoi baci che si fecero sempre più profondi; avevo chiuso gli occhi, ma quando li riaprii per un istante vidi che lui non li aveva mai chiusi: mi guardava mentre mi baciava. Mi guardava fissa negli occhi.
Io accolsi il suo invito e partecipai a quel gioco di sguardi, quella strana alchimia psichedelica, mentre premeva il suo corpo contro il mio: dovetti spostarmi per non rischiare di cadere dalla finestra.
Mi ritrovai così contro il muro, l’angolo della finestra, tanto che sentivo lo spigolo tagliarmi la schiena.
Mi schiacciò contro la parete, chiuse gli occhi e mi baciò con più voracità, con più fame di me, sempre di me.
Chiusi anche io gli occhi e mi lasciai andare all’eccitazione che si impadroniva progressivamente di me. Le sue gambe avevano circondato le mie, mi teneva come in trappola. Una trappola da cui non avevo alcuna intenzione di liberarmi.
Io non scappo.


Maledetta luna.
Almeno adesso, perché non tramonti?
Perché non muori, non anneghi nell’alba che sta ormai sorgendo, e continui imperterrita a splendere sopra di me? Continui a gettarmi addosso la stessa luce di poco fa, sono ancora bagnata dal tuo chiarore.
Perché vuoi a tutti i costi essere complice di questo segreto?
Ma soprattutto, perché mi costringi a guardare me e lui, insieme, ora?
Ho ancora la passione addosso, come vernice indelebile e soffocante: ogni più piccola parte di me grida felice, selvaggia, si nutre della mia stessa emozione. Ed io?
Io non provo che lacerante amore: mi riempie di tutta la vita del mondo, e nello stesso momento, succhia via tutta la mia vita, finché mi lascia prosciugata.
È un contagio inesorabile, un virus che si impossessa di me con atroce lentezza.
È un concentrato di sensazioni indescrivibili con parole umane.
È terribile, disumana meraviglia.
È una sottile ma pesantissima ombra che offusca la luce di cui ho tanta paura.
Ne ho paura, perché mi costringe a vedere. Vedere che amo.

Maledetta luna. Che tu sia maledetta.

  
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