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Autore: amaarantha    19/02/2014    1 recensioni
«Che rumore fa la felicità, mon petit?» e così queste sciocche parole lasciarono egoisticamente la mia bocca, ferendomi più di ogni altra cosa. E così mi ritrovai a parlare con il piccolo me intrappolato in un regalo di compleanno, bloccato per sempre nei miei anni migliori che sapevo non sarebbero tornati più indietro.
Genere: Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A chi, come me,
 ti immagina ovunque
ma non vicino.






 
Ricordi bloccati
I'd give all I had honey, if you could stay like that.
Oh, darling don't you ever grow up, just stay this little.




 
Sono le 19.07 e casa mia è così silenziosa che quasi mi spavento. L’orologio bianco dai bordi rossi che mamma mi ha costretto ad appendere in cucina non smette di mettermi ansia con il suo immancabile ticchettio. E’ l’unico orologio che possiedo. Perché? Beh, una cosa di cui ho sempre avuto paura fin da bambino è il tempo. Il modo in cui i minuti passano veloci, in cui vanno avanti e ti lasciano indietro; il modo in cui fanno diventare il presente passato, e il futuro presente; il modo in cui continua a scorrere veloce e spetta a te raggiungerlo, tenere il passo, correre con lui fino allo stremo delle tue forze; il modo in cui ti fa venire i capelli bianchi e le rughe in viso e soprattutto, quello in cui lascia indietro cose e persone con tanta nonchalance che quasi mi trafigge, mi spezza in due.
Oggi è il primo giorno del mese di Febbraio dell’anno Duemilatredici, vale a dire quello che fino a tre anni e sei mesi fa era un giorno normale per il resto della popolazione mondiale mentre ora, il caos.
Oggi è il mio compleanno.
Stamani mi sono alzato alle 12.03 e per abitudine ho controllato il cellulare. Settantotto messaggi, ventiquattro chiamate perse. Follia. Ho deciso di non leggerne nemmeno uno e di spegnerlo, ho staccato la spina a tutti i telefoni decidendo così di non rispondere agli eventuali mille squilli che avrei dovuto sentire. Oggi mi va di stare solo. Ho passato tutta la giornata mangiando, giocando alla play, vedendo film e ancora mangiando. Ora sono tristemente seduto sulla mia vecchia poltrona accanto al camino, fissando le dannatissime lancette di quel dannatissimo orologio.
Tic toc.
Tic toc.
Tic toc.
Tic toc.
Mi rendo conto di cosa sto per fare quando i miei piedi mi costringono ad alzarmi e a dirigermi verso la camera da letto, prendo il regalo ancora intatto di mia madre e mi dirigo verso il salotto, poggiandolo sul piccolo tavolo di vetro al centro della stanza e sedendomi a terra. Ieri mi è arrivato da Holmes Chapel, ed io non ho nemmeno avuto il coraggio di aprirlo. Dalla forma si capisce che è un libro, ma è strano. E’ troppo grande per essere un normale libro. Lo scarto, riducendo in mille pezzi la carta gialla con cui mia madre ha deciso di incartarlo e rimango a fissarlo per circa dieci minuti e già ricordi di una vita passata si infrangono nella mia mente, così come le onde si infrangono negli scogli quando il mare è in tempesta. E solo quando decido di aprirlo i ricordi si affollano nella mia mente, ed io affogo in essi. E come dice Leopardi “Il naufragar m’è dolce in questo mare”. E’ un grande album marrone scuro, perfettamente rilegato. Aprendolo sulla prima pagina spicca la scrittura fine di mia madre:

 
Ho fatto delle foto. 
Ho fotografato invece di parlare. 
Ho fotografato per non dimenticare. 
Per non smettere di guardare. 
(Daniel Pennac)

Infiniti auguri, mon petit.

 
Sorrido a quelle parole, a quel ‘mon petit’ – adorabile soprannome, che ho sempre amato in segreto e finto di odiare – e mi diverto ad immaginare mia madre seduta al tavolo in cucina, a scrivere queste splendide parole solo per me. So già cosa troverò nella pagina successiva e quella dopo ancora. Non voglio davvero aprirlo perché sono perfettamente consapevole di quanto male farà ma mia madre avrà impiegato davvero tanto tempo per farmi quel regalo, che vale più di mille parole o vestiti o telefoni.
Rileggo altre due volte queste splendide parole scritte nere su bianco e esitante, giro finalmente pagina.
L’album è totalmente pieno di foto, con l’esatta data dell’evento scritta sotto ad ognuna. Le foto ritraggono me con la mia famiglia, con i miei amici e a volte solo. Ogni singolo momento della mia vita, fino ai 16 anni, è in questo album. Quasi ho paura di romperlo o rovinarlo, perché rovinerei me stesso.
Mia madre ha sempre amato fare foto. Ogni volta la vedevo con la sua macchinetta fotografica pronta a immortalare anche il più stupido dei momenti, mentre io imprecavo contro di lei. Se ora l’avessi accanto la ringrazierei. Le foto più belle sono quelle banali, magari fatte per sbaglio. Quella dove canto e ballo in pigiama preparandomi per andare a scuola, come ero solito fare ogni mattina; una di me e mio nonno mentre giochiamo nel soggiorno; un’altra, che risale a quando i miei non erano ancora divorziati, dove abbraccio forte mio padre appena tornato a casa dal lavoro. Ricordo ancora il suono che faceva, ricordo che lo aspettavo sulla poltrona e lui mi prendeva in braccio e mi faceva girare due volte per poi darmi un bacio in fronte, mettermi giù e scompigliarmi i capelli. Ricordo la mia vecchia cameretta, come se fosse ieri l’ultima volta che ho dormito lì, bianca e blu con i poster dei miei cantanti preferiti appesi su ogni muro. Ricordo ancora il suono dei passi di mia madre e quello di mio padre ed il modo in cui fingevo di dormire quando loro venivano a controllarmi. Ricordo ogni singola litigata con mia madre perché mi sentivo troppo grande per essere accompagnato al cinema da lei, ed ogni volta sprofondavo nell’imbarazzo e le mie guance si tingevano di un rosso acceso. Ricordo le sgrida per tutte le volte che tornavo tardi, ricordo tutti i cenoni di Natale e lo scambio di auguri la notte di Capodanno. Ricordo di aver passato tutta la mia adolescenza a desiderare di scappare, a cercare una via di fuga, a sognarmi in posti ora comuni. Ed eccomi qui, nel mio grande appartamento – troppo grande per una sola persona – a pensare che non sarei mai voluto crescere davvero. Sarebbe stato tutto più semplice. Ricordo i video che mi faceva mia sorella mentre cantavo davanti allo specchio e come si divertiva a ricattarmi, dicendo che lo avrebbe fatto vedere a tutti. Come mi prendeva in giro dicendo che non sarei mai diventato importante anche se in realtà cercava solo di auto convincersi, perché il pensiero di me che andavo via faceva troppo male.
Guardo ogni singola foto e cerco di coglierne l’essenza, mi ci immergo con tutta l’anima e piango ad ogni pagina, sempre di più. Quelli erano i bei tempi. Dove la mia felicità aumentava di giorno in giorno e ogni cosa mi sembrava la fine del mondo, mentre in realtà era solo l’inizio. Ero sempre arrabbiato con me stesso e con il mondo senza un vero motivo. Ora a distanza di anni, seduto su questa vecchia poltrona, rimpiango di aver buttato tutto quel tempo, di non aver abbracciato più spesso mia madre, di non aver vissuto ogni singolo giorno come se fosse stato l’ultimo, di non aver avuto la consapevolezza che sarebbero stati davvero gli ultimi giorni felici della mia vita. Ero libero e spensierato, la vita non poteva prendermi. Ero il capo del mondo e nessuno poteva fermarmi. Potevo fare quello che volevo, uscire con chi mi pareva o la qualsiasi altra cosa  senza finire su un giornale. Potevo semplicemente vivere.
«Che rumore fa la felicità, mon petit?» e così queste sciocche parole lasciarono egoisticamente la mia bocca, ferendomi più di ogni altra cosa. E così mi ritrovai a parlare con il piccolo me intrappolato in un regalo di compleanno, bloccato per sempre nei miei anni migliori che sapevo non sarebbero tornati più indietro. E in quel momento, nulla ebbe più senso. La felicità. La felicità è un’utopia, un’immagine, un desiderio, un traguardo che si stabiliscono gli uomini ma che non raggiungono mai. E tutta la loro vita ruota attorno alla ricerca del nulla. Perché, infondo, la felicità non esiste.
Fisso un’ultima volta la scatola e ora i miei ricordi galleggiano calmi.
La quiete dopo la tempesta.



Angolo autrice.
Principalmente questa oneshot è stata scritta per il compleanno di Harry, non l'avevo ancora pubblicata poichè la modificavo continuamente. Ho deciso di pubblicarla così, pur non avendo alcun senso. Avevo pensato a qualcosa di diverso ma alla fine ho scritto questo. Non l'ho riletta, perchè so che mi avrebbe fatto talmente tanto schifo da non decidere di non pubblicarla. Chiedo perdono, quindi, per il ritardo (e per eventuali errori presenti nel testo).
La frase all'inizio è dovuta ad una cosa che avevo scritto in principio, che ho deciso di omettere. Una cosa piuttosto personale, ecco.
Decido di fermarmi qui con queste frasi sconnesse e di lasciare a voi i commenti. 
Infiniti baci.
 
  
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