Fuga dal Buio
Salve,
io sono Percy Jackson.
Questa
è la mia storia: la storia di come mi sono
salvato e di come, forse, vi siete salvati molti di voi.
Sono
nato nell’anno duemila. Un comune ragazzo di una
comune cittadina della California dove vivevo con mia madre, Sally
Jackson. Mio
padre era un soldato di marina morto un anno dopo la mia nascita. Mia
madre non
ama parlarne, ma gli manca molto. La verità è
che, con tutto quello che ci è
accaduto, non ci pensiamo più molto, soprattutto
perché a me non interessa.
Crebbi
in questa cittadina dove andai a scuola insieme
a decine di miei coetanei, fino ad otto anni.
Era
il diciotto dicembre quando mia madre tornò a casa
con due biglietti aerei per Dallas, dove mio zio Ade di Angelo
lavorava. Con
lui non avevo buoni rapporti, ma io adoravo un sacco i miei cugini:
Nico di
Angelo di sette anni e la piccola Bianca di sei. Partimmo il giorno
dopo con i
nostri bagagli pieni di vestiti e qualche stuzzichino. Era un epoca
difficile e
fare lunghi viaggi era molto costoso, ma mia mamma aveva un lavoro
rispettabile
e conservavamo sempre dei soldi per andare dai nostri cugini.
Il
viaggio durò poche ore e quando arrivammo capii
subito che non mi sarei mai dimenticato di quella vacanza, anche se non
sapevo
cosa sarebbe successo. Maria, Nico e Bianca vennero a salutarci e io
abbracciai
i miei cuginetti. La piccola Bianca mi strinse in un abbraccio
caloroso, mentre
Nico mi si aggrappò alla schiena per fare cavalluccio. Mio
zio era a lavoro:
era l’amministratore di un impianto petrolifero a sud di
Dallas.
Arrivato
alla loro casa, una semplice abitazione stile
americana, mia zia ci promise una visita al nuovo impianto di Ade, cosa
che,
però, non suscitò per nulla il mio entusiasmo, al
contrario di quello di Nico e
Bianca che adoravano il loro papà.
Passai
un giorno intero a giocare con Nico a Mitomagia,
un gioco di carte e miniature che adoravamo entrambi, anche se, per me
era solo
un passatempo, mentre lui era un vero patito. Ogni tanto Bianca ci
rubava
qualche miniatura e ci costringeva a inseguirla per tutto il giardino
ridendo
come dei pazzi.
Quanto
eravamo ingenui, all’epoca.
Era
la sera del ventuno dicembre del duemiladodici
quando arrivammo allo stabilimento di mio zio, sorvegliato dai militari
che
dovevano tenere la zona sotto controllo a causa delle minacce della
C.A.O.S.
Ah,
scusate, non sapete cos’è la C.A.O.S. è
un acronimo
che sta per Comitato Abbattimento Organizzato degli Stati:
un’associazione
terroristica che minacciava tutti i governi del mondo. Un anno prima si
erano
impossessati di un carico di venti testate nucleari minacciando di
lanciarle su
tutte le capitali del mondo, ma fin’ora non si erano fatti
sentire.
Comunque
gli impianti erano considerati dei bersagli a
rischio e soldati
dell’L.D.M. (Lega per
la Difesa Mondiale) avevano messo tutto sotto chiave, ma una volta
appurati i
documenti e i permessi che mia zia si era procurata ci lasciarono
passare.
Dovetti
ammettere che gli impianti si estendevano u
un’area vastissima ed erano completamenti automatizzati ed
autosufficienti. Un
pozzo centrale collegava tutti i livelli sotterranei
dell’impianto che
ospitavano officine, laboratori e raffinerie per lavorare il prezioso
elemento
del petrolio, trasformandolo in benzina. C’erano persino due
dormitori e un
magazzino sotterraneo. Di solito ospitava gli operai che lavoravano
lì, ma con
le vacanze di natale era rimasto solo mio zio che controllava
quotidianamente
gli impianti per assicurarsi che funzionassero bene.
Zio
Ade ci stava spiegando come funzionava quello
stupefacente impianto, quando la terra iniziò a tremare.
All’inizio
pensai ad un terremoto, ma solo quando uscii
associai quell’esplosione alla bomba che la C.A.O.S. aveva
sganciato. Tutti gli
stati dell’Europa e degli Stati Uniti erano stati attaccati,
colpendo le zone più
popolose o centrali nucleari, in modo da creare un effetto a catena
ancora più
devastante di quello principale della singola bomba.
La
galleria principale crollò e noi rimanemmo bloccati
all’interno dell’impianto. Nostro zio fu positivo,
nonostante la situazione
difficile. Non conoscendo la vera situazione eravamo certi che i
soccorsi
fossero già in arrivo, quindi, inizialmente non ci
preoccupammo molto. Al
massimo saremmo rimasti intrappolati per una settimana o due. I
magazzini
sotterranei erano adatti ad ospitarci: c’era cibo e acqua in
grado di sostenere
più di trecento persone per tre mesi, potevano benissimo
bastare per noi.
Ma
non arrivò mai nessuno.
Nessun
rumore dalla superficie, nemmeno un urlo.
Dopo
un mese avevamo accettato il fatto che nessuno
sarebbe venuto ad aiutarci. I giorni passavano lenti, sotto le fredde
luci
elettriche che illuminavano i corridoi dell’impianto
sotterraneo. Eravamo
sprofondati in un profondo, disperato mutismo. Pregavamo e speravamo di
sentire
un rumore, una scavatrice o una voce che ci mettesse in contatto, dalla
radio
con la superficie. Ma l’unico rumore che sentivamo erano le
scosse delle
tempeste elettrostatiche che bombardavano il terreno sopra di noi.
Ade
aveva trovato una radio per mettersi in contatto
con la superficie, ma le radiazioni bloccavano qualsiasi comunicazione
con
l’esterno.
Eravamo
prigionieri di quelle gallerie.
Avevo
nove anni quando tentammo di uscire in
superficie, liberando la strada ostruita. Avremmo dovuto scavare per
oltre
cento metri in verticale, cosa pericolosissima, visto che rischiavamo
di farci
crollare una valanga di macerie e travi d’acciaio addosso,
anche se era l’unico
modo per risalire.
Nonostante
le proteste di mia madre, capii che non
potevo rimanere con le mani in mano, così, per quanto
giovani, io e Nico
decidemmo di aiutarlo nella sua pericolosa impresa. Era faticoso,
pericoloso e
molto, forse troppo, lento, ma almeno avevo uno scopo per andare
avanti,
qualcosa su cui concentrarmi per non impazzire, anche se non volevo
immaginare
la desolazione all’esterno.
Per
due anni continuammo a scavare in verticale,
puntellando ogni singolo centimetro che liberavamo. Un paio di volte
rischiò,
persino, di crollarci addosso tutto, ma Ade ebbe sempre tutto sotto
controllo e
riuscì, con la sua abilità da ingegnere ad
evitare il disastro.
A
dodici anni, finalmente, riuscimmo a vedere l’uscita.
Il
problema era che le radiazioni erano ancora troppo
intense e così decidemmo di rintanarci sottoterra, fino a
che la situazione non
fosse migliorata.
Nel
sottosuolo io, Nico e Bianca fummo istruiti dalle
nostre madri che ci insegnarono, non solo le lezioni base, ma anche le
loro
conoscenze in infermieristica e medicina. Dopotutto mia mamma era un
medico e
mia zia un’infermiera, insomma, una fortuna per noi. Nostro
zio ci insegnò come
estrarre l’acqua dalle rocce e a raffinare il petrolio grezzo
per poterlo usare
come alimentazione per i motori automatici che accendevano le luci e
tenevano
in funzione alcuni macchinari.
E
così andò per dodici lunghi anni.
Mi
svegliai ad un’ora imprecisata della mattina che
dovevano essere, secondo l’orologio, le dieci. Sbuffai e mi
levai a sedere. Da
quando era accaduto il disastro dormivo in un vecchio dormitorio, su un
materasso distrutto e sotto una coperta sfatta e vecchia.
Mi
alzai e presi l’acqua dal secchio vicino,
sciacquandomi la faccia. Il liquido increspato mi rimandò il
mio riflesso: un
ragazzo di vent’anni, leggermente emaciato, pallido, con i
capelli castano
scuro mossi e gli occhi verde mare. Ero magro, anche se non ero tutto
pelle ed
ossa grazie alle fatiche degli anni passati che mi avevano mantenuto i
muscoli
allenati. Sbuffai e mi vestii con un paio di jeans da lavoro ed una
camicia
sudicia. La stessa da chissà quanti anni.
“Ehi…”
Mi salutò Nico, stropicciandosi gli occhi. Lui
aveva capelli mossi neri e occhi dello stesso colore, come le nere
profondità
in cui eravamo prigionieri. Era molto più magro di me, e
molto più minuto.
“Buongiorno…
come va’?” Chiesi, con un sorriso triste.
Come doveva andare? Eravamo imprigionati lì sotto da anni e
le cose, tra noi,
erano un po’ strane. Ormai eravamo praticamente fratelli,
dato che dormivamo
insieme e condividevamo tutto.
L’unico
nostro passatempo erano gli unici due mazzi di
mitomagia che ci eravamo portati dietro dal giorno in cui eravamo stati
imprigionati. Anche Bianca era stata coinvolta, ogni tanto, ma lei era
molto
più studiosa e rimaneva sempre in disparte.
“Sto
bene… solo un po’… stanco di stare
qui.” Rispose
Nico, con lo sguardo triste.
“Dai…
un giorno usciremo.” Lo rassicurai, dandogli una
pacca sulla spalla.
Lui
sorrise e io lo lasciai solo a prepararsi, mentre
uscivo, seguendo il corridoio scavato nella roccia.
“Buongiorno
Percy.” Mi salutò Bianca, passandomi
accanto con aria abbattuta.
“Ciao.”
Fu la mia laconica risposta. Avrei voluto
parlarle di più, ma di cosa cavolo dovevamo parlare? Eravamo
imprigionati.
Arrivati
al pozzo centrale salutai Maria e mia mamma e
mangiai. Da molto avevamo razionato il cibo, per assicurarci che
durasse abbastanza
da mantenerci in vita. Così ero magro e mangiavo poco, se
fosse dipeso da mia
mamma, avrei dovuto mangiare tre volte tanto, ma non potevamo
permetterci
razioni normali.
“Vado
ad aiutare zio.” Borbottai, masticando la
merendina che mi sarebbe dovuta bastare per mezza giornata come se
fosse
cartone.
“Stai
attento, tesoro.” Mi raccomandò mia madre Sally,
dandomi un bacio sulla fronte.
Le
sorrisi, incapace di essere triste con lei, e mi
avviai verso il pozzo centrale, dove mio zio stava calando un secchio
verso
l’oscuro pozzo nero sotto di noi. Era diventato molto magro,
gli occhi scuri
erano infossati e aveva una corta barba nera come i capelli mossi. Il
viso era
magro ed emaciato più del mio, tanto da dargli
l’aspetto di uno scheletro.
“Ehi,
ragazzo. Come va’?” Mi salutò
affaticato, mentre
tirava su il secchio pieno del prezioso e viscoso liquido nero che ci
permetteva di avere un minimo di condizioni di vita decenti,
lì sotto.
“Come
sempre… siamo intrappolati qui.” Risposi
seccamente.
Ormai
le conversazioni erano quelle: nulla di più,
nulla di meno. Nessuno di noi aveva argomenti su cui parlare, a meno
che non
comprendesse un altro modo per estrarre acqua dalla pietra calcarea o
la
colorazione dei muschi nell’area ristoro ad ovest.
“Te
la sentiresti di venire su con me?”
Ecco,
questa domanda mi lasciò di stucco, tanto che
rischiai di far cadere il secchio di sotto.
“Cosa!?”
Chiesi stupito, guardandolo negli occhi
incavati. “Sei impazzito, zio? Lo sai che se le radiazioni
sono forti come
l’anno scorso rischiamo di scioglierci.”
Già
l’anno prima infatti, avevamo tentato qualcosa di
simile, ma le radiazioni erano ancora così forti che fummo
costretti ad
abbandonare l’impresa, prima di morire dolorosamente.
“Ho
già controllato, il livello di radiazioni è
basso,
credo possiamo tentare.” Disse lui, senza troppa convinzione.
Io
sospirai: quando prendeva una decisione era
difficilissimo fargli cambiare idea. Ci volle molto tempo per
convincere mia
madre e mia zia a farci andare, soprattutto mia mamma che si mise ad
urlare
istericamente che non intendeva farmi correre un rischio simile. Ade,
però, fu
molto persuasivo e mostrò più volte i dati che
aveva raccolto: le radiazioni si
dovevano essere diradate da tempo ed infine, riuscì a
convincerle a farmi
andare di sopra.
Nella
mia stanza osservai il mio mazzo di mitomagia
sospirando ansioso. Benché l’idea di tornare in
superficie mi allettasse,
temevo di non riuscire più a tornare. Quella prigione, che
ormai sapeva di
casa.
“Cavolo
Percy! Potremmo riuscire ad uscire, questa
volta!” Esclamò Nico, entrando di corsa, scostando
la lacera tenda che era la
nostra porta. Di solito non c’era mai entusiasmo la sotto, ma
di notizie di
questo tipo ne ricevevamo pochissime.
“Già…
che bello.” Mormorai, osservando i vestiti che mi
erano stati dati per uscire.
“Sembri…
preoccupato.” Osservò mio cugino, sedendosi
accanto a me.
“Lo
sono… se tuo padre si sbaglia… attraversare
quella
porta mi ucciderebbe. Un po’ d’ansia
c’è.” Ammisi sospirando, osservando con
intensità quel mazzo di carte dello stupidissimo gioco che
mi aveva fatto
compagnia per dodici anni di solitudine.
“Mio
padre è sicuro. Ce la faremo e torneremo a vedere
il sole.” Sorrise all’idea di poter uscire di
lì.
“Già…
senti, Nico, se non dovessi tornare giù… ti
voglio bene, cugino.” Lo abbracciai commosso e lui fece
altrettanto.
“Tornerai,
Percy, ne sono certo.”
Quando
uscii abbraccia Bianca che mi sorrise
incoraggiante e mi dette un bacio sulla guancia.
“Cerca
di tornare vivo, cugino, voglio rivederti.” Mi
augurò, appoggiando la testa al mio petto, quasi temesse di
non vedermi più
(Cosa altamente probabile.)
“Non
preoccuparti, Bianca. Tornerò.” Promisi,
accarezzandole i lunghi capelli neri.
Davanti
a noi c’era la scaletta metallica che portava
in superficie. Era talmente incrostata che non rifletteva nemmeno la
luce delle
torce con cui ci facevamo strada. Anche se era caldissimo indossavamo
enormi
giacconi, guanti, pantaloni spessi, scarpe pesanti e due passamontagna
con una
mascherina che copriva bocca e naso.
Il
massimo della protezione contro le radiazioni,
dandoci al massimo tre secondi in più di vita, rispetto agli
abiti normali.
“Pronto?”
Chiese mio zio avvicinandosi toccando il
metallo con cautela, per poi issarsi lungo la scaletta che ci avrebbe
portato
fuori.
“Ti
sono alle spalle.” Borbottai, stringendomi il
giaccone, tremando, nonostante il caldo tremendo.
Ci
arrampicammo veloci fino in cima, dove la grotta si
aprì in un corridoio non molto lungo, con in fondo una
pesante porta metallica.
Il contatore Geiger emetteva un flebile e ritmico suono che indicava il
fatto
che non c’erano molte radiazioni.
“Pronto?”
Chiese mio zio, mettendo mano sulla maniglia
della porta. “Se dovesse aumentare troppo, corri verso le
scale e forse, non
morirai.”
“Ottimo.”
Biascicai, con tutti i muscoli tesi nello
sforzo di non darmela subito a gambe.
“Allora
andiamo.” E detto questo, aprì la porta.
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[Angolo
dell’autore]
Benvenuti
ad After the Fall, la mia personale storia
AU post-apocalittica di Percy Jackson. Un’idea un
po’ “Alternativa” che spero
vi piaccia. Questa storia è una Percabeth mooooolto lunga e
molto avvincente,
dove il nostro adorato protagonista si ritroverà a doversi
mettere alla prova
in tutti i sensi.
Ce
la farà a sopravvivere nel mondo post
apocalittico che gli si presenta davanti?
Spero
che voi tutti mi recensite perché la storia è
particolare.
AxXx