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Autore: AxXx    22/02/2014    14 recensioni
Il mondo è cambiato. Nel lontano 2020 un ragazzo di nome Percy Jackson e ciò che rimane della sua famiglia esce da un labirinto sotterraneo per ritrovarsi in un America devastata da un lungo e terribile bombardamento nucleare che ha trasformato le verdeggianti pianure in sterili deserti battute dalle radiazioni.
Alla ricerca di una nuova casa, dall'altra parte del paese, dove le montagne hanno protetto la California, Percy Jackson incontrerà la bella Annabeth Chase, come lui, alla ricerca di una nuova casa, ma inseguita dal terribile James "Mad Dog" Castellan e da suo figlio Luke, ex terroristi membri della C.A.O.S., al comando di una pericolosissima banda di criminali.
Riusciranno a salvarsi la vita?
[AU, coppie: Percabeth, Jasper, Talico, Caleo, Franck/Hazel]
Genere: Azione, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Annabeth Chase, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Violenza
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                         Fuga dal Buio

 

 

 

 

 

 

 

Salve, io sono Percy Jackson.

Questa è la mia storia: la storia di come mi sono salvato e di come, forse, vi siete salvati molti di voi.

Sono nato nell’anno duemila. Un comune ragazzo di una comune cittadina della California dove vivevo con mia madre, Sally Jackson. Mio padre era un soldato di marina morto un anno dopo la mia nascita. Mia madre non ama parlarne, ma gli manca molto. La verità è che, con tutto quello che ci è accaduto, non ci pensiamo più molto, soprattutto perché a me non interessa.

Crebbi in questa cittadina dove andai a scuola insieme a decine di miei coetanei, fino ad otto anni.

Era il diciotto dicembre quando mia madre tornò a casa con due biglietti aerei per Dallas, dove mio zio Ade di Angelo lavorava. Con lui non avevo buoni rapporti, ma io adoravo un sacco i miei cugini: Nico di Angelo di sette anni e la piccola Bianca di sei. Partimmo il giorno dopo con i nostri bagagli pieni di vestiti e qualche stuzzichino. Era un epoca difficile e fare lunghi viaggi era molto costoso, ma mia mamma aveva un lavoro rispettabile e conservavamo sempre dei soldi per andare dai nostri cugini.

Il viaggio durò poche ore e quando arrivammo capii subito che non mi sarei mai dimenticato di quella vacanza, anche se non sapevo cosa sarebbe successo. Maria, Nico e Bianca vennero a salutarci e io abbracciai i miei cuginetti. La piccola Bianca mi strinse in un abbraccio caloroso, mentre Nico mi si aggrappò alla schiena per fare cavalluccio. Mio zio era a lavoro: era l’amministratore di un impianto petrolifero a sud di Dallas.

Arrivato alla loro casa, una semplice abitazione stile americana, mia zia ci promise una visita al nuovo impianto di Ade, cosa che, però, non suscitò per nulla il mio entusiasmo, al contrario di quello di Nico e Bianca che adoravano il loro papà.

Passai un giorno intero a giocare con Nico a Mitomagia, un gioco di carte e miniature che adoravamo entrambi, anche se, per me era solo un passatempo, mentre lui era un vero patito. Ogni tanto Bianca ci rubava qualche miniatura e ci costringeva a inseguirla per tutto il giardino ridendo come dei pazzi.

Quanto eravamo ingenui, all’epoca.

Era la sera del ventuno dicembre del duemiladodici quando arrivammo allo stabilimento di mio zio, sorvegliato dai militari che dovevano tenere la zona sotto controllo a causa delle minacce della C.A.O.S.

Ah, scusate, non sapete cos’è la C.A.O.S. è un acronimo che sta per Comitato Abbattimento Organizzato degli Stati: un’associazione terroristica che minacciava tutti i governi del mondo. Un anno prima si erano impossessati di un carico di venti testate nucleari minacciando di lanciarle su tutte le capitali del mondo, ma fin’ora non si erano fatti sentire.

Comunque gli impianti erano considerati dei bersagli a rischio e  soldati dell’L.D.M. (Lega per la Difesa Mondiale) avevano messo tutto sotto chiave, ma una volta appurati i documenti e i permessi che mia zia si era procurata ci lasciarono passare.

Dovetti ammettere che gli impianti si estendevano u un’area vastissima ed erano completamenti automatizzati ed autosufficienti. Un pozzo centrale collegava tutti i livelli sotterranei dell’impianto che ospitavano officine, laboratori e raffinerie per lavorare il prezioso elemento del petrolio, trasformandolo in benzina. C’erano persino due dormitori e un magazzino sotterraneo. Di solito ospitava gli operai che lavoravano lì, ma con le vacanze di natale era rimasto solo mio zio che controllava quotidianamente gli impianti per assicurarsi che funzionassero bene.

Zio Ade ci stava spiegando come funzionava quello stupefacente impianto, quando la terra iniziò a tremare.

All’inizio pensai ad un terremoto, ma solo quando uscii associai quell’esplosione alla bomba che la C.A.O.S. aveva sganciato. Tutti gli stati dell’Europa e degli Stati Uniti erano stati attaccati, colpendo le zone più popolose o centrali nucleari, in modo da creare un effetto a catena ancora più devastante di quello principale della singola bomba.

La galleria principale crollò e noi rimanemmo bloccati all’interno dell’impianto. Nostro zio fu positivo, nonostante la situazione difficile. Non conoscendo la vera situazione eravamo certi che i soccorsi fossero già in arrivo, quindi, inizialmente non ci preoccupammo molto. Al massimo saremmo rimasti intrappolati per una settimana o due. I magazzini sotterranei erano adatti ad ospitarci: c’era cibo e acqua in grado di sostenere più di trecento persone per tre mesi, potevano benissimo bastare per noi.

Ma non arrivò mai nessuno.

Nessun rumore dalla superficie, nemmeno un urlo.

Dopo un mese avevamo accettato il fatto che nessuno sarebbe venuto ad aiutarci. I giorni passavano lenti, sotto le fredde luci elettriche che illuminavano i corridoi dell’impianto sotterraneo. Eravamo sprofondati in un profondo, disperato mutismo. Pregavamo e speravamo di sentire un rumore, una scavatrice o una voce che ci mettesse in contatto, dalla radio con la superficie. Ma l’unico rumore che sentivamo erano le scosse delle tempeste elettrostatiche che bombardavano il terreno sopra di noi.

Ade aveva trovato una radio per mettersi in contatto con la superficie, ma le radiazioni bloccavano qualsiasi comunicazione con l’esterno.

Eravamo prigionieri di quelle gallerie.

Avevo nove anni quando tentammo di uscire in superficie, liberando la strada ostruita. Avremmo dovuto scavare per oltre cento metri in verticale, cosa pericolosissima, visto che rischiavamo di farci crollare una valanga di macerie e travi d’acciaio addosso, anche se era l’unico modo per risalire.

Nonostante le proteste di mia madre, capii che non potevo rimanere con le mani in mano, così, per quanto giovani, io e Nico decidemmo di aiutarlo nella sua pericolosa impresa. Era faticoso, pericoloso e molto, forse troppo, lento, ma almeno avevo uno scopo per andare avanti, qualcosa su cui concentrarmi per non impazzire, anche se non volevo immaginare la desolazione all’esterno.

Per due anni continuammo a scavare in verticale, puntellando ogni singolo centimetro che liberavamo. Un paio di volte rischiò, persino, di crollarci addosso tutto, ma Ade ebbe sempre tutto sotto controllo e riuscì, con la sua abilità da ingegnere ad evitare il disastro.

A dodici anni, finalmente, riuscimmo a vedere l’uscita.

Il problema era che le radiazioni erano ancora troppo intense e così decidemmo di rintanarci sottoterra, fino a che la situazione non fosse migliorata.

Nel sottosuolo io, Nico e Bianca fummo istruiti dalle nostre madri che ci insegnarono, non solo le lezioni base, ma anche le loro conoscenze in infermieristica e medicina. Dopotutto mia mamma era un medico e mia zia un’infermiera, insomma, una fortuna per noi. Nostro zio ci insegnò come estrarre l’acqua dalle rocce e a raffinare il petrolio grezzo per poterlo usare come alimentazione per i motori automatici che accendevano le luci e tenevano in funzione alcuni macchinari.

E così andò per dodici lunghi anni.

 

 

 

 

Mi svegliai ad un’ora imprecisata della mattina che dovevano essere, secondo l’orologio, le dieci. Sbuffai e mi levai a sedere. Da quando era accaduto il disastro dormivo in un vecchio dormitorio, su un materasso distrutto e sotto una coperta sfatta e vecchia.

Mi alzai e presi l’acqua dal secchio vicino, sciacquandomi la faccia. Il liquido increspato mi rimandò il mio riflesso: un ragazzo di vent’anni, leggermente emaciato, pallido, con i capelli castano scuro mossi e gli occhi verde mare. Ero magro, anche se non ero tutto pelle ed ossa grazie alle fatiche degli anni passati che mi avevano mantenuto i muscoli allenati. Sbuffai e mi vestii con un paio di jeans da lavoro ed una camicia sudicia. La stessa da chissà quanti anni.

“Ehi…” Mi salutò Nico, stropicciandosi gli occhi. Lui aveva capelli mossi neri e occhi dello stesso colore, come le nere profondità in cui eravamo prigionieri. Era molto più magro di me, e molto più minuto.

“Buongiorno… come va’?” Chiesi, con un sorriso triste. Come doveva andare? Eravamo imprigionati lì sotto da anni e le cose, tra noi, erano un po’ strane. Ormai eravamo praticamente fratelli, dato che dormivamo insieme e condividevamo tutto.

L’unico nostro passatempo erano gli unici due mazzi di mitomagia che ci eravamo portati dietro dal giorno in cui eravamo stati imprigionati. Anche Bianca era stata coinvolta, ogni tanto, ma lei era molto più studiosa e rimaneva sempre in disparte.

“Sto bene… solo un po’… stanco di stare qui.” Rispose Nico, con lo sguardo triste.

“Dai… un giorno usciremo.” Lo rassicurai, dandogli una pacca sulla spalla.

Lui sorrise e io lo lasciai solo a prepararsi, mentre uscivo, seguendo il corridoio scavato nella roccia.

“Buongiorno Percy.” Mi salutò Bianca, passandomi accanto con aria abbattuta.

“Ciao.” Fu la mia laconica risposta. Avrei voluto parlarle di più, ma di cosa cavolo dovevamo parlare? Eravamo imprigionati.

Arrivati al pozzo centrale salutai Maria e mia mamma e mangiai. Da molto avevamo razionato il cibo, per assicurarci che durasse abbastanza da mantenerci in vita. Così ero magro e mangiavo poco, se fosse dipeso da mia mamma, avrei dovuto mangiare tre volte tanto, ma non potevamo permetterci razioni normali.

“Vado ad aiutare zio.” Borbottai, masticando la merendina che mi sarebbe dovuta bastare per mezza giornata come se fosse cartone.

“Stai attento, tesoro.” Mi raccomandò mia madre Sally, dandomi un bacio sulla fronte.

Le sorrisi, incapace di essere triste con lei, e mi avviai verso il pozzo centrale, dove mio zio stava calando un secchio verso l’oscuro pozzo nero sotto di noi. Era diventato molto magro, gli occhi scuri erano infossati e aveva una corta barba nera come i capelli mossi. Il viso era magro ed emaciato più del mio, tanto da dargli l’aspetto di uno scheletro.

“Ehi, ragazzo. Come va’?” Mi salutò affaticato, mentre tirava su il secchio pieno del prezioso e viscoso liquido nero che ci permetteva di avere un minimo di condizioni di vita decenti, lì sotto.

“Come sempre… siamo intrappolati qui.” Risposi seccamente.

Ormai le conversazioni erano quelle: nulla di più, nulla di meno. Nessuno di noi aveva argomenti su cui parlare, a meno che non comprendesse un altro modo per estrarre acqua dalla pietra calcarea o la colorazione dei muschi nell’area ristoro ad ovest.

“Te la sentiresti di venire su con me?”

Ecco, questa domanda mi lasciò di stucco, tanto che rischiai di far cadere il secchio di sotto.

“Cosa!?” Chiesi stupito, guardandolo negli occhi incavati. “Sei impazzito, zio? Lo sai che se le radiazioni sono forti come l’anno scorso rischiamo di scioglierci.”

Già l’anno prima infatti, avevamo tentato qualcosa di simile, ma le radiazioni erano ancora così forti che fummo costretti ad abbandonare l’impresa, prima di morire dolorosamente.

“Ho già controllato, il livello di radiazioni è basso, credo possiamo tentare.” Disse lui, senza troppa convinzione.

Io sospirai: quando prendeva una decisione era difficilissimo fargli cambiare idea. Ci volle molto tempo per convincere mia madre e mia zia a farci andare, soprattutto mia mamma che si mise ad urlare istericamente che non intendeva farmi correre un rischio simile. Ade, però, fu molto persuasivo e mostrò più volte i dati che aveva raccolto: le radiazioni si dovevano essere diradate da tempo ed infine, riuscì a convincerle a farmi andare di sopra.

 

 

 

 

Nella mia stanza osservai il mio mazzo di mitomagia sospirando ansioso. Benché l’idea di tornare in superficie mi allettasse, temevo di non riuscire più a tornare. Quella prigione, che ormai sapeva di casa.

“Cavolo Percy! Potremmo riuscire ad uscire, questa volta!” Esclamò Nico, entrando di corsa, scostando la lacera tenda che era la nostra porta. Di solito non c’era mai entusiasmo la sotto, ma di notizie di questo tipo ne ricevevamo pochissime.

“Già… che bello.” Mormorai, osservando i vestiti che mi erano stati dati per uscire.

“Sembri… preoccupato.” Osservò mio cugino, sedendosi accanto a me.

“Lo sono… se tuo padre si sbaglia… attraversare quella porta mi ucciderebbe. Un po’ d’ansia c’è.” Ammisi sospirando, osservando con intensità quel mazzo di carte dello stupidissimo gioco che mi aveva fatto compagnia per dodici anni di solitudine.

“Mio padre è sicuro. Ce la faremo e torneremo a vedere il sole.” Sorrise all’idea di poter uscire di lì.

“Già… senti, Nico, se non dovessi tornare giù… ti voglio bene, cugino.” Lo abbracciai commosso e lui fece altrettanto.

“Tornerai, Percy, ne sono certo.”

Quando uscii abbraccia Bianca che mi sorrise incoraggiante e mi dette un bacio sulla guancia.

“Cerca di tornare vivo, cugino, voglio rivederti.” Mi augurò, appoggiando la testa al mio petto, quasi temesse di non vedermi più (Cosa altamente probabile.)

“Non preoccuparti, Bianca. Tornerò.” Promisi, accarezzandole i lunghi capelli neri.

 

 

 

Davanti a noi c’era la scaletta metallica che portava in superficie. Era talmente incrostata che non rifletteva nemmeno la luce delle torce con cui ci facevamo strada. Anche se era caldissimo indossavamo enormi giacconi, guanti, pantaloni spessi, scarpe pesanti e due passamontagna con una mascherina che copriva bocca e naso.

Il massimo della protezione contro le radiazioni, dandoci al massimo tre secondi in più di vita, rispetto agli abiti normali.

“Pronto?” Chiese mio zio avvicinandosi toccando il metallo con cautela, per poi issarsi lungo la scaletta che ci avrebbe portato fuori.

“Ti sono alle spalle.” Borbottai, stringendomi il giaccone, tremando, nonostante il caldo tremendo.

Ci arrampicammo veloci fino in cima, dove la grotta si aprì in un corridoio non molto lungo, con in fondo una pesante porta metallica. Il contatore Geiger emetteva un flebile e ritmico suono che indicava il fatto che non c’erano molte radiazioni.

“Pronto?” Chiese mio zio, mettendo mano sulla maniglia della porta. “Se dovesse aumentare troppo, corri verso le scale e forse, non morirai.”

“Ottimo.” Biascicai, con tutti i muscoli tesi nello sforzo di non darmela subito a gambe.

“Allora andiamo.” E detto questo, aprì la porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[Angolo dell’autore]

Benvenuti ad After the Fall, la mia personale storia AU post-apocalittica di Percy Jackson. Un’idea un po’ “Alternativa” che spero vi piaccia. Questa storia è una Percabeth mooooolto lunga e molto avvincente, dove il nostro adorato protagonista si ritroverà a doversi mettere alla prova in tutti i sensi.

Ce la farà a sopravvivere nel mondo post apocalittico che gli si presenta davanti?

Spero che voi tutti mi recensite perché la storia è particolare.

AxXx

  
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