II.
Un’altra
nota e l’acqua si levò, catturando i raggi del
sole
e rifrangendoli sulla spiaggia, mentre i tratti liquidi si modellavano
fino a
formare la sagoma appena abbozzata di un volto umano. La melodia si
articolò sui
vari livelli, trillando armoniosa, facendo fremere
l’atmosfera stessa d’aspettativa.
Le dita di Myde
danzavano come un’entità viva sul citar,
pizzicando con infallibile delicatezza le corde, sfiorandole quasi alla
maniera
di un amante. Attorno a lui, mentre i flussi di magia manipolatrice si
espandevano e si intrecciavano condotte dalla musica, altre figure
traslucide
sorsero sulla battigia. Il mare cantava assieme al giovane e le loro
voci si
unirono, l’una leggera e fresca, l’altra profonda
ed ancestrale come il tempo
stesso. Myde eseguì una scala con velocità
inconcepibile, eppure note ed acqua
si levarono cristalline e chiaramente percepibili all’udito
umano, trillando
con energia. Il giovane elevò la sua musica con un
virtuosismo incredibile,
portandola a sfiorare i cieli, le nubi, il Sole ardente ed i pianeti
scintillanti, ruggendo la sua superiorità su tutti loro.
Myde raffinò ancora i
flussi che si diramavano da lui, manipolando l’acqua con una
facilità
impressionante mentre questa lo avvolgeva in un involucro scintillante,
rilucente fino a sembrare un enorme sfera di luce.
A quel punto,
sulla spiaggia non c’era più nessun essere
umano vivo.
I flussi
così finemente modellati si afflosciarono su sé
stessi,
crollando l’uno sull’altro come un gigantesco
castello di carte, sfasciando il
finissimo intrico della manipolazione elementare, facendo rifluire
l’acqua
sulla sabbia bagnata. Myde ansimò in cerca d’aria,
i polmoni in fiamme, il
citar già evanescente nelle sue mani. E il cuore che faceva
male. Molto male.
Si
alzò soffocando un grido di dolore. Alberi abbattuti dalla
pura forza delle onde languivano squarciati e strappati dalle loro
radici
secolari, semi affondati nei crateri che avevano sconvolto
l’intero panorama.
Poco lontano la
spiaggia distrutta, là dove la foresta
tropicale un tempo sbarrava l’accesso al piccolo villaggio di
palafitte,
piccole pozze d’acqua si scorgono a malapena attraverso
l’intrico di rovi e
piante carbonizzate, violentate dalla pura rabbia del fuoco. I polmoni
di Myde
erano trafitti da mille spilli di ghiaccio acuminati. Quella non era
stata la
parte più faticosa. Quando era al pieno delle sue forze, era
facile per lui
manipolare i corpi stessi, aumentando il livello di acqua nel corpo
fino a
farlo sciogliere in minuscole goccioline.
I piedi del
giovane affondavano nella sabbia bagnata. Myde
procedeva curvo e faticava a reggersi in piedi, ma sarebbe passata. La
vista
gli si sarebbe snebbiata dopo poco, bastava non farsi vedere in quello
stato da
Axel. Avanzò lentamente verso il varco aperto fra gli
alberi, in mezzo al fumo
che si espandeva in larghe volute. Merda,
imprecò fra sé. Quella sensazione stava tornando
di nuovo a strisciare in lui,
piccola e subdola come una delle murene di Ursula. Myde sperava che,
una volta
pronto, il senso di colpa sarebbe sparito del tutto.
Anche senza
saper percepire le aure, tecnica basilare che
Myde non aveva ancora imparato, era facile accorgersi che Axel si
trovava a
poca distanza. L’odore acre del fumo fece lacrimare gli occhi
al suonatore; per
uno come lui, abituato alla frescura e al refrigerio del mare
sterminato, il
caldo poteva diventare anche un’arma mortale.
Calpestò alcune foglie secche e
bruciacchiate, che si sbriciolarono non appena il piede, coperto dalla
lunga
veste di stoffa nera, le calpestò.
<<
Axel? >> Chiamò, esitante. Il fumo stava
cominciando a fargli perdere l’orientamento. <<
Axel! >> Myde si
porto una mano coperta dal guanto sulla fronte imperlata di sudore. I
capelli
biondo rame si erano incollati alla nuca, ed il solito ciuffo ribelle
penzolava
moscio sulla fronte, coprendogli la visuale. Diede un colpo di tosse,
poi un
altro.
<<
Axel!
>>
Quasi
impercettibilmente, il fumo cominciò a diradarsi. La
gola di Myde bruciava.
<<
Axel! >>
Questa volta non
fu lui a parlare. Il pirocinetico fendette
il fumo verso di lui. Corpo magro, atletico e scattante, Axel
reclinò indietro
la testa e rise sonoramente in un lampo di denti bianchi. Fiammelle
evanescenti
guizzavano attorno al suo viso, schizzando tanto rapidamente che a Myde
sarebbe
venuta la nausea, se li avesse guardati a lungo. Il Numero VIII lo
chiamò
ancora in falsetto, gli occhi verdi che brillavano divertiti. No, si rese disperatamente conto Myde,
questa volta la debolezza non sarebbe passata tanto in fretta. Sentiva
l’enorme
sforzo occorsogli inaridirlo dentro, prosciugarlo, anche se in teoria
il suo
elemento avrebbe dovuto essere l’acqua. Il dolore acuto
continuava, ma questa
volta stava espandendosi. Myde
strinse disperatamente i denti, tremando. La voce beffarda di Axel
risuonò
lontana.
<<
Non dovresti sforzarti così, piccolo mezzosangue.
>>
L’appellativo
lo ferì ancora di più del dolore sordo ed
ottundente. La magia di manipolazione lo seccava dentro ogni volta di
più. Myde
sentiva con devastante i chiarezza i suoi geni umani cercare di
ribellarsi,
contaminati da una magia incompatibile con loro. E il risultato era
sempre
dolore.
<<
Dà - … >> Stava per chiederglielo.
La sua mente era annebbiata, lo sentiva benissimo.
No.
Non lo avrebbe
fatto.
Qualsiasi cosa
succeda, non avrebbe accettato la pietà di
Axel. Si sarebbe rialzato da solo.
<<
Che cosa, bambolo? Non ce la fai più? >>
Frustrazione. Crepa, Axel.
E
’stata colpa di quegli idioti dei suoi genitori. No
– delle
persone che lo hanno fatto
nascere. Ariel ed Eric non
sarebbero stati mai i suoi veri genitori.
Era nato
così, Myde lo sapeva. Mezzosangue. Tritonide ed
umano al tempo stesso. Dio, ci aveva provato. Lui, da solo, sarebbe
stato in
grado di controllare e centuplicare la potenza del Tridente. Avrebbe
potuto
regnare su terra e mare insieme, ed era più potente di
quanto lo stesso Tritone
non avrebbe mai potuto sognare. Lo era stato, e lo era diventato ancora
di più.
Ci aveva provato, ma era difficile farsi accettare come sé
stesso – vale a dire
come un ibrido – se ti
trovi in una
società rigida, classista e purista, che spesso e volentieri
organizza
sposalizi fra cugini per mantenere puro il sangue. Ovviamente
è ancora più
difficile se sei rinchiuso per metà del giorno in un campo
di contenzione, come
una bestia pericolosa, e con delle limitazioni magiche programmate per
forze
molto inferiori – cosa che, lui lo sa, può
provocarti un male cane.
Sfortunatamente,
questa banale associazione di idee non è mai
stata del tutto chiara a sua madre, che comunque avrà visto
si è no una
manciata di volte in tutto l’arco della sua vita.
Logicamente, non poteva
importargli che un potere così avrebbe potuto ucciderlo. A chi mai sarebbe importato?
<<
Vattene, Axel. >> Myde tentò di rialzarsi. Il
dolore andava poco a poco scemando, ma lui era ancora troppo debole.
<<
Vattene! >>
Rialzò
lo sguardo. Pian piano sentiva il dolore scemare, ma
la debolezza lo invadeva ancora. Si accorse di avere la mascella
serrata per la
rabbia, rabbia che lo travolgeva.
In
più, Axel doveva essersene già andato da un pezzo.
Come la
stanchezza ed il dolore, anche il fumo si stava
diradando. Appoggiato ad uno dei tronchi, mentre i rumori degli altri
membri
che ingaggiavano battaglia sul mondo da conquistare arrivavano
attutiti, Myde
si rimise in piedi. Compì tutto il tragitto inverso,
superando di nuovo i
crateri, le pozze d’acqua, la spiaggia distrutta e la
battigia. Proseguì,
immergendo i piedi nel mare, poi il torso. La veste dei neofiti era
pesante e
bagnata.
Myde
tuffò la testa sott’acqua e subito dopo prese un
gran
respiro. I fondali marini si spalancavano vividamente davanti a lui.
Soffocò la
rabbia. Come ogni altra cosa, ogni altra dannata battaglia, sarebbe
passata. Si
strinse il petto con amarezza, più forte, sempre
più forte. Come se potesse
togliersi il cuore e gettarlo in acqua.
*
Aveva chiuso gli
occhi. Come sempre, da quando era bambino,
tentava istintivamente di resistere al sonno, di opporsi alla disperata
pesantezza delle palpebre. Alla fine però si era rassegnato;
come per magia,
aveva cominciato a respirare nel tipico modo dei dormienti, e la sua
mente fu
avvolta nell’incoscienza dopo un ultimo pensiero.
Forse
stavolta non
verrà.
Ovviamente,
venne.
*
Come ogni volta,
era inconsapevole che si trattasse di un
sogno. Sentiva la vaga sensazione di immaterialità, di
indefinito propria dei
sogni, aleggiare attorno a lui, ma la sua mente semicosciente si
rifiutava di
fare il collegamento.
Come in molti
dei sogni, era piccolo. Quella volta stava
seduto a gambe incrociate sull’ampio letto a baldacchino
degli appartamenti
reali, le gambette che affondavano nel morbido materasso. Indossava un
piccolo
farsetto verde brillante, riadattato appositamente per le sue forme di
bambino
florido; dal colletto, che quasi gli sfiorava le guance paffute, un
gigantesco
foulard dorato erompeva come un fiume in piena che avesse rotto gli
argini. Il
ragazzino era fastidiosamente consapevole dei bottoni pericolosamente
tesi a
tenere insieme il voluminoso panciotto che portava al di sopra del
farsetto.
Si stava
annoiando. Myde sbuffò e si afferrò le ginocchia
con
le mani, dondolandosi simile ad una palla per qualche minuto. Intanto,
la porta
verde continuava a rimanere chiusa: nessuno che la aprisse o che
entrasse anche
solo a dare un’occhiata. Lena, magari, ma non Greta, no ( vecchia arpia pelosa ), Lena era giovane
e simpatica e gentile, con
un sorriso che illuminava Myde da cima a fondo. Greta invece era
adunca, magra
come uno stecco, e spesso lo guardava con manifesto disprezzo. La sera
prima
Myde gli aveva rovesciato addosso la zuppa, dopo che lei aveva
ridacchiato ed
aveva detto non ricordava più cosa fra sé e
sé.
Lei lo aveva fulminato con uno sguardo che avrebbe fatto
intimidire suo
nonno e aveva borbottato qualcosa sui ragazzini viziati e ibridi, qualsiasi cosa volesse dire. Per
un po’ il bambino aveva
temuto che lei lo andasse a raccontare a qualcuno, poi si era ricordato
di
essere un nobiluomo. Come si diceva nel suo caso, nobilbimbo?
Aggrottò le
sopracciglia perplesso e i suoi occhietti verde mare sembrarono
affondare nelle
guance. Non lo sapeva.
Dopo un
po’ di tempo Myde avrebbe visto volentieri anche
Greta, se non altro per rovesciargli addosso altra zuppa (
Andava tutta giù per i capelli!). La camera era
silenziosa, come
se fosse stata in un altro mondo. Sopra il tripudio di pizzi e coperte
del
letto a baldacchino, gli arazzi verdi intarsiati d’oro, con
il Tridente e le
Sirene Gemelle simbolo della Monarchia del mare, frusciavano agitati da
una
lieve brezza. Una grande finestra di corallo trasparente, che occupava
quasi
tutta una parete, mostrava l’oceano.
Myde ci
andò davanti e vi appiccicò il viso grassoccio,
ammirato come sempre. Davanti a lui, centinaia di pesci, granchi, carpe
di ogni
forma e colore formavano un enorme serpente colorato, prima rosso poi
blu poi (
E’ bellissimo! Wow! )
giallo poi
verde …
Piccole
macchioline stavano ballando negli occhi di Myde. Il
ragazzino distolse lo sguardo, leggermente stordito. Quello era solo il
traffico minore, quello dei piani più bassi delle altissime
torri affusolate.
Guardando sotto il davanzale Myde vedeva, attraverso la finestra ed il
blu
scuro del mare, le pietre lucide della base della costruzione affondare
con
decisione nella sabbia molle, già assediata dalle alghe. In
alto, invece, la
luce cominciava a filtrare maggiormente.
Lunghi ponti di cristallo, alti ed affusolati, si inarcavano
innumerevoli
attraverso le torri sottili, intersecandosi in tutti modi possibili (
Bellissimo!!!! ) ed immaginabili attraverso quella perfetta
città, in
quelle architetture ardite edificate contro le leggi della fisica e dei
Mondi
dai Nuovi Tritonidi.
Questa
è Atlantica.
Bellezza. Purezza. E torri.
Non sembrava un
pensiero suo e Myde si chiese da dove fosse
uscito, ma era vero. Le torri, oh, le torri! Prive di merli, lisce,
affusolate,
così sottili che di profilo sarebbero potute scomparire,
cilindri con aree
quasi inesistenti, protese come dita di una bellissima creatura verso
la
superficie! Le torri così pure, così belle,
spaventosamente prive di
imperfezioni, monumento al potere del Popolo del mare!
In
realtà, tutti questi pensieri avrebbero potuto essere
riassunti, nella testolina di Myde, come un puro e semplice Wow! . Ma il significato era lo stesso.
Myde amava – no, adorava
– Atlantica,
la più bella città del mondo, il fulcro della
potenza degli abitatori del mare.
Nessuna città sulla terraferma, Myde ne era convinto, la
eguagliava.
Ovviamente,
erano ancora i primissimi tempi.
Qualcuno
bussò alla porta.
**
Si
rizzò a sedere sul letto, la camicia appiccicata al petto,
la bocca spalancata. Piccoli rivoli di sudore gli colavano dalla
fronte,
brividi di freddo lo scuotevano. Myde afferrò
l’orlo delle lenzuola scomposte,
tremando come una foglia.
Calma,
adesso. Calma.
Scostò
i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese.
Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene.
Scostò
i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese.
Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene. A
tentoni cercò
il lucciglobo vicino alla sponda del letto, lo trovò e vi
poggiò sopra una
mano. Dopo qualche secondo, la piccola sfera cominciò ad
emettere una lieve
luce soffusa, che a poco a poco rischiarò la stanza. Il
giovane si liberò delle
lenzuolo con un gesto infastidito, scuotendo la testa per abituarsi
alla luce.
Il lucciglobo era quasi giunto alla fine del suo ciclo vitale, si rese
conto
Myde guardando la sfera le cui onde luminose si facevano più
flebili di minuto
in minuto. Le pulsazioni vitali che l’oggetto emetteva
rischiaravano una stanza
in penombra, che aveva come unica mobilia il letto ed un tavolino con
qualche
sedia. Magliette e pantaloni erano sparsi spiegazzati o appallottolati
nel poco
spazio rimanente, formando una pila di vestiti pericolosamente in
bilico.
Avrebbe dovuto decidersi a mettere tutto a posto ( dove,
poi? ) ma non sarebbe poi cambiato molto. I vestiti sporchi
si sarebbero accumulati nuovamente prima o poi, no? Sbadigliando
ancora, Myde
aprì gli scuri malandati e lasciò che la luce del
giorno filtrasse attraverso
la camera.
Come
sempre un’onda di
suoni, odori e voci si riversò dalla finestra assieme alla
luce; una profusione
mescolata di profumo di torte di mele, richiami, suoni fruscii
incredibilmente
rimbombanti, sprazzi di luce che non provenivano dal sole o dai
lucciglobi
scassati ai lati delle strade. Nel suo solito modo chiassoso e
rimbombante, la
Città di Mezzo salutava gioiosamente il risveglio di Myde.
Il sole investiva la
piazza al di sotto dell’albergo scacciando le poche nubi in
cielo, posando i
suoi raggi sulla moltitudine di persone di ogni razza, etnia e colore
che
brulicava per le vie. Bancarelle sgangherate proliferavano come funghi
in ogni
spazio disponibile, a ridosso delle costruzioni, l’una
addossata all’altra,
persino in prossimità dei canali di scolo; sostenute con
assi di legno, casse,
o persino con la merce particolarmente resistente. Da un piccolo gazebo
fiori
di ogni sorta si avviluppavano indolenti sulla tenda e sui negozi degli
altri
commercianti, sfiorando le gabbiette appese a travi di legno in cui
esserini
simili a canarini e topi cinguettavano e squittivano, o trespoli dove
grandi
uccelli dai becchi adunche e le piume blu rosate scrutavano i passanti
con sguardo
arcigno. Decine di Moguri strillavano petulanti sopra le loro mercanzie
ammassate in ogni pertugio disponibile, piccoli batuffoli rosati che
parevano
in preda ad un ictus per quanto si agitavano. Una insettoide dal corpo
sottile
e le ali trasparenti si fece largo fra le bancarelle di legno scostando
bruscamente un uomo malmesso, che le imprecò dietro. La sua
voce si perse nella
cacofonia della piazza, il suono delle campane della torre, gli strilli
isterici dei Moguri. A Myde venne in mente il sogno che aveva fatto; se
Atlantica era il trionfo della bellezza razionale e cristallina, la
Città di
Mezzo era dominata dai vicoli, i mercati, il disordine che celava
segreti.
Inizialmente, la
futura città era composta da non più di
quattro case in croce, e neanche si sarebbe potuta chiamare villaggio
di
frontiera. Per quasi cinquant’anni della sua fondazione era
vissuta nel suo
polveroso isolamento, rinchiusa dalle barriere dei Mondi. Quei pochi
che la abitavano
erano ignoranti, rozzi, senza alcuna capacità degna di nota.
Il villaggio aveva
continuato ad esistere senza fare rumore, e non ne aveva in effetti
fatto.
Poi era arrivata
la rottura delle barriere. Di colpo le Vie
delle Stelle si erano riaperte, tracciando nuove rotte di collegamento
fra i
Mondi; le navi a reattore avevano pian piano tracciato una mappa dei
collegamenti fra gli Universi, e come risultato quelle quattro casupole
si
erano venute a trovare in un crocevia di collegamenti galattici.
Cosa
può succedere ad un villaggio che d’improvviso si
trova
in uno dei punti più importanti delle intere galassie?
Potrebbe venire
soppiantato rapidamente dalla miscela di usi, etnie e culture diverse
che
inevitabilmente convergeranno lì nei loro viaggi nel cosmo,
alla ricerca di
commerci e ricchezze. Oppure, come era successo a quel particolare
insediamento, avrebbe potuto trarre vantaggio dalla situazione.
Assorbire le
caratteristiche di un grande e brutto fungo creato mescolando senza
ritegno i
costumi più diversi in un calderone in procinto di esplodere
da un momento
all’altro. Così adesso la Città di
Mezzo era diventata potente, e ricca; una
disordinata metropoli variopinta di ogni colore ed abitata da ogni
razza. La
sua apertura quasi totale ai nuovi venuti che potessero permettersi
anche solo
un soldo di rame aveva fatto sì che centinaia –
migliaia – di persone di ogni
razza e colore si riversassero là, edificando capanne e case
di mattoni con i
materiali che trovavano, pronte in tutto e per tutto a ricominciare una
nuova
vita. Nella città si nascondevano reietti, ribelli,
agitatori sociali e
qualsiasi ogni altra classe scomoda nelle strutture politiche dei loro
mondi.
Si nascondevano negli alberghetti sgangherati, per le strade ed i
vicoli
illuminati fiocamente da lucciglobi, dormivano nelle casse o sulle
stesse
bancarelle che riuscivano a mettere su. In pochi anni la
Città di Mezzo aveva
decuplicato le sue dimensioni, e cresceva. Cresceva ancora, inglobando
villaggi
vicini, occupando terre. E ancora non si era fermata.
Con un sospiro,
Myde aprì la porta della pensione stretta fra
due grossi edifici di malta e mattoni immergendosi nella folla a
spintoni.
Spesso, nella Città di Mezzo, era l’unico modo per
crearsi una via da
percorrere nella calca. Un essere simile ad un rettile lo
fissò sospettosamente
torcendosi le dita artigliate ed unte, quindi tornò alla sua
bancarella con un
passo goffo ed ingobbito. Il giovane scostò uno degli
invadenti germogli rosa
che stringevano l’assedio attorno all’esercizio del
loro coltivatore e si
diresse a passo veloce verso uno dei vicoli che si irradiavano dalla
piazza
principale come vene sottili. Una vera e propria cascata di lucciglobi
legati
fra loro e in quantità tale da coprire quasi tutto lo spazio
aereo fra i due
marciapiedi della stradina ronzavano intermittenti, a tratti
spegnendosi come
quello della sua camera. Verso la fine del vicoletto alcuni palazzi
fatiscenti
proiettavano ombre sinistre sul selciato sterrato. Myde
imboccò con sicurezza
una svolta dietro l’altra, fino a compiere un largo giro.
Molte delle botteghe
erano ancora aperte anche quella sera, ma alcune avevano già
chiuso i battenti.
Un’insegna monca penzolava tristemente da una porta di legno
scheggiata.
Si rese conto,
d’improvviso, di essere solo nella via. Il
buio stava già iniziando a calare, a strisciare lungo i
sentieri sterrati o
ricoperti di selciato che fossero. Perché era rimasto chiuso
in casa? E perché
aveva dormito così tanto?
Interrogativi a
cui Myde non avrebbe saputo dare una
risposta. Continuò a camminare, accelerando il passo. La
bottega Struggle non
si trovava da nessuna parte. Iniziò ad innervosirsi.
Fortunatamente
per lui conosceva abbastanza bene quella parte
della città. Presto le squallide bottegucce lasciarono il
posto ai lucciglobi
ben funzionanti della piazza del mercato, ancora ammassata su
sé stessa come un
enorme animale. Il negoziante rettile stava cercando di convincere
l’essere
farfalla di poco prima ed un batuffolo di pelo con grandi orecchie
rosate a
comprare una sorta di germoglio avvizzito dal quale si sprigionavano
esalazioni
verdastre. Alcuni Moguri si stavano apprestando a disfare la merce
ancora
invenduta, stipando cristalli e fialette apparentemente fragili in
sacchi di
juta più grossi di loro. Vicino le fondamenta della grande
torre campanaria di
pietra, un orologiaio umano dai capelli paglierini e lo sguardo
intristito
stava rimettendo, con cura, i suoi strumenti in piccole fodere
malmesse. Myde
si avvicinò distrattamente. La pensione era proprio
là vicino. Alzò una mano
per salutare l’uomo e
Un
ronzio.
Era un suono
appena percettibile, eppure gli esplose in testa
con la violenza di un allarme antincendio. Frenetico, si
guardò intorno. La
donna farfalla emise un gridolino civettuolo e si avviò a
grandi passi verso un
viottolo laterale, mentre il rettile batteva le zampe squamate sul
legno della
sua bancarella e le vomitava addosso insulti.
Ed eccolo di
nuovo, quel ronzio, appena più persistente di
prima. Si modulò attraverso i tetti, i comignoli, le strade.
Myde, piano piano
…
Lo
identificò. Lo fece nello stesso momento in cui la donna
farfalla si irrigidiva ed emetteva un gridolino strozzato, nello stesso
istante
in cui il rettile, spalancando gli occhietti neri per la sorpresa,
lasciava
cadere la sua pianta e freneticamente si lanciava oltre il bancone,
sibilando.
Varchi oscuri
aperti nella città.
***
I bicchieri
tintinnarono sonoramente, accompagnati da una
risata nasale e sguaiata.
Paperino si
abbandonò scompostamente sull’ampio divano
laccato, affondato letteralmente fra i cuscini e le decorazioni
eccessive dei
vestiti donatigli. Gli abiti sontuosi ed eleganti costituivano un
bizzarro
contrappunto alla corporatura tozza e tondeggiante del piccolo
palmipede, ma
era evidente che lui non se ne preoccupava troppo, inebriato
com’era
dall’improvvisa fusione delle sue penne e piume con il lusso
di cui i signori
del palazzo gli avevano fatto dono. Sembrava leggermente avvinazzato.
Pippo
brindò con una certa perplessità. A differenza
del suo
compagno, l’allampanato Capitano dei Cavalieri aveva scelto
per la serata la
sua solita uniforme verde ricolma di tasche, stirata e pulita quanto
bastava.
Il suo lungo muso pieghettato si agitò esprimendo buffamente
il suo disagio.
Non doveva essere del semplice succo di fragole quello che stavano
bevendo? Per
sicurezza, non toccò il bicchiere. Paperino lo
scrutò perplesso per un attimo
da dietro il piumaggio arruffato, alzandosi per osservare il volto di
Pippo che
lo superava di quasi tutto il busto. Con una scrollata di spalle
mandò giù
l’intero contenuto del bicchiere, il pomo d’Adamo
che si alzava e si abbassava.
<<
Paperino … >> tentò Pippo con poca
convinzione. L’ex- Mago di Corte appoggiò il
bicchiere sul tavolino della Sala
degli Ospiti e sorrise. << Goditi la vita una volta
tanto! Quando ci
ricapiterà un’occasione del genere? Una mano si
agitò eloquentemente nell’aria
sbucando dalle maniche larghe a sbuffo. Vedendo che il compagno non
smetteva di
fissarlo serio, aggrottò la fronte.
<<
E’ solo per due giorni, no? Due giorni e poi ce ne
ritorniamo alle battaglie ed ai combattimenti. Tu con il tuo scudo, io
con il
mio scettro. E Sora con il suo Keyblade. Atlantica è un
mondo isolato dal resto
delle connessioni spaziotemporali, no? Di cosa ti preoccupi! Un qualche
Heartless
di frontiera ed avrà risolto tutto. >>
Pippo
annuì, di nuovo. Non l’avrebbe ammesso neppure con
sé
stesso, ma era preoccupato. Erano arrivati al punto di abbandonare Sora
per due
bicchieri dal dubbio contenuto? Preoccupato, e in colpa.
La promessa che
li legava a doppio vincolo al Custode, però
non c’era più. Era svanita assieme con Re
Topolino, l’ultimo sovrano del Trono
Bianco, Sua Maestà. Vincolati dal giuramento, i due
più fedeli servitori della
Monarchia Augusta avevano combattuto Heartless e Nessuno, salvato la
vita a
Sora innumerevoli volte … almeno quanto lui
l’aveva salvata a loro. Ricordò
Larxene che troneggiava su Sora, un sorriso crudele sul volto perfetto,
i
pugnali che le danzavano fra le dita affusolate. Si era lanciato
all’attacco, lo
scudo alzato, contro la malvagia figlia del fulmine pur di salvare il
Custode,
mentre la luce verde dell’incantesimo curante di Paperino
lampeggiava su di lui
steso a terra.
Marluxia.
Ricordò la sua falce arcuata sibilare verso Sora e
la Copia di Riku, ed il suo scudo segnato dalle tacche che la
intercettava con
le forze rimaste.
Poi si era anche
preso quella brutta botta in testa, alla
battaglia per la Fortezza Oscura che in seguito sarebbe stata chiamata
col nome
di Giardino Radioso, l’antico paradiso decaduto che Ansem il
Saggio aveva
costruito e che era stato distrutto e profanato dai suoi sei allievi
traditori
che avevano poi fondato l’Organizzazione XIII. Pippo aveva
affrontato quello e
molto di più.
La
verità era che si sentiva stanco. L’età
per certe cose non
l’aveva quasi più, e la mancanza della promessa
svanita assieme al Castello
Reale rendeva la tentazione di riposarsi ogni giorno più
forte. Quando l’occasione
si era presentata, Paperino non aveva esitato, e lui lo aveva seguito.
C’era
solo un piccolissimo difetto.
Sora aveva due
giorni di ritardo.
<<
Non è nulla >> aveva minimizzato Paperino
all’inizio.
Sora era sopravvissuto a centinaia di combattimenti, uno o due giorni
non
facevano la differenza. Ora che, all’imbrunire, non si era
ancora ripresentato,
Pippo cominciava a nutrire seri dubbi sulla sua incolumità.
<<
Oh, e va bene! >> Esplose Paperino,
innervosito. Sbatté il bicchiere sul tavolino corrugando la
fronte e balzò a
terra sulle zampe palmate arancioni. << Vuoi cercare quel
marmocchio?
>>
Il Capitano
annuì serio.