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Autore: FranxySnape    25/02/2014    3 recensioni
Questa fan fiction è una "what if" ed ha partecipato al contest "Another Family" di B e l l e.
Che cosa sarebbe successo se Albus Silente non avesse affidato Harry Potter ai Dursley lasciandolo davanti alla porta della loro abitazione? Il Preside di Hogwarts dovrà fare i conti con una scelta piuttosto difficile: affidare Harry ad un'altra persona. Qualcuno di più vicino a lui di quanto si possa pensare. L'infanzia di Harry sarà certamente diversa da una avuta tra i babbani, e, in una notte piena di decisioni molto difficili da prendere, Silente dovrà fare i conti anche con i propri sentimenti...
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aberforth Silente, Albus Silente, Harry Potter, Minerva McGranitt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
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Latte e speranza.



 
 
La notte sul castello di Hogwarts era appena calata, il cielo ospitava quel pallido spicchio di luna che sembrava osservare la grande foresta proibita da lassù illuminandola con la sua flebile luce. Albus Silente camminava avanti e indietro per il suo ufficio, quando d’improvviso sentì bussare.
“Vieni pure avanti Minerva, la porta è aperta”. La sua voce era bassa e calma.
Minerva entrò con un fagottino tra le braccia che si agitava irrequieto.
“Eccolo Albus, gli elfi hanno appena finito di dargli da mangiare, ma non accenna a calmarsi, povero piccolo”.
Il preside la guardava e sorrideva da dietro gli occhiali a mezza luna, un sorriso puro e sincero come di chi sapeva già che da lì a poco la professoressa McGranitt si sarebbe intristita.
“Minerva, ci ho pensato davvero bene. Sai meglio di me che nessuno di noi in questa scuola potrebbe occuparsi del bambino. Abbiamo troppi impegni, e lo sai che i miei, in particolar modo, richiedono una certa urgenza. Non rimarrebbe molto tempo da dedicare al piccolo Harry”.
“Ma l’abbiamo appena tirato fuori da quella casa, lo abbiamo curato, e già lo mandiamo via a stare con chissà quale famiglia di maghi o babbani?”. Minerva guardò il pavimento, la sua voce era velata di malinconia. Sapeva di potersi permettere di parlare così al preside poiché i due si conoscevano da molti anni ed avevano avuto diverse occasioni per condividere gioie e dolori.
“Lo so bene che in cuor tuo mi capisci Minerva, e che, dopo quello che è successo, non affideresti la vita di Harry neanche al tuo migliore amico. Ma sarebbe davvero difficile farlo crescere in questa scuola. Non è ancora arrivato il suo momento, dobbiamo aspettare fino a quando avrà l’età giusta, e, nel frattempo,  dobbiamo trovare qualcuno che possa occuparsi di un bambino così piccolo” .
“E scommetto che tu l’hai già trovato. Non è così, Albus?” .
Il preside si sedette dietro la scrivania. Non era stato facile per lui pensare a qualcuno di veramente adatto per un bimbo la cui vita era in pericolo ogni giorno. Voldemort avrebbe potuto far ritorno, Silente non era convinto che fosse sparito del tutto, e comunque c’era ancora una folta schiera di fedeli Mangiamorte che non avrebbero esitato ad ucciderlo per vendicare il loro Oscuro Signore.
“Allora facciamo come desideri, Albus, lo sai che ho sempre avuto fiducia in te nonostante tutto.”
Silente la guardò mentre giocherellava con una piuma d’oca, poi prese un bel respiro. Sì, aveva deciso.
“Va bene, Minerva, non devi far altro che seguirmi, passeremo dal mio camino, è più sicuro, tu tieni ben saldo il bambino.”
“Intendi adesso?!” La professoressa strabuzzò gli occhi, non poteva credere che Silente voleva lasciare il castello in piena notte. Con Harry Potter tra le braccia, uscire a quell’ora poteva essere più pericoloso che di giorno.
Silente si alzò dalla propria poltrona, prese la metro polvere ed entrò nel camino.
“Coraggio, seguimi!” La incitò sapendo che lei, in qualunque caso, avrebbe obbedito per il bene di tutti.
Entrò anche lei nel camino ed il preside pronunciò la parola “Hogsmeade” a voce alta e chiara.
Anche se era solo l’inizio di Novembre il freddo invernale e pungente si faceva già sentire, entrava nelle ossa e si condensava in nuvolette che uscivano dalla bocca. Per strada non c’era quasi nessuno, solo qualche mago ubriaco che vomitava appoggiato contro un muretto. Qualcun altro, invece, barcollava e cantava scambiando un vecchio albero per la donna amata.
I due professori camminarono a passo svelto lungo la strada che li avrebbe condotti al Pub “Testa di Porco”, cercando di nascondere il più possibile quel fagotto che Minerva teneva stretto tra le braccia.
La professoressa McGranitt alzò gli occhi verso l’insegna del pub, poi li sgranò e si voltò verso Silente.
“Ti sembra il momento di bere, Albus?! Perché siamo qui? In questo pub poi… Ricordi da CHI è gestito, vero? Forse il freddo ha congelato quel po’ di buonsenso che speravo tu avessi”. La sua voce era quasi un sussurro, ma il tono molto irritato sottolineava le sue parole come se avesse appena urlato.
Albus aprì il suo volto in un largo sorriso.
“Hai detto di aver fiducia in me. Ebbene, mia cara, ti comunico che so quel che faccio! Forse è l’ultimo posto dove avremmo dovuto portarlo, ma ci ho pensato a lungo, e credo che Aberforth sia la scelta migliore”.
Minerva sgranò gli occhi ancora di più. Né la notte, né la flebile luce della torcia accanto all’insegna del pub, riuscivano a nascondere il rossore del suo volto.
“Albus, mi permetto di dirti che di tutte le idee assurde avute nella tua vita, questa mi sembra la più insensata, stupid...”
La porta si aprì di colpo.
“Volete entrare invece di farfugliare sulla porta del mio pub? Sembrate una coppia di ladri!”
Aberforth uscì fuori in tutta la sua opulenza, rivolgendo loro uno sguardo severo e interrompendo Minerva che, per una volta, stava riuscendo nel suo intento di rimproverare il vecchio preside per le sue scelte senza una logica apparente.
Aberforth era il fratello minore di Albus Silente, e gestiva da molti anni il famoso pub “Testa di Porco” ad Hogsmeade, meta di molti studenti di Hogwarts durante le gite nella piccola cittadina.
Entrarono togliendosi i propri mantelli. Silente si guardò intorno, cercando le parole adatte con le quali comunicare al fratello il proprio piano. Il suo sguardo si posò sul lavabo, dove la spugna insaponava e strofinava magicamente i piatti ed i bicchieri sporchi che erano sospesi a mezz’aria.
“Allora?! Quando vieni qui c’è sempre un motivo, fratello. Le tue non sono mai state visite di cortesia”. Aberforth si sedette sullo sgabello dietro il bancone e scrutò quella “cosa” che si muoveva tra le braccia della professoressa McGranitt.
“È proprio così, non sono qui per un bicchierino, ho bisogno di un grosso favore, ho scelto te e ti spiegherò tutto, te lo prometto, ma devi ascoltarmi, te ne prego...”
Il proprietario del pub si fece una grossa risata.
“Tu che spieghi tutto? Questa è proprio una novità... e quando mi ricapita un’occasione del genere? Avanti, sentiamo che hai da chiedermi, sono curioso!”  
Albus sospirò, chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì e iniziò a parlare sperando con tutto il cuore che il tono della sua voce e l’urgenza della cosa potessero convincere il fratello, e che lui gli venisse incontro senza fare troppe storie e, soprattutto, troppe domande.
“Tu conoscevi Lily e James Potter e sai bene quello che è successo giusto poche notti fa, non è così?”. Prese dalle braccia di Minerva il bambino e lo scoprì mostrandolo ad Aberforth. Il piccolo Harry agitava le manine e faceva dei versi guardandolo con i suoi occhietti verdi e vispi.
“Lui è Harry Potter”. Aberforth guardò attentamente la cicatrice a forma di saetta sulla fronte del piccolo, poi deglutì rumorosamente.
“VECCHIO PAZZO!” si alzò di scatto dallo sgabello. “TUTTI CONOSCONO IL BAMBINO SOPRAVVISSUTO, SCHIERE DI MAGHI HANNO FESTEGGIATO NEL MIO PUB QUELLA NOTTE STESSA, E TU OSI PORTARLO QUI DA ME...  HAI LA MINIMA IDEA DELLA FILA DI MANGIAMORTE CHE CI SARA’ DAVANTI QUELLA PORTA NON APPENA QUALCHE IDIOTA DALLA BOCCA LARGA LO VEDRA’ E CANTERA’?!?” Indicò la porta del pub mentre gli urlava contro.
Harry iniziò a piangere disperatamente. La professoressa McGranitt tentò di calmarlo prendendolo in braccio e cullandolo.
“Basta così, lo stai facendo piangere. Siediti, non risolverai nulla urlando come un forsennato. Albus, diglielo anche tu”.
“Aberforth, ti prego, ascolta quello che ho da dirti, è davvero importante, per la salvezza del piccolo Harry”.
Si sedette nuovamente, in silenzio, tenendo un pugno chiuso sul bancone, poi gli fece cenno con la testa di continuare a parlare.
“Nessuno di noi professori può badare ad Harry nel castello, almeno fin quando non avrà 11 anni. Allora dovrà essere chiamato a studiare ad Hogwarts come qualsiasi altro mago della sua età. Tu sei la persona più adatta per prenderti cura di un bambino così indifeso”. Nel dirlo voltò la testa verso un quadro appeso alla parete accanto al bancone. Era il ritratto di Ariana, la sorella di Albus e Aberforth. La sua innocenza trapelava dal suo volto. Aberforth si era preso cura di lei tutto da solo, mentre il fratello andava in giro per il mondo. Lui era un ragazzo, e lei era una bambina molto difficile a cui badare per tanti motivi. Lo sguardo del preside si fece lucido al solo pensiero e suo fratello, osservando il suo gesto, capì cosa volesse intendere.
“Sei la persona più adatta che conosco. Tu potresti curarlo, tirarlo su e, allo stesso tempo, tenerlo al sicuro qui nel tuo pub. Il coraggio non ti è mai mancato fratello, e so che potresti farcela”.
“Da solo, come sempre!” Aggiunse lui guardandolo duramente. “Va bene Signor Preside. Non mi hai convinto per niente, e non so se ti asseconderò in questa tua pazzia... però si è fatto molto tardi e questo bambino ha bisogno di dormire, non permetterò che tu lo porti di nuovo fuori, saresti capace di fargli prendere un malanno”. Lo prese dalle braccia di Minerva mentre parlava.
Silente capì che non avrebbe potuto fare scelta migliore, allora poggiò una mano sulla sua spalla e lo guardò con dolcezza sorridendogli. “Sapevo che ti saresti convinto, credimi, questa è la cosa più giusta da fare”. Detto questo prese Minerva sottobraccio e si allontanò con lei uscendo dal pub.
“HEY, NON TI HO DETTO CHE HO ACCETTATO!” Gli urlò dietro, ma ormai era troppo tardi, i due professori erano spariti nella notte. Era fatta! avrebbe allevato quel pargoletto come se fosse stato suo figlio, anche se non era per nulla convinto di tutta questa vicenda e l’ultima cosa che avrebbe voluto era avere a che fare con biberon e pannolini sporchi.
La mattina dopo Aberforth fu svegliato dal pianto del piccolo Harry che si agitava dentro una culla sistemata alla buona accanto al suo lettone.
“E ora che ti prende? Ho deciso di tenerti, dovresti essere contento, cos’hai da piangere?” Si rese conto della stupidità del suo discorso, e, stropicciandosi gli occhi, si disse che probabilmente il piccolo aveva fame... e tanta! Si alzò dal letto, lo prese in braccio e si guardò intorno. Che cosa avrebbe potuto dargli da mangiare? Non aveva prodotti babbani per bambini nel suo pub, e di certo non poteva dargli un bicchiere di whisky incendiario, oppure un tortino di carne preparato da lui. Avrebbe dovuto trovare immediatamente qualcos’altro, soprattutto per la salvezza dei suoi timpani.
D’un tratto la capra di Aberforth, Betty, fece capolino sulla porta della stanza da letto, incuriosita dal pianto del neonato. Si avvicinò al padrone e gli tirò i pantaloni per richiamare la sua attenzione.
“Ah sei tu... brava, ottima idea!” l’uomo si sedette su uno sgabello basso e mise Harry a cavalcioni su un suo ginocchio, poi prese la bacchetta che teneva dentro una tasca dei pantaloni e fece apparire un biberon aperto sotto le mammelle della capra, posò la bacchetta e cominciò a mungerla con una mano, mentre teneva saldamente Harry con l’altra. Il bambino era davvero divertito da tutta la scena, batteva le manine e rideva felice mentre la capra belava.
“Divertente, vero?!? Tu ridi eh?! Ma guarda te che cosa mi tocca fare... Questa Albus me la paga!” prese il biberon, lo chiuse, si mise più comodo sullo sgabello e nutrì il piccolo. Il bambino lo guardava con quegli occhi verdi e luccicanti di gioia e serenità mentre succhiava il latte caldo dal biberon e Aberforth non poté fare a meno di sorridergli. Era lì da poche ore e già stava cominciando stranamente ad affezionarsi a lui.
Passarono così sei anni da quella notte, Harry Potter cresceva a vista d’occhio, ed ogni giorno che passava i suoi capelli sembravano diventare sempre più folti e arruffati. Indossava una camicia a quadri, un cappellino per nascondere la cicatrice, ed una salopette che Aberforth aveva trovato in un vecchio baule e li aveva adattati, con la bacchetta, alle misure del bambino. Aveva trovato anche delle comode scarpette babbane e dei calzini. Nessuno avrebbe potuto riconoscerlo in questo modo. Per essere ancora più sicuro aveva deciso di farlo passare per un suo nipote scozzese. Harry avrebbe dovuto chiamarlo zio Aberforth, e lui lo avrebbe chiamato James, forse aveva deciso di dargli questo nome “provvisorio” anche in onore di suo padre.
Harry sapeva bene qual’era il suo vero nome, ma aveva accettato di fare questo gioco con lo zio Fort, era così che lo chiamava, perché sembrava che lui ne fosse contento e poi ad Harry non costava nulla. Era felice quando lo vedeva sorridere e gli faceva piacere fare qualcosa per lui, che fosse qualche piccolo lavoretto, o un gioco.
Aberforth aveva davvero cura del bambino. Si assicurava che lui mangiasse tutto, gli faceva il bagnetto, lo vestiva, gli raccontava le storie sugli animali fantastici prima di dormire. Un giorno gli avrebbe spiegato tutto sulla magia, gli avrebbe detto tante cose, gli avrebbe detto chi era, quali speranze rappresentava per tutti loro, e chi erano stati i suoi genitori. Era davvero diventato un figlio per lui. Sei anni fa non voleva neppure averlo tra i piedi, temeva per la sua stessa vita. Si sentì egoista ripensandoci.
Mentre scacciava i brutti pensieri dalla mente, si girò verso Harry che era intento a strigliare la capra con una spazzola.
“James, è arrivato il momento che tu impari qualcosa. Sei grande abbastanza ormai e dovresti già saper leggere e scrivere”.
Harry lo scrutò con quegli occhi così pieni di interrogativi.
“Sì, zio Fort”. Gli tese una manina.
Aberforth la prese delicatamente e lo portò in camera sua, poi fece apparire, davanti alla finestra, una minuscola scrivania ed una sedia altrettanto piccola, sulla scrivania apparvero dei fogli di carta ed un calamaio con una lunga piuma bianca.
Harry guardò la scena a bocca aperta, vedeva spesso lo zio Fort fare magie, ma ogni volta si stupiva, gli piaceva la magia, pensava che un giorno anche lui avrebbe imparato, ne era convinto. Anche se così piccolo sembrava quasi che sapesse, o sperasse, che era un bambino diverso da tutti gli altri. Ogni tanto si arrabbiava con Betty perché gli rompeva qualche giocattolo che Aberforth gli costruiva con il legno, e allora, quando si arrabbiava, iniziavano ad accadere le cose più strane.
Una mattina si era arrabbiato così tanto, perché aveva perso la sua palla di pezza, che fece scoppiare i vetri della finestra di camera sua. Si mise a piangere credendo che zio Fort l’avrebbe punito, ma lo “zio” sapeva che non era stata colpa sua, così pulì il disastro e, anche se non era arrabbiato con lui, ad Harry dispiaceva molto, non voleva vedere quello sguardo truce negli occhi dell’uomo che era tanto buono con lui, né tantomeno avrebbe voluto distruggergli la casa. Così, la mattina dopo, si svegliava presto e gli metteva una tazza di latte caldo sul comodino accanto al letto. Sì, aveva imparato a mungere Betty, gliel’aveva insegnato lo zio Fort.
Lo zio Fort era fantastico, come quegli animali delle storie che gli raccontava e che ad Harry piacevano tanto, era incredibile, era mitico. Ed era tutto quello che aveva.
“Un giorno anche tu saprai fare queste cose, non temere”. Lo disse sorridendo mentre gli indicava la sedia. “Vai a sederti, oggi imparerai a scrivere”. Lo accompagnò, si accovacciò accanto a lui e cominciò a scrivere le lettere dell’alfabeto, una per ogni foglio. Mentre scriveva pensava che lui queste cose non le aveva mai fatte per nessun altro al mondo. Gli sembrò strano, ma ormai si era abituato a prendersi cura di un bambino, anche se con sua sorella non doveva fare queste cose, lei richiedeva ben altre cure. Dopo sei anni passati insieme, gli venne naturale aver voglia d’insegnare qualcosa di utile ad Harry visto che non poteva frequentare la scuola e che avrebbe dovuto passare la maggior parte del tempo chiuso in quel pub.
Passarono altri giorni ed Harry riuscì ad imparare solo qualche lettera, nonostante ci mettesse tutta la buona volontà. Diventava molto triste quando vedeva che zio Fort perdeva la pazienza e lo lasciava tutto solo in camera sua per poter andare ad occuparsi del pub, lui, in fondo, era l’unico amico che aveva, e l’unica persona alla quale voleva bene.
“Non imparerà mai nulla, è inutile, forse sono io che sbaglio qualcosa. Sì, ma che cosa? ACCIDENTI ALBUS, brutto barbagianni, non ho chiesto io di fare da balia al figlio dei Potter e adesso mi sento anche in colpa per una cosa così stupida”. Brontolava tra se a bassa voce mentre serviva i clienti e pensava di chiamare suo fratello per poter fare qualcosa. “Non è mai venuto neanche a trovarmi, certo... lui pensa agli affari suoi, pensa a fare l’eroe, tanto c’è il fratellino che gli toglie le castagne dal fuoco!”
Nel frattempo il bimbo scese le scale e si appoggiò contro lo stipite della porta aperta che dava sulla sala del pub. Osservava il grande, vecchio uomo, che si dava da fare tra i tavoli e gli passò vicino, così, non volendo, lo sentì dire che Harry non avrebbe imparato mai nulla. Il proprietario del pub non si accorse affatto della sua presenza. Ma al piccolo Harry gli si gonfiarono gli occhi di lacrime. Pensò che zio Fort lo considerasse un buono a nulla e che fosse deluso da lui, allora si fece coraggio e raggiunse il camino, dove era depositato un cumulo di fuliggine, e vi si accovacciò davanti.
Diede uno sguardo a Betty, che era lì vicino, e le sussurrò “Io sono bravo, vuoi vedere? Io voglio bene a zio Fort”.
Così allungò le dita di una manina e si mise a scrivere, cercando di ricordare bene le lettere che aveva imparato, si sforzò molto e alla fine, contento del risultato, sorrise e abbracciò la capretta sedendosi sul pavimento accanto a lei.
Aberforth passò di lì, portava una pila di bicchieri sporchi, e li lasciò sul bancone vedendo che Harry era tutto sporco di fuliggine e sorrideva.
“Per le mutande di Merlino! Come hai fatto a sporcarti così? Ora dovrò farti il bagno” . Sbuffò forte e, voltandosi verso il camino, notò quella scritta che lesse ad alta voce. “Zio Fort”.
Guardò di nuovo Harry, con gli occhi colmi di speranza per il loro futuro, e posò una grossa mano sulla sua testa accarezzandolo, poi lo prese in braccio, incurante del fatto che fosse così sporco, e lo strinse forte a se sporcandosi di fuliggine a sua volta.
“Ce la faremo piccolo, io e te, insieme ce la faremo!” 

 
FINE.
   
 
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