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Autore: Val_Ser    26/02/2014    1 recensioni
Claire ha cinquant’anni ‘e qualcosa’. Una casa, un marito, due figli all’università e un lavoro sedentario, che però le dà il privilegio di una scrivania davanti ad una vetrina e caffè sempre pronto. La sua vita è l’apoteosi della normalità ma la curiosità ha il sopravvento sulla sua routine.
Una ragazza seduta sul marciapiede di fronte, che fuma, sorride e non fa niente tutto il giorno, attira la sua attenzione. È un rapporto ambiguo, fatto di sguardi e frasi a metà, nonché un numero indefinito di tazze di caffè.
Nulla, apparentemente, le lega, ma in quel do ut des di periferia si nasconde il filo rosso del destino che, per un po’, unisce due esistenze separate.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Claire
            Nelle metropoli, non c’è spazio per guardare, per posare l’occhio su un elemento o un dettaglio. Rischieremmo un senso di sopraffazione che preferiamo evitare, lo stesso del lunedì mattina, con l’alito cattivo e una finestra lasciata aperta che ha reso tutta la casa fredda.
            Non siamo più abituati a guardarci in quella maniera casuale. Se avessi uno di quei telefoni intelligenti, sicuramente mi sentirei più a mio agio nel mandarti la foto dell’ultimo pranzo che chiederti di vederci per un tranquillo caffè in centro. Io, come un altro milione di persone. Ventunesimo secolo, nel bene e nel male.
 
            Per questo, quando la vidi la prima volta, sentii la nausea salirmi fino al naso. Non che lei fosse un dettaglio: un ornamento, forse. Uno di quei materassi abbandonati ai bordi delle strade, un orologio a cucù rotto vicino a un cassonetto, una scarpa lanciata da una finestra. Insomma, un arredo cittadino che fa storcere il naso e passare oltre.
            Non mi disgustava lei più di quanto non mi disgustasse la cacca di cane ogni giorno davanti al mio cancelletto. Era fuori posto ma naturale, dall’ottimo tempismo e un gran perdita di tempo nella routine giornaliera se provavi a calpestarla.
 
            Se oggi sapesse che la sto paragonando alla merda, probabilmente riderebbe. Alcune persone hanno occhi che ti mettono in guardia dalle loro risate, ti avvisano prima, in un certo senso.
 
            Terribile e nauseante era che lei non cercasse i dettagli ma li trovasse autonomamente. Non le avresti dato un soldo bucato, sarebbe stata solo un’altra cialtrona qualunque. Passandole davanti, lei ti avrebbe osservato e ridacchiato, aspirando un’altra boccata di fumo dalla sigaretta.
            Per questo suo modo di fare, ogni tanto spuntava con un occhio nero, ma sempre impeccabilmente vestita di quel sorriso che la gente mette su quando è stata lavata da più sputi di quanto si possa immaginare.
 
            Un mese aveva i capelli raccolti in rasta disordinati, l’altro mese li aveva rasati. I suoi vestiti erano troppo larghi, non aveva tatuaggi o piercing. Aveva le unghie macchiate di nero. Nelle giornate di sole spariva, ma alla nostra latitudine piove quasi tutti i giorni.
            La osservavo dalla vetrina dell’agenzia, quando mi annoiavo. Osservavo il suo profilo, e gli occhi infossati. Che cosa facesse, non ne avevo idea. Chi fosse, neanche a pensarci.
            Stava lì, seduta sul marciapiede, senza fare niente. Se le davi una monetina, te la tirava dietro, con tanti ‘Vaffanculo’ di ringraziamento. Credo di aver sentito, da lei, gli epiteti e le bestemmie più incredibili di tutta la mia vita, e mio marito e la sua famiglia sono tipi dall’immaginazione fervida.
 
            A novembre, non si fece vedere per una settimana buona. Non ci feci caso: l’agenzia riceveva telefonate su telefonate, io ero invischiata in una serie ininterrotta di ‘Prego, mi dica’ e ‘Le assicuro che faremo il possibile’.
            Lavorare in quel posto mi metteva voglia di uscire e prendere il suo posto. In fondo, i ragazzi se ne erano andati due anni prima. Che ci facessi ancora lì, Dio solo lo sapeva.
            Durante la pausa pranzo, chiesi a un mio collega che fine avesse fatto.
            «Chi? Cosa?»
            Nelle metropoli, noi non guardiamo, noi non ci impicciamo, noi facciamo finta di non vedere.
            La ragazza. Quella con la giacca grigia, quella che sta sempre lì, tra il ristorante cinese e il negozio di abiti usati.
            «Ah…»
            La conosci?
            «No… Credo si chiami… Non so, un nome con la D. O con la C. O tutt’e due, forse. Quella settimana di malattia che ti sei presa, durante quella, ha litigato con una che era venuta a cercarla. Credo abbia urlato il suo nome, ma con la bocca piena di sangue non si può mai dire.»
 
            Ai miei occhi di cinquantenne vissuta sempre in periferia, non mi apparve un avvenimento importante. Non fu l’evento in sé a sconvolgermi, quantomeno, ma il fatto che lei fosse stata coinvolta.
            Dov’ero stata per non vederlo?
            Credo che, all’inizio, fosse solo curiosità. Non potevo prendermi sulle spalle anche il peso di una figlia morale della strada, per così dire, non con quei due cretini dei miei veri figli ancora a piede libero.
            Forse mi mancava vederla lì, ortogonale alla mia scrivania. E, da una parte, mi chiedevo curiosamente se lei mi avesse mai vista. C’è una certa soddisfazione nel sapere che il punto dove i tuoi occhi si fissano per svago rende lo stesso servizio a te, in silenzio e con circospezione.
 
            Aveva l’aria sfatta quando la rividi, il giovedì mattina. Grandinava, e lei era lì, con i suoi jeans distrutti e la giacca grigia. La vidi accendersi una sigaretta, muovere le labbra, parlare con se stessa. Poteva anche stare canticchiando, non potevo esserne sicura.
            Eravamo solo io e quel mio collega, sotto le luci al neon bianche. Fece il caffè, per me e per lui. Senza pensarci, uscii dall’agenzia con la tazza il mano, coprendola con le dita per non farla diventare un caffè on the rocks.
            Attraversai la strada automaticamente, senza prestare attenzione a quello che stavo realmente facendo.
            Ero stretta nel mio cardigan a fantasia, i capelli biondi appiccicati alla testa e gli occhiali costellati da gocce di pioggia. Mi vide, mi guardò, mi osservò, sorrise.
 
            «E tu che vuoi?»
            Era la prima volta che la sentivo parlare. Aveva una voce roca, più di quanto mi aspettassi. Non mi aspettavo niente, però non pensavo a quello.
            «È per te.»
            Stavo gelando.
            «Ma per chi mi hai preso?»
            Senza quel sorriso, sarebbe sembrata sdegnata.
            «La vuoi o no?»
            «No.»
            «Ragazzina, ho cresciuto due maschi e un marito.» Non mi spaventava. Le misi la tazza fra le mani. Il caffè strabordò, finendo sul marciapiede. «E vedi di berlo tutto.»
            Nel tempo che impiegai a tornare alla mia scrivania –a una certa età non puoi permetterti corse da fondisti– lei era sparita. La tazza usciva da un cestino per i rifiuti, completamente ripulita.
 
            Non si fece vedere per altri due giorni. Il tempo peggiorava.
            Le portai un’altra tazza di caffè. E poi un’altra. Divenne il nostro accordo silenzioso. Alle volte la lasciava raffreddare, altre volte beveva subito, altre ancora la sorseggiava. Ripetere quel gesto, meccanicamente, tutte le mattine, mi rendeva una persona più tranquilla.
            I cattolici si andavano a confessare, i manager trapiantavano gerani sulle terrazze dei loro loft e io le portavo il caffè. La mia coscienza, come prima, non aveva smosso il proprio baricentro di un millimetro.
            Non mi sentivo meglio con me stessa. Non pensavo di aver spalancato le porte del Paradiso con quel ciclico ripetersi di caffè fatto–portato–bevuto.
            Nemmeno lei lo pensava.
            Non era esattamente il tipo che ci pensava su, in generale. Non subito, almeno.
 
            Dopo tre settimane, la sorpresi a guardarmi. Avrebbe distolto lo sguardo, forse, se fosse stata un’altra persona. Mi fissò tutta la mattinata. Quando gli altri uscirono per la pausa pranzo, lei attraversò la strada come un fulmine, guardando a destra e a sinistra, prima di aprire la porta con la stessa violenza che avrebbe impiegato nel prendere a mazzate qualcuno.
            «Desidera?» chiesi, imperturbabile.
            «Ma che stai facendo?»
            «Come?»
            «L’hai capito. Mi prendi per la prima stronza che passa? Pensi che sia povera da fare schifo, vero?»
            Sorrisi. Potevo non saperne l’età, ma quell’atteggiamento la rivelava molto bene. «Cosa dovrei fare?»
            «I cazzi tuoi» rispose lei, con un sorriso ancora più ampio.
            «I cazzi miei sono cazzi miei, no?» risposi semplicemente. «Tu pensa ai fatti tuoi. Fatti, non cazzi, se hai notato.»
            Rimase in piedi senza dire niente. Mi sentivo quasi potente, nonostante avessi ancora la mano sinistra sul telefono e la destra impegnata nel redigere un modulo.
            Doveva avere avuto un’idea di educazione. Sembrava ponderare una risposta, di qualsiasi tipo, ma lo faceva in silenzio e senza ombre che le passavano davanti al viso. La mia formalità non provocava alcuna reazione in lei.
            «Non hai nulla da fare?» chiese dopo un po’, sedendosi davanti a me.
            «Accomodati pure.» Roteai gli occhi. «Sto lavorando.»
            «Eh.»
            Solo ‘eh’. Pensandoci ora, che risposta potevo mai aspettarmi? Persino il mio cervello, davanti a quella routine, diceva ‘eh’, solo ‘eh’.
            «Non hai un lavoro?»
            «I cazzi tuoi.»
            «Una casa?»
            Sputacchiò una risata.
            «Un nome?»
            Scosse la testa, come se fosse sul punto di rifiutare gentilmente una proposta. «No. Lascia stare.»
 
            «Io mi chiamo Claire.»
            Era lo stesso meccanismo che si era instaurato nel mio cervello la prima volta che le avevo portato il caffè. Poteva essere una drogata, un’assassina, una borseggiatrice, e io le offrivo da bere e le dicevo il mio nome. Mio marito mi avrebbe tirato addosso un barattolo di fagioli stufati, se solo l’avesse saputo.
            Ma mio marito, ancora oggi, di questa storia non sa niente. Non sa niente di tante cose, meno che mai di lei.
           
            Lei si strinse nella giacca, alzando le spalle. «Delia.»
            «Delia?»
            «Sì, Delia.»
            «Solo Delia?»
            Sbuffò. «Cordelia.»
            «È un nome splendido.» Lo pensavo davvero. Forse, nei meandri della mia mente, c’era un banale ‘Sarah’ o ‘Jess’ che rimbombava dietro all’immagine del suo viso, ma Cordelia era così stonato da risultare perfetto per lei.
 
            «Devo lavorare, Cordelia. Hai bisogno di qualcosa?»
            «No.»
            E se ne andò. Era brava ad andarsene. Sapeva farlo subito, di corsa, e capendo quando non era desiderata. Non che la volessi davanti a me tutto il tempo, mentre lavoravo: dovevo ricevere clienti, fare telefonate. I metri che ci separavano, la strada, la vetrina, la scrivania, erano incredibilmente confortanti.
            È questo che piace alle persone come me: il conforto.
            Delia, ai miei cinquant’anni suonati, non me ne poteva dare alcuno, ovviamente, né lo ricercavo in lei. Forse era proprio per questo che le portavo il caffè e, di tanto in tanto, parlavo con lei di argomenti stupidi: non cambiava nulla nella mia routine, non apportava niente di nuovo.
            Rimaneva l’orologio a cucù e la cacca di cane, essendo –però– Delia.
 
            Arrivai in ritardo, quel giorno.
            «C’era la barbona di lì davanti che ti cercava?»
            «Quale barbona?»
            Mi indicarono Delia. «Non è una barbona» dissi, ai limiti del risentimento.
            «E allora perché se ne sta lì tutto il tempo?»
            Non avevo nulla da rispondere. Che ne sapevo, poi, se fosse una barbona o meno. E poi, quei grand’uomini dei miei colleghi, così politically correct, non si sarebbero sentiti meglio a dire ‘senza tetto’, ‘clocharde’ forse?
            Il politically correct, pensavo mentre attraversavo la strada con il solito caffè, va bene per chi sta molto sotto o molto su. Il 99% della gente che si trova in mezzo, questo espediente non sa nemmeno cosa sia.
 
            «Ho chiesto di te e mi hanno buttata fuori.»
            Le diedi il caffè. «Che volevi?»
            Alzò la tazza in maniera eloquente. «Che ne pensi?»
            Stavo per andarmene, come al solito, quando lei mi chiamò.
            «Perché non mi tieni un po’ di compagnia?»
            «Devo lavorare.»
            «Oppure sederti per terra significherebbe che sei come me.»
            «Come te?»
            «Già. O sei una leccapassere indiamantata, o sei solo un’altra stronza.»
            Chiusi gli occhi a quell’appellativo. Era disgustoso. Mi faceva venire voglia di darle uno schiaffo. «Posso assicurarti che non sono né l’una né l’altra.»
            «E se non ti piaccio, perché lo fai?»
            Sorrisi. Era proprio piccola. «Servizio cittadino. Se muori qui davanti, alla proprietaria del ristorante verrà un infarto. Una processione infinita di ambulanze che vorrei risparmiare al quartiere.»
            Delia rise, gettando indietro la testa. «Ho capito. Un’altra stronza. Grande, Claire dell’agenzia!»
 
            Dopo la chiusura di Natale, non so perché, mi aspettavo di non vederla mai più. Eppure, era lì davanti. Con il labbro spaccato.
            Conoscendola, sapevo di non dover chiedere, eppure lo feci lo stesso.
            «Una troia.»
            «Per te sono tutte o troie o stronze.»
            «Questa è la regina delle troie.»
            «Se ti interessa il caffè, comincia a raccontare.»
            «Ma ti pare che sono così disperata?»
            Sorrisi. «Solitamente, la gente è abbastanza disperata da raccontare tutto al primo che fa loro il favore di chiederglielo.»
            Delia sorrise con me. «Ti assicuro che non sono così disperata.»
            Rimanemmo così per un po’, senza parlare. Io tenevo il caffè in mano e guardavo altrove. Lei non fiatava, sembrava aver raggiunto la comunione dei sensi insieme al mondo.
            «Vediamo un po’, Claire dell’agenzia. Tu che hai da raccontarmi?»
            «Una storia e un caffè per un’altra storia? È poco.»
            «Ci metto una sigaretta» disse lei, estraendone una dal pacchetto e allungandomela.
            «Non fumo» risposi, facendo cenno di no.
            Delia mi lanciò uno sguardo obliquo. «Una storia per una storia, e facciamo a metà con il caffè.»
            Sorrisi. Mi faceva sentire un po’ ragazzina. Non si smette di essere ragazzine, in fondo. Possiamo tingerci i capelli bianchi, metterci gli occhiali, pagare il mutuo e allevare figli come cavalli, ma per quello, per un attimo di giovinezza, saremmo tutti così disperati.
            «Ma ti siedi con me. Per terra.»
 
            Ci sono persone che sanno raccontare storie. Ci sono persone che non sanno neanche raccontarti una barzelletta (tutto sommato, penso sia più difficile).  C’è gente persino che ha la pretesa di scriverle, le proprie storie e quelle degli altri. Non sono mai stata un’appassionata di libri, ma ascoltavo i racconti con piacere.
            La storia di Delia l’ascoltai in maniera diversa. Era come raccogliere delle carte sulla sabbia, disseminate dal vento durante la notte. Non le avrei trovate tutte, e non ne avrei ricavato un bel mazzo di carte.
            Non ne avrei ricavato un bel niente, a dir la verità. E nemmeno lei.
 
            «Stanno divorziando» mi disse. «E io lavoro di notte. Meccanico d’emergenza.»
            «Non me l’aspettavo» confessai.
            Lei alzò le spalle. «Un lavoro come un altro. Una cavolata, in realtà. Passo i pezzi e controllo l’olio. Non ho bisogno di un cervello per farlo.»
            Mi prese dalle mani il bicchiere. Bevve un sorso. «E insomma, il solito. Loro che urlano, io che sto fuori la notte, magari faccio tardi, e che sarà mai. Loro che urlano di nuovo, si prendono a calci in faccia e magari me ne prendo uno pure io.»
            «Tutto qui?»
            «Sì, nulla di devastante.» Sembrò illuminarsi per un attimo. «Preferisco stare fuori. Sto fuori da sempre, eh. E fuori ci sono sempre stronzi e casini ad aspettarti. Non che dentro non ce ne siano già.»
            Fu il mio turno per il caffè. La pioggia sull’asfalto si stava asciugando e luccicava colpita da qualche sparuto raggio di sole. «I miei figli sono all’università. Mike e Terence.»
            «Terence, che nome di merda.»
            «Piaceva a mio marito.»
            «Tu fai tutto quello che ti dice tuo marito?»
            «Dopo trent’anni insieme, nessuno dei due fa più quello che l’altro dice.»      «Quindi c’è stato un momento in cui vi dicevate sempre di sì.»
            Risi. Certo che c’era stato. «Quando abbiamo fatto Mike e Terence.»
            Delia rise, sputacchiando il caffè. «Claire dell’agenzia, siamo proprio due stronze.»
 
            Passarono i mesi. Passò gennaio. Passo febbraio.
            A marzo, il tempo si fece più mite.
            Delia rimaneva lì, silenziosa. Non parlava un granché, si fece amico un gatto randagio, un gatto rosso. Lo chiamò Oliver. Io non mi avvicinavo a quella bestiaccia. Non soffiava, ma sembrava avesse tante pulci quanto un bambino dell’asilo poteva avere pidocchi.
            Lei non ci faceva caso. Erano poche, tutto sommato, le cose a cui non faceva caso. Faceva finta di non vedere, di non sentire, di ignorare quello che le succedeva intorno, ma il suo sguardo brillante la tradiva.
 
            Mi chiedo cosa avrebbe fatto con i soldi che davo ai miei figli per copiare ai test di metà semestre e ubriacarsi nei fine settimana. Forse avrebbe fatto lo stesso. I ragazzini ci appaiono tutti uguali, perché lo siamo stati anche noi: giovani, indistinguibili e con l’intensa convinzione di essere uno su un milione.
            Poteva essere intelligente, certo, e aveva un’aria grezza che sembrava impossibile da smussare. Non avrebbe fatto filosofia, o lettere. O forse avrebbe fatto proprio quello, per dimostrare che poteva stupire il mondo intero.
            Delia non voleva stupire proprio nessuno, nemmeno se stessa. È questo il punto, credo: stava bene in quel modo perché non si era né rassegnata né ambiva troppo in alto. Stava. E questo andava bene a lei, a Oliver, a me.
            Non andava bene ai miei colleghi dalla bocca troppo larga, ma imparai presto a non preoccuparmene.
 
            «Puoi tenere Oliver con te, per un po’?»
            Era entrata senza prestare attenzione agli altri. La guardavano con un misto di educata sorpresa e deferente disgusto. Come la guardavo io, all’inizio, no?
            La feci sedere, guardando la palla di pelo tra le sue braccia. Un randagio in braccio ad una randagia, seduti davanti ad una che stava per diventarlo, se non si fosse liberata di loro abbastanza in fretta.
            «Mio marito non ama gli animali. Dove sei stata tutta la mattina?»
            «Puoi tenerlo?»
            «Non vive con te.»
            «Sì, ma se non ci sto attenta io non lo fa nessuno.»
            La guardai, forse un poco divertita da tutta quella situazione, forse preoccupata. «E chi ci sta attenta a te?»
            «Nessuno.» Alzò le spalle. «Ma non sono un gatto. Ti prego, Claire.»
            «Dove devi andare?»
            «Che ci stai a fare qui se mi fai la predica?»
            «Se non ti piace, ti alzi e te ne vai.» Mi sentivo come il primo giorno, quando le avevo ficcato il bicchiere in mano e me ne ero andata. Funzionava sempre con i ragazzini, ma quella volta sembrava non voler sentire ragioni.
            «Devo andare da una parte. Mi tieni Oliver, allora?»
            «Per quanto?»
            «Non lo so.»
            «Dove vai?»
            «Fatti miei.»
            Aveva detto fatti, e non cazzi. La cosa mi fece piacere. Non so se era fatto di proposito, ma lo apprezzai. Ogni madre ama sentirsi ascoltata, e anche se io non ero la sua –ero ben lontana dall’essere la madre di qualcuno, a quel punto– risentivo allo stesso modo di quell’effetto.
            Ci mettemmo d’accordo per vederci il mattino seguente, alla stazione dei pullman più vicina. Era sabato, potevo concedermelo. A mio marito avrei detto che sarei uscita per una passeggiata. A me stessa… avrei messo a tacere il senso di responsabilità.
            Mi veniva così naturale per tante altre cose che sarebbe stato vergognoso starlo ad ascoltare proprio in quel momento.
 
            Durante la notte, il respiro pesante di mio marito mi metteva voglia di alzarmi, stringermi nella vestaglia e andarmene da lì, magari per sempre. Ero sempre stata una donna paziente e piena di sopportazione. Mandavo a quel paese con un sorriso e una frase gentile.
            Invidiavo Delia. Lei non aveva idea di quanto potesse apparirmi fortunata, e il mio giudizio era offuscato e confuso.
            Da una parte, non avrei voluto mai la sua vita. Sarei stata un’altra persona, avrei sviluppato tratti che nella ‘mia’ me non sarebbero mai venuti fuori. E mi si sarebbe gelato il culo a stare tutto quel tempo per terra.
            Dall’altra, la mia esistenza mi stava stretta. Agenzia, marito qualunque che una volta avevo amato e che –a modo mio, alla maniera delle casalinghe intristite– amavo ancora, due figli che potevano ancora migliorare. Agenzia, marito, figli, me stessa, agenzia, marito, figli, me stessa, agenziamaritofigli… Mi sentivo chiusa in una scatola calda e confortevole, ma senza alcun buco per l’aria.
            Ma tra la monotonia e la stanchezza, c’era una consapevolezza che chiudeva ogni spiraglio che riuscivo a creare nella mia prigione di cartone: se io mi sentivo in gabbia, Delia mi vedeva come una povera donna di mezza età da compatire.
            E, ancora peggio, sapevo che aveva tutte le ragioni del mondo per farlo, e che io stessa, se fossi stata un po’ più onesta, avrei riso del mio riflesso allo specchio la mattina, per poi scoppiare in un pianto disperato.
 
            Era vestita come sempre. La giacca grigia, i capelli in disordine raccolti in una coda alta. Oliver si muoveva e non la smetteva di agitarsi.
            Sorrideva, aveva uno zaino in spalla. «Ho deciso. Vado a Belfast.»
            «Che vai a farci?»
            «Che ne so. Non voglio saperlo finché non ci sono.»
            «Il mondo non gira così, sai?»
            «Il mondo gira comunque senza che facciamo niente di particolare.»
            Accarezzava Oliver e mi guardava dritta negli occhi. Aveva un sorriso nuovo. Quanti ne avesse, solo Dio lo sa. Pensavi sempre di aver visto l’ultimo quando ecco che ne compariva un altro.
            «Forse torno tra una settimana, o forse mai più. Che ne so. Magari trovo una mazzetta di soldi per terra e mi compro una macchina.»
            Sorrisi, forse forzatamente. Che stupidaggine. Comprarsi una macchina prima di pensare, magari, ad avere un tetto sopra la testa e a mangiare.
            «I tuoi genitori?»
            «Sono a posto» rispose in fretta. «Ma se avessi lasciato Oliver qui, lo avrebbero ammazzato in niente. Rischio io, figurati lui.»
            Mi porse Oliver.
            Era come un timido cenno di addio. Fossi stata una sognatrice, avrei idealizzato quel gesto, pensando che era il suo modo di ringraziarmi, di restare un poco con me, di far finta di poter essere amiche. Mi stava solo dando un gatto al quale si era affezionata.
            «Hai il numero dell’agenzia, in caso?»
            «Perché? Vuoi che ti chiami quando arrivo, per dirti che sto bene?»
            Mi stava prendendo in giro. «No.» E le dissi quel ‘no’ che fa parte delle negazioni che usi a quattordici anni, quando ti chiedono ‘Sei vergine?’ oppure ‘Non dirmi che non fumi’. Quei no che ti salvano e ti svergognano allo stesso tempo, dandoti però il vantaggio di non fare vedere se stai mentendo o meno. I no che aprono una distanza.
            «A posto così, allora.» Si ficcò una sigaretta in bocca, l’accese. «Ci si vede, Claire. Grazie per il caffè. Ciao, Oliver.»
            Le rivolsi un sorrisetto tirato, stringendomi al petto quel gatto spelacchiato. Sentivo una stretta in gola, nel punto dove si fermano i conati di vomito quando riesci a mandarli giù di nuovo.
 
            Non la guardai andarsene.
            Rimasi ferma tra la gente che andava e che veniva. Eravamo io e il sacco di pulci, l’unica cosa che, da quel momento in poi, avrebbe testimoniato il passaggio di Delia nella mia vita.
            La mia linea del tempo era dritta, senza interruzioni.
            Delia me l’aveva dolorosamente ricordato, in ogni momento della sua presenza intorno a me. E adesso, quel cosino, quell’Oliver, sembrava intenzionato a piantare gli artigli nella monotonia del mio tempo per ricordarmi quello che io non sarei mai stata.
            Lo feci scendere, lo lasciai al bordo del marciapiede. Cominciai a camminare. Bastava lasciarselo lì ed essere un po’ più furbi di com’ero. Mi voltai a guardarlo. Era rimasto a guardare il punto da dove Delia se n’era andata, leccando un po’ l’asfalto bagnato e sporco.
            «Maledizione.»
            Pochi minuti dopo, eravamo entrambi sull’autobus che ci avrebbe portati a casa. Io non avrei voluto essere abbandonata a me stessa. Quel povero gatto non aveva colpa. Non l’aveva lui, non Delia, non io.
            Quando mio marito alzò la voce per protestare, gli lanciai un’occhiata che lo fece stare zitto per una settimana intera.
 
            Gente come Delia la incontri spesso, e quasi mai parli con loro.
            Gente come me, le ‘Claire dell’agenzia’, sono continuamente al tuo telefono, alla tua porta, nei supermercati e nelle scuole.
            Nelle metropoli, desideriamo non essere visti e mimetizzarci contro i palazzi e le pubblicità, mentre tutto quello che cerchiamo è un attimo per sentirsi speciali. Ma non ci crediamo nemmeno noi, ed è per questo che le Claire invidiano le Delia.
            Le Claire non sono stupide, e forse neanche poi così ordinarie. Ma manca a loro –a noi– qualcosa. Ci manca dire ‘cazzi’ al posto di ‘fatti’, e non adottiamo Oliver e non decidiamo di fuggire a Belfast, senza più tornare.
            Delia direbbe che siamo ‘cagasotto’.
            Io non lo so cosa sono. E, proprio perché sono Claire, perché sono una Claire, non voglio saperlo.
 
            Delia non è tornata.
            Chissà se è ancora Belfast.
 
            Forse pensa a me, di tanto in tanto.
            Non ha dimenticato Oliver, ne sono certa. Le sono passate così tante persone davanti agli occhi e io, che davanti a lei sono rimasta per un po’, sono quello che lei era all’inizio per me. Un ornamento. Un dettaglio insignificante. Un materasso. Un orologio a cucù. Una tazza di caffè nel cestino dei rifiuti.
            Vorrei soffermarmi sul suo ricordo, di tanto in tanto, ma sono una Claire e non mi è permesso togliermi il paraocchi. Sono io che me lo vieto.
 
            È una vita strana. Vivi nei limiti dei vertici di un poligono, e ti tieni lontano dai lati. Percorri le diagonali, fai cerchi intorno, ma non ti sporgi mai a vedere quello che c’è oltre. Vivi all’angolo, vivi nell’angolo.
            Forse è un talento, questo. Gente come Delia non ci riuscirebbe mai. Posso consolarmi così, di tanto in tanto, e spacciare questa constatazione fredda per il più caldo dei conforti.
            Le Claire amano il conforto. Le Claire rimangono Claire e non cambiano mai.














A/N: Ciriciao bambini.
Storia inaspettata, questa volta, e destinata al contest di TheBlackStorm91 sul forum che trovate >>qkcuì<< in occasione dell'8 marzo.
Non avevo idea di dove mi avrebbe portata. Ho cominciato ascoltando la canzone nel link sotto il titolo (Say Hi - November was white, December was grey // grazie Shameless per queste piccole perle) ed è andata fuori da sè. Mi sono affezionata a Claire e Delia più di quanto mi aspettassi.
É una visione un po' estrema, quella di Claire, ma anche molto demoralizzata e dettata dalle sue esperienze. Devo ammettere di avere avuto delle difficoltà ad immedesimarmi in questo 'gioco di specchi' tra lei e Delia, ma è stata una sfida che ho accolto con piacere.
Grazie a chi recensisce, a chi non lo fa, a chi segue silenziosamente e a chi è arrivato fin qui. <3
A presto!

 
   
 
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