Memorie di
un’anima
errante
»Terza
classificata al “Randagi
contest!”
indetto da Manu Fury
La vita in
famiglia non fa per me.
Sono nato
in una casa calda e accogliente, primo di sette fratelli, figlio di un
bastardo
coi fiocchi di cui non conosco né il volto né
l’odore. Non che mi importi,
considerato che, come lui, ho preferito la vita solitaria a quella
della
famiglia; una scelta ammirevole, non c’è che dire.
Una scelta che rispetto,
perché so quanto sia difficile condurre
un’esistenza del genere.
La gente
mi guarda inorridita e si chiede chi sono, da dove vengo, se sono
malato o se,
semplicemente guardandole, io abbia il potere di infettarle. Tutte
belle
domande, le loro, ma so rispondere con certezza solo ad una: no, non le
infetterò guardandole, non sono dotato di poteri magici,
purtroppo. Se li
avessi, la mia vita non sarebbe costellata di pericoli che devo
affrontare quotidianamente,
insidiati in ogni angolo della città in cui sono solito
condurre le mie
esplorazioni.
Il resto
non mi è dato saperlo; non so chi sono e probabilmente non
ho nemmeno un nome;
la mia piastrina è andata persa ed io non ho fatto nulla per
ritrovarla. Non
m’importa sapere se sono malato o meno, perché
tanto prima o poi dovrò
incontrare anche io la Signora in Nero e, quando accadrà,
non voglio
esserci.
Da dove
vengo è una bella domanda, invece: non ho una dimora fissa.
Amo definirmi Figlio della Strada,
perché è lì che ho
cominciato a vivere davvero.
Procedendo
con ordine, però, la mia esistenza è cominciata
nella casa di cui vi ho parlato
poco prima. I miei padroni erano tre bipedi, di cui uno di dubbia
natura: alle
volte camminava su due zampe, altre su quattro… insomma, era
piuttosto confuso
e guaiva in modo molto buffo e poco elegante. Certo era che non ero
benvoluto
e, a dirla tutta, nemmeno i miei fratelli lo erano, perciò i
due più grandi ci
hanno gettati in una scatola di cartone con una coperta logora, sporca
e
puzzolente sul fondo e ci hanno portato in mezzo alla strada, in
centro, su di
un marciapiedi. Ci hanno regalato a perfetti sconosciuti senza nemmeno
chiedere
il nostro parere; hanno deciso tutto da soli, tacitamente, e non si
sono nemmeno
sprecati a dare un croccantino alla brava gente che ci ha presi con
sé,
liberandoli dal peso della nostra presenza.
Volendo
essere più precisi, gli sconosciuti hanno adottato tutti i
miei fratelli, ma
non me.
Chissà,
forse perché loro erano tranquilli e io no.
Non mi è
mai piaciuto essere il cane perfetto, quello che si adegua agli
insegnamenti
dei padroni, sempre obbediente, dolce e carino, perché ho
sempre avuto
l’impressione di essere come imprigionato in una stanza senza
porte né
finestre, dall’aria pesante, stantia e senza luce. I miei
fratelli, invece,
venivano portati via ad uno ad uno, tremanti, avvolti nei cappotti o
nelle
sciarpe di coloro che li sceglievano come fedeli compagni di vita.
Bipedi,
quelli, che avrebbero dovuto prendersi estrema cura di quelle
creaturine.
Avrebbero dovuto dar loro da mangiare, un posto caldo in cui dormire e
coccole
gratis ad ogni ora del giorno. Li avrebbero dovuti portare a passeggio
e,
magari, sarebbero capitati nella zona in cui abitavo io,
così li avrei rivisti
e avrei potuto salutarli, anche se non mi avrebbero riconosciuto.
Sicuramente
li avrebbero educati, rendendoli le loro bambole, i loro pupazzi, i
loro fedeli
animali da compagnia… trattati come semplici oggetti e non
come cani dotati di
dignità e volontà, esattamente come cercavano di
fare i miei padroni, con
risultati ben più che scarsi. Quelle persone avrebbero
pensato a farli star
bene, senza fargli mancare nulla, mentre io sarei ritornato in quel
posto che
tanto odiavo e in cui ero tanto odiato. Non che avessi fatto qualcosa
di grave,
eh! Semplicemente ai miei padroni non interessava crescere un altro
cucciolo:
quello che avevano era più che sufficiente, considerato che
faceva più disastri
di quanti ne facessi io.
Quella
casa aveva un solo lato positivo: mobili e giocattoli favolosi. Una
vera gioia
per occhi e denti, se visti dalla prospettiva di un cane. Adoravo
passare le
mie giornate a mordere le sedie, le gambe del tavolo, i vestiti, il
tessuto del
divano e tutto ciò che era a portata di muso, in grado di
attirare la mia
attenzione. Li addentavo per affilare i denti, convinto che avrei
potuto
salvare i miei fratellini qualora si sarebbero trovati in pericolo,
anche se
all’epoca non sapevo ancora che non li avrei mai
più rivisti.
«Beata
ignoranza!», dicono quegli esseri a due zampe senza pelo
né coda, di tanto in
tanto.
Mi
sgridavano sempre, alle volte alzando le mani o usando il bastone. Con
quelle
stesse mani che usavano per punirmi, erano soliti carezzarmi, regalarmi
piccole
attenzioni e momenti felici in cui anche io, come i miei fratellini
nelle loro
nuove famiglie, mi sentivo apprezzato e benvoluto. Erano padroni
strani,
quelli, perché dicevano di volermi bene e poi mi hanno messo
alla porta,
sbattendomi fuori di casa senza pensarci due volte, portandomi in uno
di quei
fetidi posti in cui rinchiudono altri miei sfortunati simili.
Canile, lo chiamano.
Devo
ammettere che questo mi ha sempre confuso… mi sono sempre
chiesto, infatti,
come si possa fare del male o abbandonare qualcuno che passa il resto
della
vita essendoti fedele, senza chiederti mai niente in cambio, senza
pretese
assurde, che ti accetta per come sei e che darebbe la sua vita pur di
salvare
la tua. Non mi sono mai risposto veramente, se non dicendomi che gli
umani sono
esseri paradossali e, perciò, è praticamente
impossibile capirli. Non si
capiscono da soli, figurarsi se ci riusciamo noi animali!
Comunque
sia, in quei posti puzzolenti non si stava poi così male,
eccezion fatta per le
stagioni più fredde in cui non c’erano sufficienti
coperte per tenere tutti al
caldo. Molti morivano assiderati, altri per la vecchiaia, altri ancora
per la
neve. Chi sopravviveva poteva contare sulla bontà di bipedi
che li portavano a
passeggio, giocavano con loro e li coccolavano, proprio come se fossero
i loro
padroni. Peccato che nessuno li portava mai a casa.
Io non la
volevo, una casa.
Io volevo la libertà
e fu grazie a questo mio desiderio che, un giorno, mi
accorsi di quanto quel posto mi stesse stretto. O forse ero io ad
essere troppo
grande per quella topaia… non saprei dirlo con certezza.
Sapevo solo una cosa:
volevo andarmene da lì.
Volevo vivere e non morire
per colpa del
freddo, delle lotte per la conquista di un territorio che, volenti o
nolenti,
avremmo dovuto condividere con altri randagi strappati alla strada, o a
causa
del cibo insufficiente a sfamare le numerose bocche presenti tra quelle
gabbie.
Sentivo che quella non era la fine che mi aspettava, che avrei dovuto
vivere
ancora e a lungo, perciò decisi che sarei fuggito.
Evidentemente
qualche cane se ne accorse, fiutò le mie intenzioni e,
assieme ad altri
compagni, cominciò a guaire come un direttore
d’orchestra che esegue un Requiem
funerario.
I loro
lamenti sembravano dire: «Non uscirai mai da qui,
arrenditi!», ma io non avevo
intenzione di ascoltarli. Sapevo che si sbagliavano e, a dirla tutta,
non
potevo permettermi di terminare i miei giorni in quel luogo.
Perciò, un
pomeriggio, mentre le donne incaricate di sorvegliarci durante
l’ora di libertà
erano distratte, filai via attraverso una piccola fessura del cancello,
lasciato socchiuso per distrazione. Nessuno se n’era accorto,
nessuno l’aveva
vista tranne il sottoscritto, per fortuna. Io l’avevo notata
e lei mi aveva
chiamato, pareva dirmi: «Ehi, sono io il tuo lasciapassare
per la libertà!
Attraversami e sarai felice!»
Naturalmente,
non mi ero fatto attendere.
Ora come
ora, non mi pento della mia scelta, nonostante le giornate non siano le
migliori che si possano desiderare.
La prima
volta che misi piede nel mondo esterno, rischiai la pelle, ma quella fu
solo
una delle tante che seguirono. Dopo un po’ ci si fa
l’abitudine, si smette di
farci caso e si impara a sopravvivere.
Vorrei
ringraziare il
Signore
per il pane che mi ha fatto
trovare nella spazzatura,
per l'acqua che ha fatto
scendere dal cielo per dissetarmi,
per i sacrati delle chiese
dove ho potuto ripararmi.
Mi lavavo nel fosso, inseguivo insetti e uccellini e facevo i bisognini dove capitava, senza che nessuno mi disturbasse o mi desse ordini, lasciando che la Natura facesse il suo corso, indisturbata. Nessuno mi picchiava, nessuno mi disturbava durante i sonnellini, nessuno mi diceva cosa potevo o non potevo fare… il Paradiso, insomma.
In un giorno di pioggia, mentre mi lavavo dentro al canale, una donna mi passò accanto in macchina e mi vide. Si fermò sul margine della strada e cercò di avvicinarmi. All’epoca ero ancora fiducioso, perciò la lasciai fare, anche perché dall’odore non sembrava pericolosa. Quella persona mi prese con sé e mi portò tra quattro mura ancor più belle ed invitanti di quelle della mia prima casa.
La signora viveva assieme ad un uomo e ad altri due bipedi un po’ più bassi di lei, ma molto più alti di me e, con mia grande sorpresa, più normali dei precedenti. Ne fui felice, perché questi non erano rumorosi come l’umano istupidito della mia prima famiglia, quello che non aveva le idee ben chiare sulla sua identità di cui ho parlato all’inizio.
Non nascondo che quel soggiorno sia stato piacevole, soprattutto perché se facevo i dispetti nessuno mi picchiava. Alzavano la voce, sì, però mi lasciavano comunque un briciolo di dignità e mi rispettavano, roba che nella prima casa era un’esclusiva riservata solo agli umani che l’abitavano. Mi avevano comperato un sacco di giochi, anche quelli per rafforzare i denti, quindi non sentivo il bisogno di sfasciare i loro mobili. Mi davano anche ottimi croccantini e tante altre cose buone; mi portavano a spasso e al mio rientro mi aspettava una cuccia morbida e calda, tanto amore e, in fine, un collare. Mi chiamavano Bobby e mi avevano regalato una piastrina a forma di zampa.
Credevo fosse il periodo più bello della mia vita, ma sbagliavo.
Qualche tempo più tardi, mi accorsi che quella casa mi stava stretta, proprio come il canile: quando vedevo altri cani passare davanti al mio giardino, impazzivo: correvo a destra e a manca, abbaiavo, latravo, saltavo… tutto pur di attirare l’attenzione dei miei padroni.
Nella mia mente gridavo loro: «Aprite! Aprite la porta! Voglio uscire, voglio essere libero come loro!» ma non capivano, mi zittivano e cercavano di distrarmi con stupidi stratagemmi.
Sono stati padroni stupendi, i migliori mai conosciuti nelle mie poche esperienze in famiglia, molto attenti e amorevoli, ma non era quella la vita che volevo, nonostante fossi felice.
Perciò, un giorno me ne andai.
Così com’ero comparso, lasciai quel posto, fuggendo dopo essermi nascosto in giardino in modo tale che, una volta lasciata l’abitazione per andare a fare le solite commissioni da umani, sarei potuto sgattaiolare via passando inosservato. Non penso che si siano sprecati a cercarmi, ma non li biasimo. Apprezzo, anzi, il fatto che abbiano compreso che quella non era la vita che cercavo e non abbiano tentato di riportarmi indietro.
Sopravvivere
per la strada si rivelò particolarmente difficile, forse
più della prima volta.
Ero in città, dopotutto, nel suo cuore e non più
in periferia.
Ricordo
come se fosse ieri tutte le fughe da quelle bestie con quattro aggeggi
rotondi
che i bipedi usavano per spostarsi: macchine
le chiamavano. Mi facevano paura con i loro VROOOM,
tanto che ogni volta finivo per gettarmi nei vicoli, sperando di
trovarvi
riparo e non un’altra di quelle bestie pronta a stirarmi come
se fossi un
vestito appena lavato e asciugato.
E così è
stato, infatti.
All’inizio
non è stato semplice imparare a procurarsi il cibo, una
parte di territorio, a
farsi rispettare e temere. Dormivo nei cartoni che trovavo abbandonati
per la
strada (l’apice della scomodità, credetemi) e
mangiavo i rimasugli che la gente
gettava nella spazzatura, ma la vita domestica non mi mancava affatto.
Certo: la
strada non è sinonimo di lusso e non
c’è qualcuno pronto a proteggerti dai
pericoli, ma è bella per questo, la mia nuova vita. Puoi
fare ciò che
preferisci, vivere il brivido dell’avventura, conoscere una
marea di altri
randagi come te, alcuni amici e altri nemici, sia a quattro che a due
zampe,
imparare a cavartela da solo, sfruttando le tue abilità e
trovare una nuova
famiglia, una di quelle senza impegno, che ti lasciano libero e non ti
rinchiudono tra le mura delle loro ville o dei loro appartamenti.
Uno di
loro, bipede, mi ha preso sotto la sua ala; ogni tanto condivide con me
qualche
spina di pesce o qualche avanzo che arriva da un pranzo consumato in un
giorno
di festa. Mi porta con sé ovunque, mi parla raccontando un
mucchio di storie
interessanti e mi fa dormire in quella cosa che si mette addosso per
proteggersi dal freddo, una versione fallace del nostro bellissimo
pelo.
Quest’uomo non profuma di pulito o di umano: ha il mio stesso
odore, più o meno,
perciò non mi dispiace la sua compagnia. Di notte mi
rannicchio sotto la sua
falsa pelliccia e resto lì, dormendo sonni sereni, mentre
gli tengo caldo col
mio corpo ormai smagrito, scarno, spelacchiato.
L’unica
cosa buona che mi è rimasta è il collare;
l’umano mi ha tolto la piastrina
dicendo che non ne avrei più avuto bisogno. Mi ha lasciato
quel pezzo di
stoffa, pelle ad essere precisi, perché convinto che mi
renda più affascinante.
Non avrò
certo una bella cera, però mi sento più in forma
che mai: sono ancora agile,
veloce e in grado di difendere ciò che mi appartiene,
nonostante i miei denti
implorino pietà dopo anni e anni di lotte per guadagnare ed
affermare il mio
posto in questa realtà, nella quale la sopravvivenza viene
prima di tutto.
Ho attraversato
monti,
boschi e paesi,
nessuno mai mi ha tenuto con
sé,
nessuno, mai, mi ha dato un
nome.
Dalla nascita ho sempre
portato il tuo: "Cane".
Penso che
sia l’effetto della vita di strada: ogni giorno è
un brivido nuovo che non dà
mai la possibilità di riflettere sulla propria esistenza,
sul punto cui si è
arrivati. Impedisce di sentire la vecchiaia; quando sei un randagio,
non c’è
tempo per la Signora in Grigio, colei che preannuncia
l’arrivo della sorella,
la Signora in Nero.
La nostra
è vita di strada che, agli occhi della gente normale, non
può fare altro che
risultare monotona. Sono sempre le stesse cose che facciamo, noi
randagi: ci
svegliamo, andiamo alla ricerca di cibo nei vicoli e nei bidoni
dell’immondizia, litighiamo, combattiamo per difendere il
territorio, vaghiamo
a vuoto e, quando capita, ci riproduciamo anche, scegliendo ovviamente
le
cagnoline dell’alta società, poi fuggiamo e
facciamo in modo di non essere
rintracciati. Siamo anime libere che non vogliono impegni di alcun
genere o altre
vite a carico; la nostra è più che sufficiente.
La notte dormiamo e la mattina
ricomincia tutto questo tran tran, sempre uguale, senza
possibilità di uscire
dagli schemi.
È vero:
alle volte qualcuno, come il macellaio che ogni tanto vado a trovare,
ci lascia
qualcosa da mangiare rendendoci la giornata un po’
più facile e meno pesante,
ma questi piccoli gesti non sono prerogativa di tutti gli umani che si
muovono
per le strade della città.
Molti
mostrano superbia e sufficienza, nei nostri confronti, assumendo
atteggiamenti
disgustati e altezzosi nel momento in cui ci passano accanto. Ci
guardano come
se fossimo dei miserabili, quando non hanno capito che, in
realtà, sono loro ad
esserlo, poiché noi viviamo alla giornata, ci godiamo la
vita e affrontiamo i
problemi quando si presentano, senza rifuggirli.
Loro,
invece, altro non fanno se non lamentarsi costantemente, chiedere
sempre più di
quel che hanno, senza donare mai niente a chi, al contrario, ha davvero
bisogno
anche solo di una monetina per comprarsi da mangiare. Vivono in un
branco in
cui le piccole cose, i valori della famiglia e della vera amicizia,
della
lealtà e della fiducia sono stati rimpiazzati da quegli
strani aggeggi con cui
sono soliti comunicare. Non ne conosco il nome, ma so per certo che
hanno
rovinato il genere umano: ora nessuno presta più attenzione
alle cose che hanno
davvero importanza, ad esempio guardare dove camminano.
D’accordo
che sono un randagio, che non sono all’apice della bellezza e
che una delle mie
orecchie è mordicchiata (ricordino di una delle liti per il
territorio, niente
di preoccupante) ma penso di meritare un briciolo di rispetto, no?
Il signore
che si prende cura di me (sarebbe meglio dire che ci prendiamo cura a
vicenda
l’uno dell’altro) afferma che sono un bravo cane,
un fidato amico. Continua a
ripetermi che non devo preoccuparmi di nulla, poiché un
giorno il mondo intero
capirà qual è il mio vero valore e
verrò apprezzato per quel che sono, ma io ne
dubito fortemente.
Gli umani
sono egoisti e non vedono nient’altro, al di là di
sé stessi.
Questa
mattina mi ha augurato buona fortuna, prima che partissi alla ricerca
del
bottino del giorno. Si è assicurato che mi ricordassi di
tornare al solito posto, una volta
finita la
caccia, ossia nel nostro vicolo, in mezzo a quella sporcizia che ci fa
da casa,
con pulci e insetti come coinquilini.
Non che ci
dispiaccia; ormai ci abbiamo fatto il callo, ma quel che infastidisce
più di
qualsiasi altra cosa sono gli sguardi sprezzanti delle persone.
Di nuovo,
questa volta davanti ad un uomo e ad un cane che non hanno
più niente, nemmeno
le lacrime per piangere la loro condizione disumana, mostrano il volto
del loro
cuore ghiacciato, per non dire inesistente. Passano oltre, ignorando
palesemente la voce del mio compagno che chiede l’elemosina,
qualche moneta per
comprare a me un pasto decente e per se stesso qualcosa che lo scaldi a
dovere,
soprattutto ora che l’inverno inizia a farsi sentire.
Nessuno lo
ascolta: tutti sono
insensibili
alla voce di uno sconosciuto che, domandando la carità,
prega i suoi simili di
usare il cuore, per una volta, al posto del cervello che, a sua detta,
non
hanno. Simili che, probabilmente, possiedono animali che curano come se
fossero
i loro figli e rabbrividiscono davanti a noi poveri randagi.
Io non
sono poi tanto diverso, se vogliamo essere obiettivi; quel che mi
distingue
dagli altri è che non ho una famiglia e non ho intenzione di
averla. Mi basta
il vecchio barbone con la barba ispida ed incolta, i vestiti rattoppati
malamente, i guanti e la sciarpa bucati, gli stivali per fortuna sani,
forse un
po’ stretti per i suoi piedi gonfi. Quell’uomo che
porta il mio stesso odore,
che rinuncia a parte di quel poco cibo che è solito trovare
pur di farmi avere
un boccone in più, che mi fa sentire speciale parlandomi e
coccolandomi senza
essere troppo ossessivo, che mi fa sempre trovare un riparo, un posto
caldo in
cui far riposare le membra. Quell’uomo che mi ha lasciato il
collare e,
paradossalmente, anche la libertà di andare dove preferisco,
quando mi va e
tornare se e quando ne ho voglia.
Il collare
e la libertà, le cose migliori che potessi desiderare, me le
ha concesse senza
battere ciglio; gli sono grato per tutto questo. Lui è la
famiglia migliore che
mi sia mai capitata in tutta la mia esistenza, per questo merita un
premio che
oggi andrò a cercare.
Dato che
sarò alla ricerca di qualcosa di particolare, penso che
rientrerò tardi. Spero
solo che non si preoccupi per me… so cavarmela, dopotutto, e
dovrebbe saperlo
bene.
Vago per
vicoli e marciapiedi sperando di trovare quel che cerco in uno dei
tanti bidoni
che, strada facendo, rovescio ed esploro. C’è di
tutto lì dentro: mele marce,
polvere, fazzoletti, penne, biro, giocattoli rotti, vestiti usati e
tante,
tantissime altre cose, ma niente di accettabile.
Cerco,
cerco e cerco ancora, finché sul fondo di uno di quei fusti
di latta trovo
finalmente ciò che voglio: è piccolo, un oggetto
stupido e inutile, ma morbido
e peloso come me, spelacchiato qui e là, con un occhio
sfilacciato e l’altro
ancora vispo. Ha un’espressione dolce e le orecchie, a
differenza delle mie,
sono sane.
Se
potessi, ne riderei; sembriamo quasi due gemelli diversi, separati
dalla
nascita, l’uno l’opposto dell’altro ma,
in qualche modo, identici.
Sono fiero
del mio bottino: un piccolo cagnetto cui somiglio molto, se non fosse
per la
Vita. Io ne sono dotato, lui (o lei?) sfortunatamente no, ma penso che
potrà
tenere compagnia al Vecchio, soprattutto quando io sarò
lontano da casa. Lui (o
lei, che dir si voglia) sarà un ottimo ascoltatore.
Saltellando
sulle mie zampe lunghe e magre, imbocco la strada più breve,
quella che mi
porterà velocemente dal mio amico, tenendo il mio tesoro tra
le fauci che poi,
a dispetto della loro forza, non sono più così
spaventose come una volta. Il
mio tocco è delicato, considerato che il pupazzo
è già malandato di suo e non
voglio che si rompa ancora di più; non mi rimarrebbe nulla
da portare come
regalo a quel sant’uomo.
Sto
particolarmente attento alla gente che incrocio, ignorando gli sguardi
carichi
di odio e di disgusto che mi lanciano. Se potessero, mi prenderebbero a
calci,
mi calpesterebbero e mi lascerebbero morire qui, sul ciglio della
strada, come
se niente fosse, come se non fossi mai esistito, come se non meritassi
uno
straccio di attenzione anch’io che sono un randagio e non ho
un tetto sulla
testa.
Vedete? Lo
vedete l’egoismo della gente cui passo affianco?
Assomiglia
a un diavoletto che abita nell’incavo tra il loro collo e le
loro spalle, tutto
intento a guardare il mondo che lo circonda e chi lo abita,
punzecchiando la
pelle con quel suo tridente ogni qual volta giunge il momento adatto
per
sfoggiare quell’aria di superiorità e di
sofisticatezza con cui le persone si
avvelenano l’esistenza.
Ho deciso
che non mi farò rovinare la giornata per colpa di individui
come quelli; sono
troppo felice per la mia conquista e nulla guasterà il mio
umore, ne sono sicuro.
Dopo aver
rischiato di finire un paio di volte sotto quelle bestie che fanno VROOOM, arrivo finalmente al solito
posto, dove trovo il mio amico seduto a terra, con gli occhi chiusi;
evidentemente è stanco, perché a
quest’ora della giornata, di solito, è tutto
intento a ravanare nei bidoni alla ricerca di un po’ di cibo.
Mi
avvicino a lui e gli salto in grembo, mollando il peluche su di esso,
poi
abbaio un paio di volte per svegliarlo. Insomma, non sto più
nella pelle! Deve
assolutamente vedere cosa ho trovato, cosa gli ho portato! Voglio
vedere la
felicità dipinta su quel suo volto gonfio ed emaciato a
causa della
denutrizione, del freddo e delle botte che riceve da quegli stupidi
bipedi
sempre alla ricerca di nuove attività per divertirsi, che
gli donano l’aspetto
di un uomo saggio, un po’ inquietante e burbero, ma pur
sempre dolce.
La generazione
del futuro, la
chiamano, ed io spero che nessuno di loro ne divenga rappresentante. Se
mai
succederà, mi auguro che la mia razza si sia estinta da
secoli; non sopporterei
di vedere le violenze e i soprusi che quegli esseri senza cervello
attuano
indisturbati su noi poveri animaletti indifesi.
Considerazioni
cagnesche personali a parte, nonostante il mio continuo abbaiare, il
contatto
della mia lingua fredda sulla sua faccia e le mie carezze, il mio amico
non
risponde e non capisco se lo faccia apposta o se sia diventato sordo da
un
giorno all’altro. E potrebbe essere, considerato che
è vecchio, molto vecchio,
forse anche più di me.
Io riprovo
più e più volte ad attirare la sua attenzione,
passandogli anche la testa sotto
al collo, sperando di solleticarlo, di vederlo ridere e aprire gli
occhi, ma
lui niente: non si muove e non reagisce. Continuo ad aspettare,
scodinzolando e
con la lingua a penzoloni, trepidante ed incuriosito, fino a quando non
mi
assale un dubbio.
Scendo dal
suo grembo e mi avvicino alla mano che giace sull’asfalto; mi
abbasso e
l’annuso, strusciandomi contro di essa, ma ancora niente.
Solo un’impressione,
un cambio nel suo odore che non saprei decifrare e nemmeno spiegare.
Mugolo un
po’, sommessamente, e non ottengo risposta.
Poi
capisco: il mio barbone ha lasciato
questo mondo.
Da
sommesso che è, trasformo quel mugolio in un latrato
disperato, colmo di
dolore, di disperazione e tristezza che si aggiungono al peso che sento
gravare
sul mio cuore vuoto e solo.
Mi chiedo
come farò d’ora in poi a tirare avanti, come
farò a vivere senza il sorriso del
mio amico, senza le sue parole, senza più un posto dove
tornare e trovare
qualcuno che mi sta aspettando per mangiare… e
improvvisamente tutto diventa
troppo pesante.
Strano
come ci abbia fatto caso solo ora… probabilmente la
solitudine e la perdita di
qualcuno a noi caro rende l’esistenza vuota e inutile, tanto
che risulta
impossibile non notarne il peso.
Mi siedo
davanti a lui, sull’asfalto freddo, e riprendo ad ululare,
cercando di imitare
al meglio il lamento dei lupi, perché loro sono grandi e
grossi e so che la
loro voce si può udire anche a grandi distanze.
Più abbaio forte, più ho
possibilità che il mio ultimo saluto arrivi al mio caro
amico, all’uomo che
considero il padre che mai ho avuto.
In cuor
mio continuo a sperare che possa svegliarsi da un momento
all’altro e dirmi che
si è trattato di uno scherzo, che dormiva così
tanto bene da non essere
riuscito a sentirmi, ma so che non accadrà.
A
confermare i miei pensieri è un cane, anche lui randagio,
probabilmente nuovo
della zona, considerato che ha un odore mai sentito prima, che si
affaccia nel
vicolo per vedere cosa stia succedendo, attirato dai miei latrati
disperati. Ci
osserva per un po’ stando in silenzio, poi emette un guaito
sommesso che sembra
dirmi: «È inutile: non si risveglierà
mai più».
La sua
visita dura pochi istanti, perché poi abbassa il capo e se
ne va con la coda
tra le gambe, sotto l’acquazzone che è appena
scoppiato.
«Sai,
Bello: la pioggia è l’insieme delle lacrime di noi
poveri barboni ignoranti,
odiati dal mondo e costretti a vivere una vita all’insegna
dell’invisibilità.
Noi, povera gente che la Fortuna si premura di evitare. Noi, poveri
uomini cui
non è rimasto altro se non un cagnetto smagrito come te con
cui passare le
giornate. Vedi caro… siamo così poveri che Madre
Natura ci ha persino tolto le
lacrime per piangere, ma ci ha regalato la pioggia per ricordare al
Mondo che
gli esseri egoisti che girano lì fuori – e allunga
un dito ad indicare la
strada pullulante di persone frettolose, dall’aria sola ed
indaffarata – che anche
noi abbiamo un cuore e che soffriamo, forse anche molto più
di loro.» diceva.
Peccato
che nessuno l’abbia mai ascoltato.
E aveva
ragione, il vecchietto: una volta che entri a far parte di questa vita,
non
puoi aspettarti clemenza e bontà d’animo, se non
da parte di chi la vive con
te.
Signore,
[…]
fa' che la mano dell'uomo
non abbandoni più
un cucciolo nella strada.
È triste vivere da
vagabondi, è penoso essere soli,
ed essere soprattutto
semplicemente solo un cane.1
In ricordo dei vecchi tempi, sollevo la sua mano col muso e piazzo la testa sotto il palmo, rattristato e abbattuto, lagnandomi un po’ nella speranza di trovare conforto in quel contatto.
Pian piano socchiudo gli occhi, cedendo alla pesantezza delle palpebre.
Certo che restare soli è stancante… il mio corpo è diventato all’improvviso di piombo, la mia mente è annebbiata e mi pare di vedere il barbone che sorride dall’altro lato della strada.
Mi tende una mano e mi chiama, intimandomi di raggiungerlo, gridando col suo vocione che il posto in cui si trova è spettacolare, che piacerà anche a me e che devo assolutamente vederlo.
Mi dice di sbrigarmi, perché sono in ritardo e c’è un banchetto degno di una corte (che roba sia, poi, non lo so) che aspetta solo noi due.
Però io sono stanco, tanto stanco… credo che farò un riposino bello lungo; dopo tutto il lavoro di oggi, penso proprio di meritarmelo!
E poi, al mio risveglio sarò di nuovo insieme al mio vecchio a correre, giocare e mangiare, a dormire tra le sue braccia, ad ascoltare le sue storie strampalate e la sua risata da vecchio marinaio, magari in un modo nuovo e migliore come dice, dove potremo finalmente avere un’esistenza degna di quel nome.
Sarò lì con lui e lo vedrò sorridere al mio regalo patetico e stupido che so conserverà con gelosia, cura e tanto amore.
Sarò lì con lui perché sono un cane fedele e non lo lascerò mai solo, nemmeno ora che siamo morti.
Sarò sempre al suo fianco, perché è questo che fanno i veri amici.
***
«Non
esiste patto che non
sia stato spezzato, non esiste fedeltà che non sia stata
tradita, all'infuori
di quella di un cane veramente fedele».
―Konrad Lorenz
1 = Preghiera
del cane randagio che potete
trovare intera qui
Writers’
corner
Siete
davvero giunti fin qui?
Fino alla fine di questa mia prima storia sui cagnetti randagi?
Davverodavvero?
Allora non è che lascereste un commentino-ino-ino
per farmi sapere che ne
pensate? :3
Un grazie a tutti voi che avete letto o anche solo aperto questa
storia.
Spero che vi sia piaciuta, nonostante la fine non sia una delle
più belle...
però, come ha detto la ragazza che ha indetto il "Randagi
contest!"
cui questa storia ha partecipato e che troverete qui, "nella
vita reale... raramente le
cose hanno un lieto fine" (cit. testuale
di Manu Fury, che
approfitto per ringraziare per avermi permesso
di partecipare al suo favoloso contest).
Un bacio a tutti!
Eiriin. ♥~