Se esisteva un canone per misurare la bellezza delle stelle, quella sera quel canone era stato notevolmente superato dalla sfarzosità e dalla magnificenza degli astri che trapuntavano quel cielo d’inchiostro; le montagne erano mute, il mare anch’esso silenzioso; era una notte buia, rischiarata vagamente solo da quei puntini color ghiaccio che navigavano placidamente tra tutto quel nero, così fuori luogo, inopportuni in una notte come quella. Quasi fossero stati messi lì per caso.
Soffiava un vento freddo che veniva da nord, le
sussurrava parole incomprensibili, le lambiva le guance, le spostava i capelli
abbandonandoli sul viso.
In quella notte senza luna si domandava cosa ci fosse
aldilà di quel cupo mare nero che la circondava, aldilà delle stelle che si estendevano
infinite fino all’orizzonte; si domandava se davvero esistesse un popolo di
gente libera, che aveva ancora la forza, la voglia di ridere o se fosse stato
solo un bel sogno fatto in una di quelle fredde notti senza luna. E mentre
giaceva lì, su quel grigio, umido, freddo pavimento di pietra, scompostamente,
i capelli che le ricadevano a caso intorno al volto, in uno stato di completo
abbandono, si domandava che valore avesse la vita, se doveva essere vissuta con
un logoro abito grigio addosso, gli occhi spenti, persi a vagare a caso tra la
pietra e il muschio, che solo raramente si accedevano in uno scintillio folle,
vagamente sadico, lontana parvenza di ciò che era stata; si domandava che
valore avesse avuto la vita per lei quando ancora si considerava un essere
umano, in quell’eterno istante sospeso nel tempo tra ciò che era stata e quello
che era. E ora era soltanto un involucro umano quasi privo di anima, un mostro
folle e cinico chiuso in se stesso, avvolto da quella cupa rassegnazione che di
solito accompagna i condannati a morte, che si commiserava, si arrendeva; si
disgustava al solo pensare di cosa avrebbe detto di lei la giovane Bella
dai capelli lucenti e vagamente mossi. Avrebbe certamente alzato le
sopracciglia in quel suo tipico sguardo di superiorità e mosso appena le
labbra, in un' impercettibile smorfia di ripugnanza.
Le stesse labbra rosse e piene che non si incurvavano più in un sorriso da ormai quasi quindici anni. Era molto, troppo tempo per un essere umano; ma, in fondo, lei stessa si chiedeva se era il caso di considerarsi ancora tale: da così tanto le sue guance non erano solcate da lacrime, la sua pelle non era baciata dal calore del sole, o dal chiarore delle stelle, senza poi esserne ferita.
Una buia notte senza luna, passata a domandarsi che fine aveva fatto quella bambina che aveva sorriso di gioia quando il cappello parlante l’aveva mandata a Serpeverde, la bellissima ragazza scappata dal ballo, seduta su un molo al freddo, con una sigaretta tra le dita, la donna che, orgogliosamente, aveva guardato i suoi carnefici negli occhi quel mattino al ministero, il sapore dei baci, il ragazzo dai capelli ramati che aveva sposato.
A domandarsi da quando i ricordi fossero diventati così
dolorosi.
Erano tutti lì, accomunati da un male comune, eppure divisi, non solo da quelle maledette sbarre arrugginite, ma anche dalla propria storia, dalle proprie colpe, dai propri lancinanti rimorsi; mali che non si potevano condividere tanto erano articolati e particolari, specifici per ognuna di quelle maledette anime imprigionate lì, dentro quella prigione, quelle celle, quei corpi in decadenza. Anime che avrebbero tanto voluto liberarsi del peso ingombrante di quel corpo, librarsi in aria, completamente dimentiche del fatto che le attendeva solo l’inferno, perché nessun inferno per loro sarebbe stato peggiore di quelle mura di pietra; e allora anche lei avrebbe ritrovato se stessa, i sorrisi scaltri, gli sguardi maliziosi, cinici, alteri, i capelli neri, la pelle liscia, lattea, l’essere impuro, ma allo stesso tempo così perfetto che era stata.
Se ne stava lì, in piedi, con lo sguardo perso al di
fuori della piccola finestrella, fra le stelle, nel cielo immenso,
semplicemente per poter ascoltare le onde di quell’oscuro mare che si
infrangevano vagamente sugli scogli attorno alla prigione: era almeno un segno
di vita differente da una risata isterica, un urlo agghiacciante, un pianto di
disperazione e rassegnazione.
Pensava amaramente e sarcasticamente che quella sarebbe
stata una notte perfetta per fuggire; avrebbe sentito il vento tra i capelli,
visto le stelle da donna libera, goduto appieno di quel cielo traditore. Così
traditore, le aveva fatto credere che i suoi sogni si sarebbero avverati,
l’aveva illusa che avrebbe potuto ottenere qualsiasi cosa avesse voluto; le
aveva donato alcuni dei momenti più belli della sua dannata esistenza e ora la
beffava, al di fuori di quella finestrella, sembrando dirle che mai più avrebbe
goduto della sua immensità; nessuno poteva, doveva, sfidarla, ma lui l’aveva
fatto lo stesso, come a ricordarle che non poteva farci niente, che era troppo
perfino per lei. Doveva subire anche le prese in giro di quel dannato e
meraviglioso cielo nero.
Le sarebbe tanto piaciuto poter conservare quel piccolo
sogno, no, era meglio definirlo speranza, o, ‘parvenza di speranza’, da
cui attingere un po’ di luce, ogni tanto, per ricordare a se stessa, che aveva
ancora la forza di formulare pensieri sani, come un briciolo di gioia in
quell’eterna notte della sua vita. Ma se l’era già portato via il vento, lo
stesso vento freddo che ogni notte le faceva compagnia; se anche lui l’avesse
abbandonata, sarebbe stata davvero sola.
Ma lui era sempre lì, a sussurrarle parole misteriose e
arcane, ad accarezzarla.
Le sarebbe piaciuto potersi vedere allo specchio, tornare
anche per un solo istante donna, sfiorarsi con i polpastrelli delle dita le
labbra rosse, ravvivarsi i capelli e sorridere compiaciuta della sua immagine.
Le sarebbe servito; eppure sapeva che sarebbe stata delusa del trovarvi l’immagine
quasi di un teschio, labbra secche, capelli opachi, sporchi e appesantiti.
Tanto meglio allora rimanere così, in questo stato di stallo, con la remota
consapevolezza di essere un mostro, ma l’insignificante, agrodolce, speranza di
trovarvi riflessa la donna di un tempo.
Seguendo le incomprensibili melodie tracciate dal vento,
danzava sola, lievemente; piccolo sfogo di un’anima prigioniera del proprio
corpo.
Note: Innanzitutto
specifico che non è l’ennesimo mea culpa della nostra cara Bella,
ovverosia il mio alterego serpeverde^.- , semplicemente è lo sfogo di un’anima,
dannata, ma, a mio avviso, terribilmente affascinante, prima che riuscisse a
fuggire da Azkaban.
Dedico questa ff a tutti coloro che a volte, come me, si
sentono prigionieri di se stessi, della propria vita, della propria casa, anche
senza avere le sbarre alle finestre.
Adesso la pianto tranquilli…
baci Lily_91
Ah, quasi dimenticavo…il solito (apprezzatissimo)
commentino piccino picciò me lo lasciate, no???