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Autore: KeyLimner    01/03/2014    0 recensioni
La regina delle fate Biancospina è vittima di un’acuta indolenza. La vita, nel suo piccolo regno, le appare un infinito tedio, che le mille frivolezze di corte non riescono ad alleviare in alcun modo.
Ma ecco che alla sua corte comincia la sua ascesa un giovane ambizioso e ingannevole di nome Ramo di Faggio, che con sottili allusioni e proposte maliziose insinua nella sua mente il pensiero di un grande regno, oltre i confini del suo territorio striminzito, che inglobi i grandi imperi dei vicini sovrani, all’interno del quali tutti siano ai suoi ordini e nugoli di servitori siano sempre pronti ad accorrere ad ogni sua richiesta.
La sovrana capricciosa si lascia facilmente abbindolare e cede al fascino di quella visione. Ramo di Faggio riesce dunque a manovrarla senza difficoltà, sopportando con pazienza le bizze del suo umore volubile.
Ma al termine delle conquiste, Biancospina scoprirà di sentirsi più vuota di quando non possedeva che l'esiguo regno delle fate. Non le resterà che un'unica via...
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ad un tratto, Biancospina non poté più resistere. Lasciò di nascosto la grande sala della reggia, incapace di sopportare la pesante aria della stanza affollata.
Era stata lei stessa ad indire un lussuoso banchetto per cercare di alleviare la propria solitudine. Fiumane di gente da tutti i regni erano confluite nella sua dimora, riversandosi nelle innumerevoli sale fino a farle traboccare delle loro chiacchiere, delle loro risa sguaiate, delle loro disgustose affettazioni... e anziché rallegrarsi della loro compagnia, la regina se ne era sentita soffocata.
Ora vagava stordita per i corridoi del palazzo, fuggendo quella massa caotica come una peste. Si sentiva una reclusa in casa propria. Nel buio camminava alla cieca, incapace di seguire una linea retta, e urtava continuamente le pareti.
Nessuno si era accorto della sua assenza. E se anche qualcuno se ne fosse avveduto, era certa che non se ne sarebbe preoccupato minimamente. A nessuno dei suoi ospiti importava davvero di lei: ad attrararli nel suo palazzo erano stati il suo potere, le sue ricchezze... cose astratte che avevano ben poco a vedere con lei come persona.
Che sciocca che era stata a credere che una folla di sciocchi e frivoli sconosciuti avrebbe potuto proteggerla dall’accusa degli occhi che dalla sera prima continuavano a fissarla nella fissità della morte! Tanti occhi simili a quelli avevano già sfilato nella sua mente, e lei era sempre riuscita a scacciarli, a placare l'ostilità dei loro sguardi relegandoli in un cassetto della sua memoria da cui solo a tratti riaffioravano come spettri ad infestare le sue notti, i suoi sogni. Ma adesso gli occhi di Noel, il re degli elfi, in cui la vita pian piano si spegneva, sembravano non volerla abbandonare.
Quando la scure era calata sulla gola del sovrano e aveva reciso la sua testa, sancendo definitivamente la sua vittoria sulle resistenze dell'ultimo e più tenace dei regni di Magnolia, aveva sentito qualcosa spezzarsi definitivamente dentro di sé.
Alla morte di Dalia... la vanitosa Dalia... la prima delle sue vittime, che le aveva permesso di mettere le mani sulla prima fetta di potere al di fuori del proprio piccolo regno… era ancora una bambina. Innocente. Allora la morte della regina delle ninfe le aveva provocato un certo turbamento, ma era stato subito represso dall’emergere di una folle e infantile gioia di fronte all'accrescersi dei suoi domini. Naturalmente... quel viscido Ramo di Faggio, il suo consigliere, aveva avuto cura di alimentare quella gioia perversa, e parimenti la sua capricciosa ingordigia.
Quell'innocenza era andata sempre più scemando, man mano che le atrocità di cui si macchiava divenivano sempre più gratuite ed efferate.
Quando aveva catturato il re dei Fauni, il suo più caro amico Oak, il suo animo già gravido di sangue aveva avuto un doloroso fremito. Ma anche allora (con una spintarella da parte di Ramo di Faggio) era stata in grado di respingerlo. “È per il bene del regno”, aveva seguitato a ripeterle l’astuto consigliere. “Sotto la guida di un’unica sovrana, potrà finalmente tornare ad essere unito dopo tanti secoli di frammentazione e guerre. Senza contare che il vostro saggio governo - con l’aiuto dei miei consigli - garantirà una pace e una prosperità imperiture”. Biancospina aveva fatto proprie quelle parole, autoconvincendosi di agire per il bene supremo per nascondere a se stessa il suo vero movente: la sete di potere. Si era sentita incredibilmente buona e magnanima. “Qualche sacrificio è inevitabile perché tutto vada come deve andare”, si era detta, per disfarsi di quel fastidioso senso di colpa, facendo eco alle parole di quello che si illudeva di chiamare “suo primo servitore”... e che in realtà non si faceva scrupoli a manovrarla come un burattino facendo leva sui suoi desideri più oscuri.
Anche uccidere Oak dopo una lunga prigionia, per via delle sue continue proteste, le era parso inevitabile e giusto. O almeno così aveva ripetuto più volte alla propria coscienza inquieta.
Ma adesso, tutte quelle parole suonavano prive di significato.
Di colpo, anche le pareti, la fitta oscurità che la circondava da ogni parte, avviluppandola come un serpente nella sua morsa implacabile, sembrarono opprimerla.
Devo uscire, pensò sgomenta.
Arrancò dunque nel buio fino a trovare la rampa che conduceva alla della torre principale.
Salì le scale di corsa, come fuggendo da un nemico invisibile. Le sue forze venivano meno man mano che si avvicinava alla cima. La porta semiaperta in fondo alla scalinata, da cui penetrava una sottile lama di luce che rischiarava appena la zona circondante, sembrava arretrare ad ogni suo passo anziché avvicinarsi. Gli ultimi gradini li percorse quasi strisciando.
Quando finalmente sentì il vento fresco accarezzarle il volto, non provò il sollievo sperato. Riuscì però a trovare l’energia per rimettersi in piedi. Levò il volto al cielo, su cui scure nubi si addensavano minacciose, come radunando le forze per riversare su di lei la loro cupa ira.
Tutt’a un tratto, a Biancospina tornò in mente la sua vecchia amica, la poetessa Onde. E non lei - una sua immagine -, ma una scena che la conteneva, e che riassumeva in sé tutto il suo essere.
Erano nel lungo viale alberato che conduceva all'entrata della reggia.
Non appena aveva messo piede fuori dal palazzo, Biancospina aveva avuto sentore di un singolare profumo che aleggiava nell’aria, a cui non avrebbe saputo dare un nome. Lei e Onde avevano camminato a lungo in silenzio... perché con Onde non c'era bisogno di parlare, anzi, Biancospina l’amava proprio per quella sua capacità unica di comunicare anche senza dire nulla (non aveva mai conosciuto nessuno il cui silenzio fosse così denso di significato). Per tutto il tempo aveva seguitato a guardarsi intorno e ad annusare l’aria, per cercare di captare qualcosa che le fornisse la chiave del suo segreto.
Poi Onde si era fermata di colpo.
Biancospina non se ne era accorta subito. Aveva proseguito per un lungo tratto, sempre col naso per aria, finché non si era resa conto all’improvviso di essere sola. Stupita, si era voltata, e aveva visto l’amica dietro di sé, immobile come una statua di marmo, col viso rivolto verso l’alto e l’aria assorta.
“Ehi, che ti prende?”, le aveva chiesto, andandole incontro.
Lei per tutta risposta aveva indicato l’albero sopra di sé, senza staccare lo sguardo da esso.
Biancospina aveva seguito la direzione del suo dito, confusa, e di colpo aveva capito: tra le fronde dell’albero, impigliati fra i rami nodosi, stavano languidamente appollaiate decine di meravigliosi fiori bianchi. Tra questi, uno in particolare si schiudeva proprio verso di loro mostrando il pistillo e gli stami pieni di nettare, e sembrava rispondere al loro sguardo con una dolcezza materna.
Biancospina sentì il cuore sciogliersi, e il calore che avvertiva nel petto le affiorò pian piano sul volto sotto forma di sorriso.
Ecco cos'era. Ecco cosa c’era nell’aria quel mattino. Era la primavera: spargeva tutt’attorno i suoi profumi per annunciare il proprio arrivo imminente. La principessa si guardò intorno per scorgere altri segnali, ma scoprì ben presto che quello era l'unico albero in fiore del viale.
“È bellissimo”, commentò.
Onde non rispose. Era ancora in contemplazione di quei primi timidi germogli. Biancospina poteva vedere nel suo sguardo, nelle profondità dei suoi grandi occhi argentati, il principio di qualcosa di inesprimibile, che solo con un termine estremamente superficiale si sarebbe potuto definire un’intuizione. Aveva già avuto più volte modo di assistere a quel fenomeno, e aveva ormai imparato a riconoscerlo.
“Perché non scrivi una poesia su quest’albero, cara Onde?”, le suggerì. “Un’ode alla primavera che si avvicina?”.
Ma l’amica scosse il capo.
“No”.
La sua voce era profonda come il mare, come il placido rumore della risacca… come il suo gorgoglio lontano… misterioso… irraggiungibile.
“Non voglio trasformare questo fiore in un’idea”.
Biancospina la guardò perplessa. “Che cosa significa, Onde?”.
“Se io scrivessi di questo fiore adesso, finirei per congelarlo... per trasformarlo in un’immagine astratta. Il tentativo stesso di catturare il suo movimento, il suo fluire, finirebbe per immobilizzarlo e sottrargli vita. E allora cosa resterebbe? Nient’altro che l'idea morta di un fiore, compressa sulla carta. E che ne sarebbe del fiore? Non ne resterebbe allora che quell’idea, una pallida impronta senza vita”.
Biancospina non era del tutto certa di aver capito cosa la ragazza intendesse dire, ma preferì non approfondire, per paura di non essere in grado di cogliere le sottigliezze del raffinato pensiero di Onde. Anche allora, nonostante la giovane età di entrambe, provava per lei un grandissimo rispetto, quello che solitamente si rivolge ad una persona matura.
Guardò però ancora quel fiore e il suo cuore dorato, che schiudeva dolcemente tra i petali bianchi venati di morbide striature rosa, e provò un’'acuta tristezza al pensiero che al sopraggiungere dell’inverno -anzi, probabilmente anche prima - quel fiore sarebbe inevitabilmente appassito, i petali rinsecchiti sarebbero caduti al suolo e lì avrebbero giaciuto esanimi finché la terra non li avesse inghiottiti affamata. Niente sarebbe rimasto allora di quel fiore e di quei petali.
Desiderosa di esprimere la propria preoccupazione all’amica, ma timorosa di non essere in grado di formulare nel modo corretto il proprio pensiero, Biancospina guardò l'amica. “Ma così...”, azzardò timidamente, “così la primavera se ne andrà. Tu invece potresti farla restare per sempre”.
A quel punto, finalmente Onde distolse lo sguardo dalla pianta, e lo guardò dritto in volto. I suoi occhi immensi la fissarono intensamente, agganciandosi ai suoi, insinuandosi in lei, e paralizzandola... come gli occhi di un falco fanno alla sua vittima quando essa lo guarda sapendo di non avere più via di scampo.
“Sempre?”, disse lentamente. “Sempre? E tu lo sai cosa vuol dire sempre? Sempre è un tempo troppo lungo perché io e te possiamo anche solo cercare di comprenderlo. E tu vorresti che la primavera durasse per sempre? Ma cosa sarebbe la primavera senza l’inverno? Avrebbe senso chiamarla primavera?
Ciò che non capisci, Biancospina, è che la bellezza di questo fiore… la bellezza di tutte le cose di questo mondo… risiede proprio nel fatto che sono effimere. Se io imprigionassi questo fiore per salvarlo dall’azione erosiva del tempo, pensi che esso conserverebbe anche solo un decimo della sua bellezza? Affatto. La bellezza di questo fiore sta nel suo germogliare, nel suo apparire, nel suo disgregarsi e diventare polvere, per nutrire altra vita e far sbocciare altri fiori da una terra solo apparentemente arida. Un’idea ha forse il potere di duplicarsi, di formare nuova vita? No. Un’idea non ha vita, Biancospina. Ricordalo sempre. Non ce l’ha perché è incapace di morire. Sì, hai sentito bene. Incapace di morire. Tutti noi dovremmo essere grati per la brevità della nostra esistenza… perché ponendo ad essa un limite, rende infinitamente bello il momento in cui siamo, permettendoci di assaporarlo in tutta la sua dolcezza… sapendo che non tornerà più”.
Biancospina era molto colpita. Ma non del tutto convinta: le premevano ancora le sorti del suo fiorellino, che nel frattempo scrutava attentamente il loro scambio come un interlocutore silenzioso, come un accusato in attesa del verdetto del giudice.
“Onde... quello che dici è giusto… ma così questo fiore morirà. Non potremo fare niente per salvarlo”.
“Ma, Biancospina, noi l’abbiamo già salvato. Questo fiore non morirà. Non ancora. Non finché ci saremo io e te a portarlo con noi nel nostro cuore”.
“Ma...”. Qualcosa continuava a lasciarla perplessa. “Ciò che porteremo con noi sarà anch’esso solo un’idea, no?”.
“Esatto. Brava, Biancospina. Sì, è vero. Anche il fiore nei nostri cuori sarà un’idea. Ma non un’idea astratta. Non un’idea snaturata e privata della vita che scorre al suo interno per portarla ad uno stadio di assoluta perfezione. Sarà la diretta emanazione di qualcosa di concreto. L’alone che si è lasciato dietro spirando… con una deformazione minima dovuta all’inevitabile azione delle nostre menti su di esso. Insomma, avrà i contorni del ricordo. Ma ora basta. Abbiamo speso anche troppe parole su questo fiore. Andiamo avanti e smettiamo di disturbarlo”.
Improvvisamente, quando la ragazza del ricordo si avvicinò a quella giovane Biancospina, e circondandole la vita col braccio la condusse via, verso la luce abbagliante in cui le due sfumarono restituendole l’immagine della grigia realtà da cui era affiorata quella memoria variopinta... improvvisamente Biancospina realizzò. Capì finalmente cosa aveva fatto.
Lei aveva trasformato il regno... i suoi fiori, i suoi alberi, i suoi monti, le sue cascate, e persino i suoi abitanti... in un’idea. Una idea gigantesca, frammentata in una miriade di idee più piccole secondo una rigida gerarchia… una gerarchia al cui vertice c’era lei. Lei soltanto.
Ecco perché, nonostante tutto il potere faticosamente conquistato, nonostante la sua impresa fosse finalmente giunta al termine... continuava a sentirsi insoddisfatta. Aveva tutto, ma sentiva che continuava a mancarle qualcosa. Ora capiva cosa. Era la vita. La vita che aveva dovuto spremere a forza dalle cose per potersene impossessare. E quell’immensa ricchezza priva di vita non era  in fondo che un’infinita povertà. Mille volte peggiore di quella del più miserabile dei garzoni.
Nel realizzare tutto questo, Biancospina sentì un sudore freddo colarle lungo la schiena. Che fare? Per un attimo pensò di chiamare uno dei suoi servitori per farsi portare qualcosa da bere, dell’acqua, del vino, del nettare... ma poi il solo pensiero la disgustò.
Quanto avrebbe dato per poter abbracciare di nuovo la sua amica Onde in quel momento! Per un istante fu quasi tentata di andarla a cercare. Poi rammentò: Onde non c’era più. Era morta. Ed era stata lei stessa a decretarne la condanna. Adesso non ricordava più neanche per quale motivo... indubbiamente un motivo futile, che nella sua follia omicida le era parso cruciale.
Sperduta, si guardò freneticamente intorno come in cerca di una via di fuga. Con le mani che tremavano in modo incontrollabile, si avvicinò al parapetto. Da lì poteva vedere tutto il suo sterminato regno, dall’orgogliosa terra degli elfi, ad est, a quella dei terribili giganti, passando per quella delle ammalianti linfe, per il minuscolo regno delle fate (dèi del cielo, quant'era piccolo! Stentava adesso a credere che un tempo i confini del suo regno si limitassero a quel territorio così angusto), seguito da quello dei fauni, degli gnomi e infine dei goblin. Tutto suo. Non c’era un frammento di quella terra che non le appartenesse. Eppure... scrutò bramosa il paesaggio, cercando in sé una scintilla del desiderio (ora finalmente appagato) che aveva sentito ardere nel petto per tutto quel tempo. Ma non vide che il vuoto. Fuori e dentro di lei.
Tutti i popoli erano divenuti suoi sudditi... no, ma che diceva sudditi... erano suoi servi, suoi schiavi. Bastava un suo cenno a decretare la morte di ciascuno di loro. Era assetata, e in un battito di ciglia venivano portate al suo cospetto le più raffinate bevande, era affamata, e subito venivano imbandite per lei le più sontuose tavole, aveva caldo, e stuoli di servitori erano immediatamente pronti a farle aria con grandi ventagli di piume pregiate. Ogni suo capriccio era legge, a Magnolia.
Ma nei loro occhi... negli occhi di tutti i suoi sottoposti - che pure non osavano mai disobbedire ai suoi ordini - non c'era traccia di affetto. Solo terrore (nella maggior parte dei casi), oppure servilismo e lusinga. In ogni caso insinceri. Dietro ad ogni complimento, ad ogni servigio, si nascondevano la paura di essere puniti o la speranza di ricevere qualche beneficio. Ramo di Faggio non era diverso... lo aveva capito solo adesso. E adesso che lo vedeva gironzolare come un galletto per le immense sale del palazzo, tutto soddisfatto, senza più curarsi di lei se non per vezzeggiarla ogni tanto e tenersela buona, provava uno sconfinato disgusto nei suoi confronti. La disgustava troppo persino perché provasse l’impulso di punirlo. Aveva raggiunto finalmente il suo scopo. Quello che era stato il suo scopo fin dall’inizio... al quale lei allora era stata resa cieca dalla propria brama malsana.
C’erano anche, tra i prigionieri, alcuni che osavano ancora guardarla con odio. I loro sguardi d’accusa le penetravano nel cranio, insinuandosi sotto la pelle e infettando ogni parte del suo organismo... ed era del tutto inutile spegnere la luce che li animava con la fredda lama della ghigliottina: nel buio e nel silenzio della sua camera da letto, essi continuavano a fissarla, ad accusarla. E divenivano sempre più numerosi e adirati.
 Ed ecco che di nuovo l’assalivano in massa, più potenti che mai... gli occhi di tutti coloro che aveva ucciso... quelli fieri e saggi del re degli elfi... quelli mortificati e delusi di Oak... quelli di tutta la povera gente cui aveva ingiustamente sottratto la vita. Le loro voci le sibilavano nelle orecchie minacce implacabili. E non serviva a niente tapparsi le orecchie per difendersi.
Non c’era via di scampo.
Disperata, la regina sentì lacrime gelide scorrere sul suo viso contratto in una smorfia di dolore.
No.
Tra le lacrime, i suoi lineamenti si distorsero in un sorriso folle, ancor più spaventoso della smorfia di poco prima.
Esiste ancora una via d’uscita.
Le sue dita artigliarono la balaustra di marmo. Facendo leva sulle braccia, salì con entrambi i piedi sul davanzale, e camminò lentamente fino al bordo. I tacchi delle sue scarpe di diamante stridettero sulla pietra graffiandole i timpani. Il vento, soffiandole contro con improvvisa rabbia, le premette sul il corpo i lembi della lussuosa veste. Ululava contro di lei come una terribile fiera assetata del suo sangue.
Biancospina levò il volto al cielo. Chiuse gli occhi, assaporando quelle gelide sferzate.
Poi allargò le braccia, e si lasciò cadere nel vuoto.
  
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