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Autore: slytherin ele    02/03/2014    0 recensioni
Albus è stufo della sua vita, di essere famoso e fintamente amato solo a causa del padre... si rifugia nella lettura, senza pensare che anche delle semplici frasi, pronunciate ad alta voce posso creare seri problemi nel suo mondo...
Ecco come arriveranno Alec e Morgana da un luogo diverso lui, da un tempo lontano lei...
Storia partecipante al contest "Crossover fanfictions" indetto da Emma Lawrence.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Altro personaggio
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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(Capitolo I) La normale giornata di una persona particolare… o neanche quello?

Albus Severus Potter era convinto che nella sua vita mancasse qualcosa. Era ricco, famoso, apparentemente felice e circondato da centinaia di persone, che talvolta non pensava di aver mai conosciuto in prima persona. La fama, la ricchezza, persino le amicizie, sia vere sia false, non erano merito suo. Nessuno s’interessava ad Albus, il sedicenne timido, studioso, con un’enorme fissazione, quasi patologica, per il sovrannaturale e le creature magiche; tutti erano interessati al suo cognome, se non fosse stato il secondo genito del grande Harry James Potter, probabilmente nessuno nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts si sarebbe interessato a lui.

Ad Albus, questa situazione dava sui nervi: lui non era suo padre, lui non aveva salvato nessuno nella sua breve vita, non si era mai nemmeno messo nei guai. Insomma era un ragazzo qualunque, che molti avrebbe definito monotono, noioso o, nel migliore dei casi, regolare.

Non era particolarmente attratto dall’avventura e dalla trasgressione in genere, per buona pace della madre che doveva già badare ai disastri che combinava James e alle continue scenate di Lily, che da quando era entrata a Hogwarts, sembrava insofferente a qualsiasi cosa. Albus viveva una vita tranquilla, in pace con il mondo, cercando di scampare agli scherzi dei suoi compagni di casa, che sembravano stufi che lui avesse tanta fortuna con le ragazze, fortuna di cui avrebbe fatto volentieri a meno, non si sentiva attratto dal genere femminile, anche se faceva fatica ad ammetterlo persino a se stesso. Se anche così non fosse stato, l’essere spiato in continuazione dal “AS Fan Club”, capitano da Mary Jane McDonald, nipote di una compagna di scuola di sua nonna Lilian e che pensava di essere la sua anima gemella, non avrebbe giovato alla sua psiche, né tantomeno al suo pudore naturale.

Passava la maggior parte del tempo chiuso, ermeticamente, nella sua stanza insieme a sua cugina, Rose, a chiacchierare oppure in biblioteca a leggere racconti sulle creature più strane e fantasiose. Ultimamente, la sua fissazione era passata dai maghi antichi, quali Merlino e Morgana, alle creature immortali: i vampiri lo affascinavano, come avrebbero fatto con qualunque ragazzo Babbano, ma ad Al pareva impossibile che esistessero animali come i Thestral e quelle meravigliose creature immortali fossero solo frutto della fantasia. Suo padre aveva riso, quando da piccolo gli aveva detto che un giorno avrebbe dimostrato la loro esistenza; Harry pensava che potessero esistere, come esistevano i Lupi Mannari o le Sirene, ma sperava che non incontrassero uno dei suoi figli, poiché erano sempre degli esseri assetati di sangue, di conseguenza aveva cercato di far desistere Albus che, però, non si era dato per vinto.

 

Stava leggendo, appoggiato a un albero, con la solita voglia di cambiare la sua identità o con la speranza che qualcosa d’interessante potesse succedere nella sua vita, quando un’ombra coprì il sole, impedendogli di vedere le parole sulla carta, alzò lo sguardo e vide una donna dai capelli castani ondulati, gli occhi chiari con un guizzo di malignità malcelata all’interno e un vestito verde che sembrava appartenere all’epoca di Merlino.

“Ciao Albus.” disse la donna con voce melliflua. “Mi stavo chiedendo, perché leggi libri su quelle creature mostruose… sono pericolose! Dovresti tornare a letture più consone e smettere di pensare a loro… o potresti trovarti nei guai. Per esempio chiamarne uno!” La voce era ferma, suadente quando pronunciò le ultime parole, poi sparì nel nulla. Albus sbatté le palpebre, si guardò intorno, chiedendosi se avesse sognato.

Capì di non averlo fatto, quando Mary si precipitò verso di lui, chiedendo chi fosse quella donna che gli si era avvicinata in quel modo, sbraitando e scuotendolo. Nella sua mente c’erano solo tre parole: “Posso convocarne uno!”

Si alzò velocemente, staccandosi di dosso la ragazza, che si ritrovò a terra e venne soccorsa in fretta dalle amiche.

Albus non se ne curò e si diresse nella biblioteca, passò ore intere su libri di tutti tipi, cercando notizie sui vampiri e chiedendosi come poteva incontrare uno di loro. A un certo punto, girò la settantunesima pagina di un libro antico che parlava di vari clan e lesse le prime righe: era l’introduzione a un intero capitolo su una tribù particolare, quella dei Volturi, i quali erano considerati fra i più potenti vampiri esistenti, ma quello che catturò di più la sua attenzione fu scoprire che uno di loro poteva togliere i sensi, grazie a una nebbia perlacea; non era presente il suo nome e la miniatura che lo raffigurava era sbiadita, ma Albus intrigo molto di più che le cento pagine sul leader del clan, Aro, o le trenta su un certo Marcus.

Prese il libro e percorse i corridoi fino al suo dormitorio, entrò nella sua stanza e si chiuse a chiave, silenziò la camera e chiuse le tende del letto a baldacchino, mettendosi a leggere quei pochi paragrafi su quel vampiro, cercando significati nascosti fra le parole.

 

Alec, membro della guardia dei Volturi, non si era mai chiesto perché si trovasse a Volterra, in Italia, perché fosse diventato un vampiro, perché già prima della trasformazione si sentisse diverso. Si era limitato ad accettare il Fato e tutte le conseguenze che derivano da essere un’arma al servizio di Aro.

Non aveva mai pensato che mancasse qualcosa nella sua vita, non sentiva il bisogno di una moglie, come i suoi capi, né tantomeno dell’amore eterno, come alcuni vampiri d’infima lega e tutti gli umani in genere. Di una cosa, però, aveva sempre sentito il bisogno: un amante, possibilmente maschio. Le donne urlavano troppo forte, quando le mordeva e questo lo irritava; era un vampiro, aveva i suoi bisogni, che comprendevano bere il sangue umano. Gli uomini sapevano restare al loro posto, fieri e virili anche mentre emettevano il loro ultimo respiro, alcuni gemevano persino e non era dolore; poteva quasi sentire l’eccitazione nel sangue stesso: esistevano esseri umani molto strani, lo aveva imparato nel tempo e non grazie all’aiuto di Aro. Fosse stato per lui, sarebbero rimasti segregati nel loro castello a marcire e invecchiare, quasi fossero stati vecchi cimeli. Erano poche le occasioni in cui facevamo, realmente, qualcosa: qualche condanna, qualche omicidio, qualche punizione. Poi c’era solo la noiosa vita da creatura immortale.

Alec non si era mai lamentato, gli piaceva uccidere, si divertiva a vedere le persone impazzire, ma a volte si chiedeva se ci potesse essere altro, oltre al piacere che provava nel vedere gli occhi accecati ma allo stesso tempo terrorizzati delle sue vittime.

Non cercava una persona che non avrebbe cercato di scappare scoprendo la sua natura, solo Jane sembrava non avere paura di lui, voleva incontrarne una che gli facesse sentire le stesse sensazioni che aveva provato uccidendo per la prima volta: paura, eccitazione e soddisfazione.

Vide Jane entrare nella sua stanza vestita d’assalto o così amava definire lui il completo rosso e nero con tanto di mantello, che Aro faceva indossare loro, durante le punizioni: quando un vampiro o qualunque altra creatura magica infrangeva una regola, l’intero clan dei Volturi si muoveva in branco per riportare l’ordine. Per la cronaca, Aro, Caius e Marcus stavano fermi al centro, ben protetti e le guardie si occupavano dei condannati. In tutto ciò, i capi si guadagnavano la gloria e lui e la sorella si rintanavano in un angolo a guardarli gioire. Li trovava stupidi e inutili, tutti quanti; credevano di poter tutto, che nessuno potesse fermarli, ma la realtà era diversa: non sarebbero stati nulla senza di loro, non avrebbero avuto nulla senza di loro.

Il ragazzo non si lamentava della situazione, forse in un’altra vita avrebbe assunto il potere, si sarebbe ribellato; per ora, il gioco non valeva la candela, non c’era nulla o nessuno per cui valesse la pena rischiare.

“Andiamo, fratello.” La voce di Jane lo risvegliò. Tirò su il cappuccio del mantello e uscì dalla stanza. L’ora di uccidere era arrivata e, stranamente, era l’unica cosa che lo teneva ancora in vita, anche senza dare un vero significato a quell’insulsa parola. Lui non era vivo, non era nemmeno libero. Era solo un oggetto nelle mani di un pazzo assettato di potere e di giustizia.

 

La battaglia era stata persino più noiosa del previsto: il clan che si era ribellato era piccolo e senza alcuna abilità particolare. Aro non li aveva mai visti come un bottino degno, di sicuro li avrebbe voluti tutti morti e la fatica sarebbe toccata a lui; il potere di Jane era troppo violento, il suo, invece, ti faceva morire lentamente ma senza dolore. Aro voleva dimostrarsi magnanimo, giusto.

La nebbia aveva avvolto quattro corpi contemporaneamente, il sorriso di Aro si era allargato, ma Alec non sembrava interessato, non voleva sentirsi dire di aver fatto un buon lavoro: lui non sbagliava, mai!

I poveretti si contorcevano, gridavano, ma neanche questo lo appagava più; si sentiva spento, vuoto, inutile.

La nebbia che toglie i sensi, capace di estraniarti dal mondo… una morte, sì, ma soave… il dolore non c’entra… la vittima non sa, non vede, non sente, non odora, non tocca e non gusta… i sensi sono annullati… è come essere morti prima della morte vera!

Sbatté gli occhi, velocemente, cosa alquanto strana per uno della sua specie e cercò di far sparire quella voce dalla sua testa: no, non era solo la voce, c’erano anche delle parole… riusciva a vederle, descrivevano il suo potere. Il suo nome non veniva mai detto e quella voce ripeteva sempre le stesse frasi, come un mantra, come a non volerle dimenticare.

“Alec!” si sentì chiamare da Aro, mentre tornava in sé. La nebbia aveva smesso di fuoriuscire dalle sue mani, i condannati si muovevano di nuovo.
Prese un respiro, mentre guardava il suo capo, non vedendolo realmente; le frasi vorticavano nella sua testa, la voce continuava a parlare. Poi vide un volto, non lo conosceva. Sentì un battito, era umano. Sentì il richiamo del sangue e sparì, seguito dall’urlo della sorella.

Non aveva idea di dove sarebbe finito, ma doveva trovare quella persona e ucciderla o sarebbe impazzito.

   
 
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