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Autore: Narsyl    02/03/2014    1 recensioni
SPOILER 4X07!
La storia parte dagli avvenimenti della 4x07, colmando i pensieri dei personaggi coinvolti, e va avanti immaginando come possa proseguire la vicenda! Interamente incentrata su Ian e Mickey, insomma qualcosa da leggere nella dolorosa attesa che la prossima settimana arrivi! Saluti a tutti i Gallavichers
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Salve a tutti! In trepidante attesa della 4x08, posto questa accozzaglia di riflessioni e pensieri sulla Gallavich, partendo dalle scene della 4x07 e immaginando come andrà avanti, tenendo conto di tutti gli spoiler che abbiamo a disposizione quindi attenzione! Non specificherò cosa è spoiler e cosa no, li ingloberò direttamente nella storia, quindi in realtà non potrete sapere cosa succederà davvero e cosa è frutto della mia fantasia a meno che non siate già consapevoli degli spoiler che girano su tumblr! Se volete evitare completamente qualsiasi anticipazione, vi consiglio di leggere solo questo primo capitolo, che potrebbe essere considerato autoconclusivo in ogni caso, e che riguarda solo la 4x07 :) Spero vi piaccia e vi distragga un po' dall'attesa! Se chiunque volesse contattarmi, lascio l'indirizzo del mio tumblr: follevolo.tumblr.com Baci!


Le luci psichedeliche e i mille flash intermittenti sembravano voler costringere tutti i presenti a chiudere gli occhi, in un infantile rifiuto della realtà; la gente si abbandonava a quella folle illusione un po’ incubo, di visi verdi e viola, di un pavimento che traballa, del mondo che cade, della testa che gira. I corpi si contorcevano al ritmo di pulsazioni frenetiche, si scontravano l’uno contro l’altro con movimenti disconnessi, a tratti sensuali a tratti ridicoli, assurdi, sciocchi. La notte fuori era fredda a buia, ma a nessuno importava finché i piedi continuavano a battere sul pavimento di marmo. Ci avrebbero pensato dopo, quando la serata sarebbe finita e allora ognuno bene o male di svegliava del torpore causato dall’alcool e dal desiderio inconscio di negarsi la vista del reale; allora il vento glaciale avrebbe schiaffato contro la loro faccia beatamente incosciente tutto ciò che volevano lasciarsi alle spalle, il freddo si sarebbe insinuato dentro e tutti sarebbero corsi verso le macchine, o verso casa, o verso una qualsiasi direzione, una qualunque, basta che li facesse sentire un po’ meno dannatamente soli. Ma non era facile trovare un posto così, figurarsi che spesso quella gente lì si sentiva terribilmente sola anche in mezzo a un mucchio di corpi danzanti. Più cercavano calore più annegavano nei mari nordici del loro cuore intirizzito. Più toccavano, più urlavano, più si dimenavano, più perdevano la dimensione del proprio corpo.

Dove finisce la mia mano, dove inizia la tua?

Perdersi. Tutto era nebbia, fumo, aria impregnata di omissioni. Non si dicevano bugie- nessuno avrebbe ricordato qual’era la verità- ma piuttosto non si diceva. E basta. Parlare non era importante – come non lo era pensare, come non lo era sentire. Sentire nel profondo era un errore, impediva l’abbandono dello spirito che infondo, è proprio l’obbiettivo. Stracciare il cuore. Rinchiuderlo in qualche angolo grigio di foschia. E lì dimenticarlo, così, tenuamente, con disinvoltura, come fosse un ombrello. Si, proprio un ombrello.

Come fosse niente.

Poi diventava quasi una droga, la necessità di fuggire aumentava man mano che passavano i minuti di quell’ipocrita gioia fine a se stessa. Ne voleva sempre di più per riuscire a sopravvivere al freddo fuori. Lui che aveva la pelle così sensibile – e che infondo non apparteneva affatto a tutto quel rumore indefinito. Lui apparteneva alle corde del suo cuore che batteva. Solo su quelle poteva danzare. Solo su quelle viveva , ad esse era costretto, legato indissolubilmente, bloccato da esse nelle sue lacrime salate. E più cercava di sfuggirne più esse s’aggrappavano a lui graffiandolo con gli artigli; solo tutto quel rumore in certi momenti le sopraffaceva. Le zittiva.

Le rendeva solo fruscii rauchi.

Le palpitazioni allucinogene della tecno gli facevano tremare le vene a ritmo, mentre il cervello gli galleggiava nel cranio come annegando, silenzioso, nell’oblio. Scuoteva il suo corpo tonico e diafano senza riflettere sui suoi movimenti, con grazia meccanica, tastando, toccando, afferrando, ansimando, facendosi afferrare, toccare, ignorando le mani rugose e le lingue viscide che lo raggiungevano da quel mondo oscuro che era la realtà, ma al quale lui non apparteneva più da un po’.

Lui galleggiava nell’oblio e tutto il resto era solo rumore di fondo.

Tu mi ami. E sei gay.

Non tutti possono semplicemente sputare fuori quello che provano ogni minuto.

Non farlo…

E poi, lentamente, dal nulla, inspiegabile come una magia.

Il sapore delle sue labbra.

E così Ian teneva gli occhi chiusi, e sorrideva beatamente. Che gioia poterlo riassaporare ancora, e ancora, e ancora, sulle labbra di tutti, sulle dita di tutti. Era un dono, quell’oblio drogato alcolico psicopatico malato oppressivo. Era un dono che i ricordi lo torturassero secondo dopo secondo, permettendogli di scivolare via dalla realtà e di lasciare che essa gli scivolasse addosso. Gli scivolavano addosso strusciandosi tutti quegli uomini, ma finché teneva gli occhi chiusi, erano tutti Mickey.

Doveva pur sopravvivere.

Doveva pur farselo bastare.

A volte, una bugia poteva essere l’unica cosa vera della sua giornata.

 

Che fottuto idiota era. Cristo. Bastava un fottutissimo frocio del suo quartiere ed era fregato per sempre, Terry l’avrebbe saputo.

Eppure, mentiva a se stesso se credeva che fosse quella la vera paura che non gli permetteva di tenere la sigaretta fra le dita. Si infilò le mani nelle tasche con un sospiro di frustrazione. Dio, a volte era così gay. Gli tremavano le mani, cazzo, e perché? Perché lo avrebbe rivisto? Perché erano passati mesi e non aveva fatto altro che sforzarsi di non pensarlo, finendo per ripetere quel nome nella sua testa migliaia di volte al giorno?

Non pensare a Ian Gallagher, non pensare ai capelli rossi di Ian Gallagher, non pensare alle spalle larghe di Ian Gallagher, non pensare al sorriso storto di Ian Gallagher, non pensare alla voce roca di Ian Gallagher. Non pensare a Ian Gallagher. Ian Gallagher era solo una bocca calda. Ne troverai altre. Ian Gallagher non ti manca neppure un po’. Perché a te, di Ian Gallagher, non importa davvero nulla. Era solo sesso.

No?

Che musica di merda che passavano in quel posto, con tutti quei manichini che scuotevano i loro culi doloranti a destra e a sinistra. Odiava la loro libertà e la loro fierezza, il loro disinteresse e la loro sfacciataggine. Odiava il fatto che loro potessero starsene lì a ordinare un Appletini e a ridere come checche mentre lui era costretto a nascondere i giornaletti porno sotto una mattonella rotta del bagno. E non solo nascondeva i giornali, ma come una sciocca beffa, dentro i giornali nascondeva qualcos’altro, forse la cosa più pura, più buona, più autentica e vera della sua vita, e la nascondeva a sé stesso più che a chiunque altro, perché mai avrebbe ammesso che guardare quei capelli rossi, quel sorriso storto, quella pelle diafana, gli provocava un dolore dentro, come di un serpente che mangiava un elefante che gli aveva mangiato il cuore. Una matrioska di dolore che era una condanna e una fortuna, insieme, perché gli manteneva il ricordo vivido e gli impediva di dimenticare contro ogni suo falso desiderio.

Non voleva dimenticare. Non poteva.

C’era voluta Mandy per svegliarlo, perché lui, infondo, si era arreso. Come ci si poteva aspettare che reagisse diversamente? La merda gli era scivolata addosso come una doccia tiepida senza soluzione di continuità da quando era nato. Era stato addestrato a essere un fallimento dopo l’altro. Era stato cresciuto con l’intramontabile convinzione che nulla sarebbe mai andato bene, che era destinato alla miseria, alla mediocrità, all’infelicità, alla violenza, alla malattia, alla dipendenza, al dolore. Quando tutto era arrivato e si era avverato, non era stato sorpreso. Lo aspettava da una vita quell’epilogo di merda.

Perché avrebbe dovuto essere diverso?

Quel fottutissimo Ian Gallagher e la decisione idiota di venirsi a prendere la pistola del suo ragazzo con un ridicolo piede di porco in mano. Era così piccolo, innocente ,stupido, ingenuo.

Allora non si era ancora fatto le spalle.

Ora che ci pensava, era davvero patetico, ma lo aveva visto crescere sotto i suoi occhi.

Tre anni.

E ora, eccolo lì a strusciarsi su un vecchio porco. Il cuore di Mickey, suo malgrado, si sotterrò in preda al panico nei pressi del basso ventre, lasciandogli un vuoto nel petto che doleva come quando lo avevano sparato nel culo. Avrebbe riconosciuto quei capelli rossi in mezzo a una folla di fottuti scozzesi, ma per un momento avrebbe preferito non farlo, non assistere a quella scena torbida che gli faceva salire la bile in gola.

Ma Mickey Milkovich aveva il pelo sullo stomaco più lungo di tutti quei frocetti licchettati messi insieme, e dato che aveva deciso di occuparsi di quella faccenda, non si sarebbe certo fermato adesso. Ian era davanti a lui. Avrebbe messo quel buco di merda a fuoco e fiamme pur di avere quella faccia puntata su di lui. Quegli occhi nei suoi occhi.

- Bene piccioncini, è ora di alzarsi. E con alzarsi intendo che devi muovere il tuo futtuto culo via da lì. E’ il mio turno.

Aveva un tono duro e beffardo, allenato a nascondere le sue vere emozioni sotto uno strato di spessa insolenza. Ma sapeva di non essere del tutto pronto a quegli occhi.

Non sapeva bene cosa aspettarsi. Shock? Sorpresa? Felicità? Un sorriso, forse? Una lacrima, forse…?

- Con 25 dollari hai diritto a un ballo.

Indifferenza. Dura, fredda, implacabile indifferenza. Non poteva non riconoscerlo. Non c’era droga al mondo capace di flippargli così tanto il cervello.

Lo stava prendendo per il culo?

 

Porca puttana. Porca puttana troia. O Dio, Gesù.

Si era flippato il cervello. Era evidente. Aveva preso troppe pillole. Lo sapeva, cazzo, lo sapeva che non doveva esagerare. Stava scazzando di brutto, stava perdendo il controllo. Lo sapeva che non doveva esagerare, Cristo, Ian! Che cazzo hai fatto?

Riprenditi.

Respira, non sorridere. Respira. Ora se ne va. E’ solo un’immagine. E’ solo nella tua testa, rilassati e se ne va. Sarà uno qualunque.

Non è reale, Ian.

Forza.

Ma era davvero possibile che la sua mente costruisse un’intera scena dal nulla? Cosa stava succedendo nella realtà se quello che vedevano i suoi occhi era solo immaginazione?

Era abituato a vedere il suo volto riflesso su tutti i vecchi rattrappiti che gli capitavano al club; gli capitava spesso quando buttava giù troppa droga. Ma vederlo, sentirlo parlare, la sua voce, il suo tono, i suoi modi.

L’aveva raggiunto all’inferno?

Non sapeva più cosa fosse la realtà e cosa fosse lo scherzo della sua mente deviata. Non sapeva più a quali immagini credere. Non sapeva più per cosa doveva essere felice. Non sapeva se era rabbia o desiderio quello che lo spingeva a guardare Mickey in quegli occhi blu con uno sguardo feroce da invasato, senza esitare, senza tremare, potente e invincibile come una grandiosa statua di un dio greco; qualcosa dentro di lui ruggì quando vide lo sguardo di Mickey esitare su di lui confusamente, preso alla sprovvista. Se quello sguardo era una guerra, per la prima volta da quando si conoscevano, forse aveva vinto.

Ma il premio era amaro ed estraneo nella sua bocca.

Non come le sue labbra.

Lo spinse sul divanetto di pelle senza complimenti, chiudendo gli occhi e fingendo che fosse chiunque altro. Chiuse gli occhi e lo vide. Li riaprì, e ancora lo vide.

Era una magia di cui non riusciva a capacitarsi.

 

Mickey sentì il corpo di Ian flettersi e allungarsi su di lui, scivolando aggraziato e noncurante dell’elettricità che si stagliava potentissima fra loro scuotendoli entrambi in un vortice di desiderio e nostalgia, rancore e rabbia, tristezza e gioia vergine e impossibile da sotterrare, da allontanare, da dimenticare. Erano legati indissolubilmente da manette strette ai polsi, così strette da far male, ma li eccitava, quel dolore, come fosse l’unico segno di essere ancora vivi.

Poi, a un tratto, finì, e Ian si allontanò come se nulla fosse. Mickey sentì qualcosa rompersi dentro di lui, e la rabbia risalirgli su per la bocca: aveva il sapore sulla lingua, di sangue e smania. Lo rincorse, lo affrontò.

Ma non era lui. Non era Ian.

Non il suo Ian. C’era qualcosa di oscuro e sconosciuto nel suo sguardo da satanasso, che andava oltre il fatto che fosse vestito e truccato come il cast del Rocky Horror e che trasudava droga e alcool da ogni poro della sua pelle. Oltre al fatto che probabilmente lo odiava a morte e che vederlo aveva solo avuto l’effetto di fargli scoppiare un aneurisma nel cervello per la rabbia e il rancore.

Era qualcosa di diverso nel modo in cui contraeva la mascella e i suoi occhi si stringevano in due fessure che lasciavano intravedere un abisso in cui Mickey aveva paura di perdersi. Come se quegli occhi avessero visto incubi che li avevano cambiati e inariditi e ora non sapevano più guardare il mondo con innocenza.

Solo incubi fumogeni, nebbia fitta.

Ma non poteva abbandonarlo, non adesso che l’aveva ritrovato. Non adesso che sapeva con certezza che se se ne fosse andato, del dolce Ian Gallagher seduto dietro il bancone del Kash and Carry, che lo osservava di sottecchi sistemare la merce e cercava di trattenere un sorriso fallendo miseramente,dell’Ian Gallagher che era venuto a trovarlo in riformatorio e aveva appoggiato la mano al vetro con quella sua espressione tenera e indifesa, l’Ian Gallagher che lo guardava con il sole negli occhi e un giorno aveva mormorato, senza vergogna: “Se ci tieni a me, non farlo”… Quell’Ian Gallagher, trasparente, onesto, miracolosamente incontaminato dal mondo di merda in cui entrambi erano cresciuti, sarebbe annegato lentamente in un angolo remoto della memoria, e nulla sarebbe rimasto di lui se non una carcassa vuota, uno guscio splendido dai capelli rossi e le spalle larghe, vestito da prostituta, con un sorriso di plastica a tagliargli in due la faccia, un sorriso dipinto che non avrebbe mai raggiunto gli occhi. E per la sua vita, non poteva permettere a quel ragazzo di morire, e non perché era suo – e lo era, cazzo – ma perché era stato una delle poche cose, in tutta la sua vita, che lo avevano reso felice.

Glielo doveva.

Così uscì dal locale, si sedette su un gradino e si accese una sigaretta, in paziente attesa.

Non ci volle molto, davvero: poco più di mezz’ora e lo vide uscire con quel vecchio depravato. Sentì la rabbia montare dentro di lui, gorgogliare come mare in tempesta. Pensò a quando aveva steso quell’altro caso geriatrico con cui Ian scopava mentre lui era in riformatorio: pensò a come Ian dopo gli avesse confessato che gli piaceva perché non aveva paura di baciarlo.

Come se lui non ci avesse mai pensato. Ma un bacio è un segreto dal quale non si torna indietro: è un gesto così intimo, così silenziosamente pregnante di significati, così profondo e debole e importante. E Mickey non aveva esperienza di quel genere di cose.

Nessuno lo aveva mai amato, e nessuno lo aveva mai baciato. Non nel modo in cui importava, comunque.

Un giorno, pensò, avrebbe voluto dirglielo: che quel bacio rubato nel furgone, durato pochi secondi, con gli occhi sbarrati, le labbra leggermente socchiuse piene della boccata di fumo della sigaretta appena accesa, le mani prese alla sprovvista; neppure il tempo di rendersi conto del sapore delle sue labbra, che già era finito, se n’era andato, correva via ma si voltava con un dito medio ed un sorriso perché aveva vinto, aveva sfidato tutte quelle stronzate emotive di cui non conosceva il nome ma che, dentro, lo consumavano, l’aveva semplicemente fatto e basta, si era sporto e l’aveva baciato, e un giorno gliel’avrebbe detto, che quel momento era stato un autentico momento felice, e che aveva significato qualcosa.

Significava: resta, e io ti darò tutto quello che vuoi.

Ma non era quello il giorno: adesso, invece, doveva uccidere quello schifoso pervertito che stava leccando l’orecchio di un Ian pressoché incosciente.

- Perché non vai a molestare gente della tua età?

 

Sentiva scrosciare una danza dentro di sé che gli annodava e gli scioglieva i pensieri a ogni respiro. Sapeva di posti in cui quando ci arrivi non torni più indietro, e aveva paura, ma lo affascinava l’idea del vuoto che non pone mai fine alla caduta dal burrone. Aveva lo sguardo cattivo di chi si sta per fare del male con la voglia di farlo. Quella cantilena ossessivamente ripetitiva, sera dopo sera, lo annoiava e lo salvava allo stesso tempo: club, pillole, sesso, soldi.

Svegliarsi sempre in un letto diverso. Ordinare il servizio in camera. Fare una doccia per togliersi via il puzzo di sudore e pelle morta che hanno sempre i letti degli altri. Prendere i soldi dal comodino. Uscire prima che l’altro si svegli.

Ricominciare da capo.

Vedeva il vuoto, sotto, e non lo spaventava. Era un fondo infinito che non avrebbe mai smesso di farlo precipitare. Non avrebbe mai toccato il suolo. Era un compromesso doloroso, ma sopportabile.

Perché aveva dovuto succedere, proprio adesso?

Stava andando relativamente bene, pensava, insomma, era vivo e guadagnava soldi e per la maggior parte del tempo riusciva quasi a non pensare. Poi il suo volto era apparso dal nulla, e la sua voce gli rimbombava nelle orecchie come se fosse la prima e l’unica che avesse mai sentito in tutta la sua vita, e tutto il resto, la musica, le voci dei clienti, sembravano solo suoni ovattati, il ronzio di quando si sta per troppo tempo vicino alle casse durante un concerto.

Doveva averlo immaginato, non esisteva in quella vita e in quel mondo la possibilità che lui fosse venuto davvero a cercarlo. A lui non importava. Ormai l’aveva capito, lo sapeva. Eppure in quel delirio di flash psichedelici, in quel turbinio di sagome senza volto e di volti senza nome, in quel perverso girare di giostra da un corpo all’altro, così indifferente, così meccanico, la pelle gli bruciava da quando aveva avuto quel corpo sotto il suo, come se fosse stata a contatto con carbone ardente. Gli occhi in fiamme da quando avevano incrociato quel blu cristallino. Quel corpo aveva un volto, quel volto aveva un nome.

Mickey.

L’unico, da mesi.

E adesso non voleva vestirsi, non voleva coprire quella pelle per paura che se qualcosa si fosse sovrapposto a quella sensazione, la traccia bollente del suo tocco sarebbe evaporata come uno dei suoi sfuggenti ricordi, mimetizzandosi fra tutti gli altri volti opachi, fra tutte le altre voci roche.

Ma non era la sua mente. Quella voce gli giunse di nuovo, a sorpresa, lacerando il ghiaccio terso della sua corazza, sfasciando l’indolente testarda ambizione di dimenticare quell’episodio come fosse stato solo un piccolo granello di sogno in mezzo agli incubi. Lo sentì urlare qualcosa all’uomo che lo stava abbracciando; lo sentì allontanarlo malamente da lui. Le sue mani lo sfiorarono vagamente mentre gli toglieva quel corpo di dosso. Sentì di nuovo quel bruciore, unico collegamento con la realtà – o con il sogno.

Nessuno lo vide. Ma mentre Ian Gallagher si sfracellava al suolo, sulla neve, con null’altro addosso che una fine canotta e un paio di jeans, mentre crollavano demoni e angeli e la realtà e l’incubo e il sogno e la speranza si incastravano in mille piccoli pezzi di puzzle dentro di lui, mentre il suo corpo si abbandonava e la sua mente si fletteva verso il nulla, i suoi muscoli si rilassavano e la coscienza gli sfuggiva ancora una volta, Ian Gallagher, per un secondo, tornò in sé, e sorrise.

Pensi che ti verrò dietro come una troietta?

Ho passato tutto il giorno a rincorrere il tuo culo.

 

 

 

 

  
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