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Autore: KillerKing    06/03/2014    6 recensioni
Ravenna, 1944. Di fronte al mausoleo di Dante Alighieri, due uomini sfidano il coprifuoco nazista pur di nascondere qualcosa. Qualcosa che non deve finire nelle mani sbagliate. Ma per quanto tempo le spire del tempo possono tenere celato un segreto?
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Abbazia di San Galgano, nei pressi di Siena, domenica 25 giugno 2006, ore 19:15.
 
Il sole stava cominciando la sua discesa verso ovest, ma ci sarebbero ancora state almeno due ore di luce prima del calare delle tenebre.
L’uomo che si era fatto conoscere come Giulio Castellani scese dall’auto ed inforcò gli occhiali scuri. Davanti a lui, al centro di un grande prato dal verde rigoglioso, le vestigia dell’antica abbazia di San Galgano svettavano quasi a voler sfidare il cielo.
Alcuni turisti ancora si aggiravano nei dintorni, ma se ne sarebbero andati presto. Già quel sito era frequentato piuttosto poco, in più si stava avvicinando l’ora di cena. E quando sei in Toscana, il nutrimento del corpo ha dignità pari almeno a quello dello spirito. Ogni luogo di culto si sarebbe presto svuotato, e turisti e fedeli avrebbero terminato il loro pellegrinaggio in ristoranti e trattorie.
Non lui però. Lui aveva un lavoro da fare.
Appoggiato all’automobile, l’uomo prima si accese una sigaretta e poi prese il suo cellulare. Chiamò un numero che non compariva nella rubrica ma che sapeva a memoria, ed attese.
Gli rispose una casella vocale che gli chiese di inserire un codice numerico a tredici cifre. L’uomo lo digitò e poi lasciò il suo messaggio.
- Sono Tiziano Baroncelli, chiamo da linea sicura. Sono nei pressi dell’obiettivo ipotizzato, tempo di azione stimato entro la mezzanotte. Prossimi aggiornamenti a operazione ultimata. -
Chiuse la comunicazione e ripose il telefono in tasca. Aveva omesso della morte della Dottoressa Torrisi. Meglio non parlarne per telefono, anche su una linea protetta. Lo avrebbe fatto presente a missione completata, anche se era assai improbabile che sarebbero riusciti a risalire in qualche modo a lui. Giulio Castellani non esisteva e Fabiana aveva tenuto la loro relazione segreta. La chiave che apriva il sarcofago l’aveva gettata in mare al porto di Ravenna, i vestiti che aveva indossato quando l’aveva dovuta uccidere ed il suo telefonino li aveva bruciati e poi sotterrati in un boschetto adiacente ad una piazzola autostradale nei pressi di Firenze. La lama celata era stata pulita e disinfettata. E comunque i suoi superiori, in caso di bisogno, lo avrebbero protetto. Lo avrebbero fatto, visto l’enorme contributo che stava per dare alla Causa.
Spense la sigaretta contro la suola della scarpa e si mise la cicca in tasca, tanto per non lasciare in giro un mozzicone col suo DNA, e si incamminò verso l’abbazia.
Mentre avanzava, si ritrovò a pensare a come tutto fosse cominciato praticamente ed assurdamente per caso.
All’interno della Confraternita, tutti sapevano cosa era successo a Ravenna il 19 maggio del ’44, ma comunemente si pensava che l’oggetto coinvolto in quei fatti fosse andato irrimediabilmente perduto. Ed invece così non era. E lui aveva avuto tutte le indicazioni necessarie per ritrovarlo nella casa di sua madre e non lo aveva mai saputo. Per anni la soluzione del mistero era stata rinchiusa in una vecchia valigia, e nella sua famiglia nessuno aveva mai sospettato nulla.
La sua famiglia… Fino al quindicesimo secolo i Baroncelli avevano avuto un certo ruolo sia nella vita politica di Firenze che nella guerra fra Assassini e Templari, ma col passare degli anni la loro importanza era lentamente sbiadita, finendo per divenire una famiglia come tante altre. Ancora fedele alla Causa, ma ai margini di essa.
A lui questo stato di cose non era mai andato a genio, ed aveva sempre cercato di dimostrare la sua fedeltà in ogni modo possibile, sia come raccoglitore d’informazioni che come agente sul campo. Non si era mai tirato indietro, nemmeno di fronte a lavori sporchi o ingrati.
Ora gli veniva quasi da ridere a pensare che l’importanza che aveva sempre cercato di ottenere era sempre stata a portata di mano nella soffitta di sua madre, a Fiesole, nei pressi di Firenze.
Suo padre era morto nel 1999 durante una missione a New York, e sua madre era rimasta da sola, dato che lui se ne era già andato vivere per conto suo. Lei aveva sempre saputo benissimo chi erano suo marito e suo figlio e cosa facevano, quindi era più che conscia dei pericoli che la loro condizione avrebbe sempre comportato, ed era riuscita ad accettarlo. Lui però, sapendola sola e ormai avanti con l'età, andava a trovarla almeno tre o quattro volte al mese. Ed era stato durante un pomeriggio domenicale di otto mesi prima in sua compagnia, che quell'incredibile storia aveva avuto principio.
Stavano guardando senza particolare interesse un documentario sulla vita di Dante Alighieri in televisione. Naturalmente chi aveva preparato il servizio, così come quasi chiunque altro nel resto del mondo, non aveva idea di chi fosse stato Dante in realtà. Ad un tratto le immagini erano passate alla tomba del poeta a Ravenna, alla Basilica di San Francesco e all'adiacente convento di frati. Era stato in quel momento che sua madre, quasi sovrappensiero, aveva detto che un suo lontano cugino aveva vissuto in quel chiostro dal 1932 al 1965, anno in cui era morto d'infarto. Se lo ricordava perché il convento aveva mandato a lei i pochi effetti personali di quel frate, che all'epoca non aveva parenti più prossimi in vita.
Incuriosito dalla cosa, aveva chiesto a sua madre se era ancora in possesso di quei lasciti, e lei gli aveva risposto che erano in una vecchia valigia in soffitta. Era salito in solaio a dare un'occhiata ed aveva riscontrato che la magra eredità era composta solo da un saio ormai tarmato, un orologio da polso di poco valore e da una vecchia Bibbia rilegata in pelle.
Deluso, stava per rimettere tutto in valigia quando si era accorto di una cosa: la copertina posteriore della Bibbia era leggermente più spessa di quella anteriore.
Nel giro di due minuti era sceso al pianterreno ed era tornato con un affilato coltello da cucina, mettendosi subito a tagliare i bordi del retro del libro. All’interno, ordinatamente piegato, c’era un foglio di carta.
Lo aveva preso, lo aveva aperto, ed aveva cominciato a leggere ciò che vi era scritto.
Il foglio era datato 3 giugno 1946. Il giorno successivo al referendum che aveva sancito, a furor di popolo, il passaggio dalla monarchia alla repubblica in Italia. E, nella prima riga, lo scrittore rivelava subito la sua identità: Antonino Galvati, frate del convento francescano di Ravenna.
Nello scritto, il frate aveva deciso di narrare per filo e per segno di un avvenimento che lo aveva visto coinvolto la notte del 19 maggio 1944. Già lì era trasalito: la data era quella dell’attacco a sorpresa dei Templari nel covo degli Assassini di Ravenna, che aveva portato alla sua distruzione.
Febbrilmente aveva continuato la lettura e, mano a mano che i minuti passavano, le mani avevano cominciato a formicolargli ed i suoi occhi si erano spalancati a tal punto che quasi gli era sembrato che volessero uscirgli fuori dalle orbite.
Durante quella notte, Galvati, depositario dell’unica chiave in grado di aprire il sarcofago dell’Alighieri, aveva deciso di spostare le ossa del poeta per sottrarle ad un eventuale saccheggio da parte delle SS naziste. Un suo amico in odore di partigianeria, Marcello Sarti, si era offerto di aiutarlo nel compito. Ma Sarti non solo si era presentato all’appuntamento convenuto gravemente ferito, aveva anche preteso che le urne contenenti le spoglie di Dante venissero nascoste insieme ad un bauletto, dentro il quale sarebbero state poste.
Il frate non sapeva cosa avesse di speciale quell’oggetto (e non lo aveva scoperto nemmeno in seguito) ma, seppur riluttante, aveva accettato le condizioni. E nel foglio aveva descritto quale immane fatica era costata loro il semplice spostare le ossa dal cenotafio ad una buca sotto una siepe, a pochi metri dalla tomba. Ma c’era stata una parte che gli aveva fatto letteralmente schizzare il cuore in gola, una parte che aveva dovuto leggere due volte prima di crederci davvero: quella in cui Galvati aveva descritto quel piccolo simbolo sconosciuto nella parte interna del coperchio del bauletto.
In quel momento aveva capito tutto e si era sentito come se un fulmine lo avesse colpito scendendo dal cielo.
Sarti era un Assassino, era riuscito a scampare alla distruzione del covo, ed aveva messo in salvo la reliquia che lì era custodita nascondendola insieme alle ossa di Dante Alighieri.
Più aveva riletto quelle parole, più lo stupore lo aveva pervaso da capo a piedi. La reliquia, quella che negli ultimi sessant’anni tutti avevano smesso di cercare perché ritenuta perduta, non si era mai spostata da Ravenna.
Nell’ultima parte dello scritto, il frate spiegava perché avesse messo nero su bianco quanto avvenuto in quella notte, sebbene avesse promesso a Sarti di tenersi il segreto per sé. Dopo aver saputo della morte dell’amico, ucciso poco distante dal convento da una pattuglia di soldati tedeschi in ricognizione, Galvati aveva scritto di essere andato nel panico. Era però riuscito a dominarsi, ed aveva lasciato il bauletto con le urne sotto la siepe. Comunque, alla fine, i nazisti non erano mai venuti a cercare di trafugare le ossa. Già nel maggio del ’44 la Germania stava cominciando a perdere terreno su più fronti, ma a distanza di pochi giorni, neanche tre settimane, c’era stato il tracollo. Il 5 giugno le truppe americane del Generale Clark erano finalmente riuscite ad entrare a Roma. Il 6 quelle al comando di Eisenhower conquistavano le spiagge della Normandia, in quello che sarebbe passato alla storia come il D-Day.
A quel punto l’intera milizia tedesca era stata occupata ad affrontare problemi decisamente più prosaici rispetto al cercare oggetti d’arte o antichi cimeli esoterici per Hitler. E così le ossa erano rimaste dove i due amici le avevano sepolte fino a oltre la conclusione della guerra.
Poi, la notte fra il 2 e 3 giugno del ’46, Galvati, sempre in segreto, aveva rimesso le urne nel sarcofago. Le aveva lasciate nel bauletto di Sarti ed aveva chiuso anche quello nella tomba, rispettando le volontà che l’amico gli aveva lasciato prima che si separassero per l’ultima volta.
Infine aveva scritto tutto su quel foglio, perché non voleva che quel segreto, qualunque fosse, andasse perduto per sempre dopo la sua morte. Non era mai riuscito a scoprire se il suo amico Sarti fosse stato un partigiano o chissà cos’altro, né nessuno era mai venuto a chiedergli di lui, così aveva affidato quella storia ad un foglio e lo aveva nascosto in quello che per lui era il libro più importante del mondo, scegliendo deliberatamente di non rivelarlo a voce ad anima viva.
Una decisione quasi profetica, aveva pensato concludendo la lettura, vista la morte improvvisa che aveva colto il religioso ventuno anni dopo.
Mentre si infilava il foglio in tasca e metteva via il resto, aveva pensato a quanto il destino sapesse essere beffardo. Per quarant’anni la traccia per ritrovare la reliquia di Ravenna era stata in possesso della sua famiglia, e nessuno lo aveva mai nemmeno lontanamente immaginato!
Un tempo lunghissimo, smisurato. E lui non aveva intenzione di perderne altro.
Aveva contattato i confratelli di Firenze e aveva chiesto loro di fornirgli quante più informazioni possibili sulla tomba di Dante, soprattutto se fosse mai stata aperta dopo il 1946. Le risposte gli erano arrivate il giorno dopo: nessun furto denunciato o apertura “ufficiale”. Quindi, se il frate era stato sincero e non aveva fatto parola con nessuno di quanto aveva scritto, allora con ogni probabilità il bauletto era ancora dentro il sarcofago.
Giunto a quella conclusione, si era deciso a parlare di quanto aveva scoperto con i suoi superiori. E, al contrario di ciò che aveva immaginato, non si erano dimostrati poi così entusiasti di quello che era riuscito a scoprire. Gli avevano dato comunque l’autorizzazione a perseguire il suo obiettivo, imponendogli però di tenere un profilo più basso possibile, visto che ci si muoveva comunque sul campo di ipotesi, prima fra tutte quella che il bauletto contenesse effettivamente la reliquia.
Quella reazione tiepida lo aveva infastidito non poco, ma aveva capito subito che era stata legata a ciò che si stava preparando a Milano, che da anni canalizzava quasi completamente tutte le risorse a disposizione delle cellule attive in Italia. Che soddisfazione sarebbe stata riuscire a fare di meglio nel giro di pochi mesi!
Così aveva passato il mese successivo a scervellarsi su come individuare il frate che aveva in custodia la chiave del sarcofago, e a tenersi costantemente in contatto con gli informatori che operavano nella zona di Ravenna. Fino a che, un giorno, uno di questi gli aveva detto che la tomba dell’Alighieri sarebbe stata sottoposta a restauro, e che a capo del progetto sarebbe stata messa una donna di nome Fabiana Torrisi, Dantista dell’Università di Bologna.
Aveva fatto raccogliere altre informazioni e, dopo aver letto il dossier su di lei, aveva pianificato con cura come avvicinarla, studiando tutto quello che poteva sulle opere letterarie di Dante.
Ed ora era ad un passo dal compiere la sua impresa, mentre ciò che restava dell’abbazia di San Galgano si ergeva davanti a lui. Il ricordo di Fabiana fluttuò nella sua mente solo per pochi altri istanti. Non poteva fermarsi proprio ora perché preda di stupidi rimorsi. Quella donna, per quanto si fosse davvero un po’ affezionato a lei, se l’era cercata. Se avesse accettato i soldi che le aveva offerto, soldi suoi, che non aveva ricevuto dai superiori, sarebbe stata ancora viva.
Così si riconcentrò sul suo obiettivo.
Al centro di quella spianata erbosa, l’Abbazia sembrava lo scheletro scarnificato di un gigantesco mostro. Alcune sezioni erano crollate, il tetto era stato completamente rimosso e così anche il pavimento, tanto che ormai l’erba copriva anche tutto l’interno della costruzione. Andava comunque detto che anche le sole mura erano imponenti e di mirabile fattura. Costruita in un lasso di tempo di settant’anni, fra il 1218 ed il 1288, l’Abbazia era stato un centro di grande importanza ed influenza per decenni, fino a che l’epidemia di peste che aveva colpito l’Europa intorno alla metà del trecento aveva decimato sia i monaci cistercensi che la abitavano che i possedimenti ad essa assegnati. Un decadimento inarrestabile che era culminato nel sedicesimo secolo, quando il tetto era venuto giù e in tutta l’abbazia si contava ormai la presenza di un solo monaco.
Da allora, sporadicamente, si era fatto qualche lavoro di restauro. Ma la costruzione non era mai stata riportata all’antico fasto, rimanendo in uno stato di costante semiabbandono.
Guardandosi intorno, Tiziano Baroncelli si avvide che, come aveva previsto, i pochi visitatori del sito cominciavano a tornare alle loro automobili. Presto sarebbe rimasto solo, dato che i resti dell’abbazia erano così spogli e privi di qualcosa da rubare, che non era prevista nemmeno la presenza di un custode notturno.
C’era solo una cosa fra le sue mura, quella che attirava quei pochi visitatori che ancora la frequentavano. Ma era qualcosa che in Italia conoscevano in pochissimi, e che era lasciata lì, incustodita in mezzo alla navata centrale, protetta solo da una sottile teca di plexiglas.
La cosa di cui Dante Alighieri aveva scritto nei fogli di pergamena che aveva trovato nel bauletto.
Non era stato difficile decifrarli. Seppur scritti in un italiano trecentesco, era subito apparso evidente come il poeta, durante la scrittura, avesse ceduto il passo al Mentore degli Assassini. Niente iperboli o figure retoriche, niente voli pindarici o frasi che si potessero prestare a più di un'interpretazione. Solo una breve storia, una rapida descrizione, ed il divieto tassativo di utilizzare ciò che giaceva nell’Abbazia.
Ciò che, ora che era entrato, gli stava davanti, ai suoi piedi sotto il plexiglas.
Una spada arrugginita. O meglio, l’elsa di una spada arrugginita ed una piccola parte di lama visibile. Il resto era saldamente incastonato in una pietra ben piantata nel terreno.
Una spada nella roccia. La spada che San Galgano aveva piantato in terra nel 1180 in segno di rinuncia ad una vita di eccessi e attorno alla quale l’abbazia era stata costruita.
Peccato che, secondo quanto scritto da Dante nel suo lascito, quella non fosse la spada da cui Galgano si era separato per suggellare la sua conversione. E non era nemmeno una spada come le altre. Scriveva il poeta che quella era l’arma con la quale Farinata degli Uberti aveva guidato i Ghibellini alla vittoria, durante la battaglia di Montaperti nel 1260.
Dante non aveva mai smesso di cercare quella spada, ed alla fine era riuscito a venirne in possesso durante uno scontro fra Assassini e Templari nel 1319, quando era già Mentore di Ravenna.
Ma, dopo averla ottenuta, ne aveva proibito l’uso. Quella spada, aveva scritto, sembrava dotata di vita propria, rendeva invincibile ed intoccabile chi la brandiva, e con un colpo poteva sbaragliare anche dieci avversari. Ma il prezzo per tutto questo era venire travolti da una sete di sangue incontrollabile, tanto da non permettere più di distinguere fra amici e nemici. Il poeta non specificava se lui l’avesse mai usata, né riusciva a spiegarsi se quell’arma fosse un dono di Dio o del Demonio. Ma aveva imposto che nessuno la utilizzasse mai più.
Gli Assassini di Ravenna avevano provato a distruggerla ma non ci erano riusciti, così alla fine si erano risolti a camuffarla, di modo che sembrasse arrugginita ed inservibile, e a nasconderla. L’Alighieri aveva personalmente guidato la spedizione che di notte era penetrata nell’abbazia ed aveva sostituito la spada del Santo con quella di Farinata, lasciandola poi lì, nascosta in piena vista, sotto gli occhi di chiunque vi posasse lo sguardo.
E l’espediente aveva funzionato per quasi settecento anni. Fino a quella sera.
Dante non era riuscito ad interpretare la natura di quell’arma, non aveva le conoscenze necessarie per farlo, ma lui, uomo del ventunesimo secolo, riusciva ad immaginare più che bene cosa fosse in realtà e da dove venisse: era una spada dai poteri simili a quelli che si ipotizzava avesse avuto la leggendaria lama conosciuta come Excalibur, o come quelli della spada che Giovanna d’Arco aveva brandito contro gli inglesi durante la Guerra dei Cent’Anni.
Quella non era un’arma benedetta dalla Grazia di Dio o avvelenata dalla volontà del Diavolo, era un dono giunto dai meandri più profondi del passato, un concentrato di tecnologia quale nel presente non aveva ancora eguali.
Era un manufatto sopravvissuto alla catastrofe che aveva cancellato la Prima Civilizzazione. Era una Spada dell’Eden.
E a separarla da lui ora restava solo una stupida teca di plexiglass, che, con gli attrezzi che aveva in macchina, avrebbe rimosso in due minuti.
A Milano, il famigerato dottor Warren Vidic era in procinto di passare ad una nuova applicazione pratica della sua tecnologia Animus. Era sul punto di individuare un nuovo soggetto di sperimentazione per il suo macchinario dei ricordi genetici. Fino ad ora aveva ottenuto solo una collezione di fallimenti, dagli anni ’80 in poi non aveva fatto altro che provocare nelle sue cavie morte o pazzia. Eppure le alte sfere ancora credevano in quel tizio.
Ma ora lui li avrebbe fatti ricredere tutti e quando avrebbe varcato le soglie della sede milanese della Abstergo con una Spada dell’Eden in mano, chiunque gli avrebbe tributato il rispetto di cui aveva sempre saputo di essere meritevole.
Alzò gli occhi verso il cielo che fungeva da soffitto dell’Abbazia, e vide che cominciava a tingersi dei colori del tramonto.
Finalmente avrebbe avuto il posto che gli spettava.
E il suo nome sarebbe stato scolpito per sempre a lettere d’oro, negli annali dei Templari.


 
Note dell’Autore: Eccoci ancora una volta qui, amiche e amici. Stavolta siamo giunti davvero alla fine e spero che questa storia abbia incontrato il vostro gradimento. Ora che è terminata posso tornare a dedicarmi alla sezione che mi vede più impegnato, ovvero quella di Saint Seiya! Piaciuto il colpo di scena finale? O avevate già capito tutto durante la lettura di questo capitolo e di quello precedente? Spero che il vedere un Templare utilizzare una lama celata non vi abbia turbato: l’idea mi è venuta ricordando che, in AC3, Haytham Kenway ne usa una pur stando dall’altra parte della barricata. E in Black Flag il Templare Julien DuCasse afferma che spesso tali armi venivano sottratte dai cadaveri degli Assassini morti e poi riutilizzate. Se vi va non fatevi problemi a dirmi le vostre impressioni! ^__^
Andiamo a parlare un po’ di questo ultimo capitolo…
L’abbazia di San Galgano: la descrizione che ne ho dato ricalca abbastanza fedelmente la realtà, compreso il fatto (per me inspiegabile) che a tutt’oggi venga lasciata in uno stato di semi abbandono. Al di là del valore religioso (che a qualcuno, me compreso, può anche non interessare) è comunque un’opera inestimabile dal punto di vista artistico (ma di che ci stupiamo? Ogni anno crolla un pezzo di Pompei e non glie ne frega nulla a chi ne dovrebbe garantire la conservazione… vabbè, non è questo il luogo per simili polemiche…). La spada nella roccia c’è davvero anche se non è nella navata centrale, dove io l’ho collocata perché mi sembrava un’immagine più suggestiva. Da quello che ho letto (perché non ci sono mai stato di persona) è in una zona adiacente nota come “Rotonda di Montesiepi”. Vi allego alla fine il link wikipedia, in caso qualcuno di voi volesse saperne di più.
La spada dell’Eden: Chiunque abbia giocato alla serie di AC sa benissimo che i frutti dell’Eden non erano solo le sfere (o “mele” che dir si voglia). Anche qui vi allego un link informativo dove si parla, appunto, anche delle spade (anche se quella sita in San Galgano è una mia invenzione).
La famiglia Baroncelli: un esponente di questa dinastia lo troviamo in AC2, col nome di Bernardo. Fu uno dei Templari cospiratori che parteciparono alla Congiura dei Pazzi, ordita per togliere la vita a Lorenzo il Magnifico. Nel gioco è Ezio ad ucciderlo, nella realtà, ovviamente, no. Tiziano è, come avrete capito, un suo discendente.
Farinata degli Uberti (1212 – 1264): fu un comandante dei Ghibellini (i fedeli all’impero) di nobili natali fiorentini. Dopo aver contribuito alla cacciata dei Guelfi (i fedeli al potere del papato) da Firenze, si oppone ai condottieri Senesi e Pisani che volevano radere al suolo la città, riuscendo a farli desistere. Dante lo incontra nel Canto VI dell’Inferno, nel girone degli Eretici. Pur avendolo messo fra i dannati, il poeta si rivolge al compatriota con parole che dimostrano moltissimo rispetto.
Detto ciò, è giunto il momento di salutarci. Vi ringrazio moltissimo per l’attenzione concessami, spero che la lettura di questo mio scritto vi abbia fatto passare dei momenti piacevoli.
Per qualsiasi altra domanda, dubbio o delucidazione, io sono qua.
Buona vita a tutti voi! ^____^


http://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_San_Galgano

http://it.assassinscreed.wikia.com/wiki/Frutti_dell%27Eden

 
 
 

 
  
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