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Autore: Rety    08/03/2014    0 recensioni
Albeggia. Confronto a distanza tra i flussi di coscienza di un ragazzo particolare e la quieta compostezza di una ragazza lontana. Collocato temporalmente in un futuro prossimo e geograficamente in una metropoli lei, mentre lui non ha una collocazione specifica. Buona lettura
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Crack Pairing
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Una mattina



Il cigolio degli uccelli arrugginiti in castigo ardenti nelle fiammeggianti gole d'aria di chi parla da solo agli specchi d'alberghi di lusso in giacca nera e cravatta azzurra a righe sottili oblique bianche e blu per allenare la personalità e la parlantina oculare stuzzicava le parole plumbee più colorite e le vibrazioni aeree più inconcrete e le costringevano a far confessare al pianeta tutti i suoi difetti più spettacolari.
Tu intanto dormivi.
I composti del rame più belli sfilavano sorridenti come modelle obese in una passerella di colori indefiniti, infiniti, indefinibili, e tutta la mia vita, guardando attraverso quella materia, mi scorreva davanti, come un Eridano sanguinolento, e tutti i miei desideri più reconditi prendevano forma, ordinati, come schemi molecolari.
Tu intanto venivi sverginata dalla luce dell’alba, che imperversava dalla finestra alla tua destra che era rimasta aperta e priva di tende occultatrici e simili perché avevi amato troppo il gelo e il cielo quella notte per non condividerlo con te stessa e con le mie fantasie.
Come fece per gli anni precedenti Pantone aveva selezionato il colore dell’anno e quell'anno il colore dell'anno era il nero e tutti quanti erano presi da collera, ira, rabbia, negativo stupore, senso di colpa, senso di nausea e una miriade di brutte cose: solo io e la Morte zampettavamo come lucertole basilisco su pozzanghere in fuga da serpenti o come angioletti grassi, nudi e biondi in paradiso; eravamo vestiti entrambi di bianco ed in particolare io ero sporco di mimose sulla spalla destra perché mi ero rotolato  come un porco nel fango nei luoghi comuni e nelle fragranze femminili delle ciglia che avevano appena perso la via di casa e adesso erano alla ricerca disperata di un lavoro, anche part-time, nei pressi del tuo cuscino rosa da principessa.
Tu intanto avevi schiuso rumorosamente le palpebre, brontolavi qualcosa in un dialetto nordeuropeo, e controllavi che lo smalto rosso carminio sulle tue dita d’etere non si fosse dissolto durante la notte a causa dei nanetti e delle fate con i denti cariati che avevano invaso il tuo primo sonno nudo.
La Grecia si preparava a dichiarare guerra alla Crimea che l’aveva privata ormai da qualche anno del monopolio dei telegiornali banali e delle discussioni dei falsi intellettuali occhialuti che la mattina non hanno neanche il tempo di pettinarsi o di lavarsi quei sudici capelli che non sono ancora bianchi del tutto e che annuiscono quando sentono rimbombare nell’aire parole erudite così dando impressione di acconsentire o di approvare o di essere d’accordo o d’essere interessati quando in realtà non hanno idea di cosa si stia parlando e l’unico loro interesse è quello di farsi notare impegnati come una sorta di arcobaleno in scala di grigi che compare durante il mese di agosto quando la Grecia e la Crimea si alleano e uniscono le forze contro Dio, il clima e la fragilità dei vecchi decrepiti che invece di starsene chiusi in casa si ostinano a scendere in piazza all’ombra del Sole perché l’acqua delle fontane è azzurra ed è pure chiara, tutto questo per riappropriarsi insieme del monopolio dei telegiornali banali e delle discussioni dei vecchi in salute, che sfidano la sorte e si autoproclamano morti soltanto per sentirsi un po’ meno vivi di quanto già non lo siano.
Tu intanto leccavi lo zucchero caramellato dal dorso di un croissant confezionato, buttavi via il resto, fissavi L’étoile di Degas stampata sulla prima pagina di quel calendario regalatoti da tua madre che fu subito appeso al muro con tutto il cellophane e cercavi che giorno fosse e che ore fossero frugando nelle borse sotto gli occhi  e inciampando i polpastrelli soffici nelle fossette soffici del tuo salubre e tipico soffice sorrisino mattutino quotidiano.
Dall’altro lato dell’altro lato dell'altro mondo un foglio di carta riciclata trasudava parole poetiche in wingdings 3, e coloro i quali erano abbastanza avversi nei confronti dei piaceri della carne si dilettavano a leggerle ad alta voce, altissima voce, stando in piedi sulla tavoletta abbassata del gabinetto, in bagno, da soli.
Tu intanto ti eri annoiata, i croissant erano finiti, il tuo gatto beige miagolava e così decidesti di alzarti, e regalare un paio di orgasmi al tuo parquet pregiato calpestandolo con i passi piumati di danza del tuo saggio di quando avevi dodici anni di cui ancora hai memoria.

L’alba era appena andata a dormire, il tramonto storto era appena concluso e il cielo era tornato a sfidare Pantone a quel gioco che facevano ogni mattina: doveva ogni giorno indovinare di che colore fosse esattamente, e sbagliava sempre, perché il cielo cambiava sempre per tempo la tonalità d’azzurro, come in quei giochi con le mani dietro alla schiena e qualcosa nella mano destra, o la sinistra, a seconda di cosa l’altro giocatore profetizza. Quel giorno neonato era involto in un luminoso pianto primordiale e il tuo sorrisino mattutino prese una brutta piega, o meglio, prese una piega meravigliosa, quella piega, il tuo sorrisino magnetico, lo rese ancora più meraviglioso, in tutta la sua sufficienza e prevedibilità. La vita dei passanti ti scorreva chiara davanti a quegli occhi tumidi e, tra una ventiquattro ore e l’altra, sfogliavi i grattacieli circostanti che riflettevano il sole basso e filosofeggiavano, in un rumoroso scambio d’opinioni, sull’ingegneria e sudoku vari a caselle pari e alfabeti primordiali al posto dei numeri.
Io intanto ero ancora perso nei miei flussi di coscienza e vagavo tra i fiordi della mia materia grigia, depressa e triste come il colore, data la tua smania di perfezione che non veniva mai risolta nelle mie poesie o nelle mie dita mangiucchiate o nei miei muscoli facciali più in disuso; quindi non ero in grado di ricordare quello che avevo mangiato il giorno prima, né quello che avevo detto a mia madre prima che morisse in un incidente ideale, però ricordavo benissimo quello che avevi detto in quel lontano giorno d’inverno, durante quel tramonto eterno, e di conseguenza decisi di fare colazione con quei biscotti, quelli con undici stelle sopra e una spolverata povera di zucchero a incorniciare il tutto. Io quei biscotti non li mangiavo mai, erano buoni ma non mi piacevano poi così tanto, o meglio, mi piacevano ma non li digerivo bene, e il gioco non valeva la candela. Quella fu la colazione più nostalgica che ricordo.  “Mi sono innamorato di te, mi sono innamorato di te, mi sono innamorato di te” ripetevo sussurrando in un discutibile tentativo di auto psicologia inversa.
Fallì e fallii miseramente, ovviamente, e mi rimisi a letto, dopo essermi svegliato troppo presto, cullato dalla mia mente dalle braccia di qualcuno che era quasi in grado di competere con te in una gara di occhi, ricordando delle belle sensazioni e ricordi felici e complimenti e fotografie e baci con la lingua fuori dalla bocca e compiti d’italiano al liceo svolti magistralmente e parole giuste al momento giusto ed esperienze sessuali ed espressioni di piacere sulle facce altrui e le vittorie ai campionati del mondo e le parole che suonano perfette e le poesie di Ungaretti e le poesie dei miei amici coetanei lontani e le mattonelle rosse delle strade di Amsterdam e la cioccolata di Amsterdam e le frasi di Gabriel García Márquez e Scrubs a ora di pranzo e la pizza a ora di pranzo e Ludovico Einaudi in concerto a Royal Albert Hall e i violini e i sax e i didgeridoo in Australia appoggiati alle barbe brizzolate di aborigeni sacri e la voce d’angelo di Dido e i falò di ferragosto e barcollare dal sonno e barcollare dall’ebbrezza e tutti i nomi da donna che non terminano in A tipo Corinne o Amélie e i film di Harry Potter e la sabbia che scotta sotto i piedi correndo verso l'acqua e le nuvole colorate e nuvole nere e nuvole bianche e le nostre conversazioni spicciole e tutti i periodi ipotetici ipotizzati e la fiducia nel destino e i bambini che non piangono più oramai e Natale a Roma e la pioggia d’estate e le scale del duomo di Amalfi e i turisti stranieri vestiti male di cui devi indovinare la nazionalità studiandone la fisionomia e i leggins con le galassie che sono di cattivo gusto ma mi piacciono tanto e le nottate a guardare documentari sugli elefanti le poesie più lunghe di Leopardi e il dito indice di Galileo mummificato e posto nell’omonimo museo in una teca a Firenze volto verso l'infinito e “L’infinitoe il naufragar m’è dolce in questo mare ed infine gli infiniti periodi privi di punteggiatura che prima o poi finiscono, ma che vanno in giro sempre fieri, pancia in dentro, petto in fuori e testa alta.
   
 
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