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Autore: Jay_Bismen    08/03/2014    1 recensioni
La storia di una bambina, che già da piccola è costretta a convivere con una realtà troppo più grande di lei, ma che crescendo e incontrando nuove persone potrebbe iniziare a sentirsi meglio... O peggio.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capita a tutti, soprattutto ai giovani, di pensare di avere il mondo in pugno, e a volte è anche vero. Ma nell'attimo stesso in cui uno è convinto che tutto vada per il meglio, ci sono leggi statistiche che lavorano alle sue spalle, pronte a fregarlo.
Charles Bukowski, Musica per organi caldi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In una piccola città dimenticata dal resto del mondo c’era una stradina che serpeggiava tra file di edifici;  alla fine della strada, all’angolo di un incrocio, c’era una casa tanto bella all’apparenza quanto chiassosa: a volte, se provavi  a concentrarti, potevi sentire dei rumori provenire dall’interno, delle urla o dei bisbigli,a volte il frastuono di piatti rotti. A volte, se provavi a concentrarti ancora di più, se provavi a sentire oltre il frastuono, potevi sentire lo scricchiolio di una porta, sicuramente quella dalla soffitta. E se magari provavi ad avere anche un po’ di immaginazione potevi intravedere il volto di una bambina che, infilata sotto il letto, provava a tapparsi le orecchie, a non sentire più niente. Una bambina di otto anni circa, con dei bellissimi occhi verdi e lucidi, ancora troppo piccola per poter sopportare quei litigi. I litigi non le piacevano, per niente; se poi a litigare erano i suoi genitori, ancora peggio. Cercava di distrarsi canticchiando, ripetendo le tabelline abbastanza velocemente da non poter sentire gli insulti che provenivano dal piano terra; forse per quello era brava in matematica già da allora. Aveva otto anni, ed era già stanca. Non ne poteva più delle urla, e dei bisbigli, e dei piatti rotti, non ne poteva più di stare in soffitta sotto il letto a canticchiare o a ripetere le tabelline, anche se le piaceva tanto. Le mancava stare in pace tutto il giorno, le mancava quando i suoi genitori si amavano davvero e non si insultavano a vicenda. Le mancava il padre di una volta, quello che la faceva sedere sulle sue ginocchia la sera davanti al fuoco, dopo mangiato, e le chiedeva come fosse stata la sua giornata; le mancava la madre che le dava un bacio quando tornava da scuola e le mormorava un “ti voglio bene” ogni notte prima di rimboccarle le coperte. Ormai, il fuoco era sempre spento, sostituito dai termosifoni, e il padre dopo mangiato andava subito a mettersi nel letto, senza nemmeno salutare. E quando tornava da scuola non c’era nessuno ad aspettarla, e le coperte ormai se le rimboccava da sola, perché la mamma, secondo lei, non le voleva più bene. Non che dimostrasse il contrario. La povera bambina non poteva saperlo, ma la madre la amava. E anche il padre, ma loro due credevano di aver toccato il fondo. E la bambina continuava a piangere sotto il letto, perché avrebbe tanto voluto farli smettere, ma non sapeva cosa fare, e quando la mamma e il papà iniziavano un’ennesima lite in sua presenza, lei non faceva altro che scappare via. E soffriva per il fatto di essere impotente, per la sua convinzione di essere sempre il motivo dei loro scontri e per la voglia di riavere la sua vecchia famiglia.
Quindi la bambina non sapeva nemmeno se essere felice quando, dopo il rumore di un piatto che era andato a sfracellarsi sul muro della cucina, aveva sentito suo padre urlare ancora più forte di prima, a allora ripetere la matematica era stato inutile come quando si cerca di parlare vicino ad un martello pneumatico in funzione.
-Io mi sono rotto davvero, non ce la faccio più, se credi di saper fare le cose meglio di me, tanto vale che me ne vada subito! – la bambina sentì il rumore della porta d’ingresso che si apriva e si richiudeva subito dopo sbattendo e rimase immobile, con le mani poggiate sulle orecchie, quelle orecchie che avevano sentito sempre tutto, nonostante lei non volesse. E per l’ennesima volta quelle orecchie sentirono i pianti della madre, e le ingiurie del padre di fuori, mentre si allontanava di fretta. E suo padre, quell’uomo slanciato, con i suoi stessi occhi e i capelli sempre disordinati, suo padre non le avrebbe dato ascolto quando lei, buttatasi di tutta fretta vicino alla finestra gli aveva urlato di tornare indietro, con le lacrime agli occhi. E lì l’avrebbe trovata sua madre molto tempo dopo, quando ormai era calato il sole, e chiedendole che cosa stesse facendo le aveva mormorato un “ti voglio bene” per la prima volta da mesi, o anni, non ricordava niente in quel momento. Ma la madre non sapeva che stava aspettando il ritorno del padre. Perché “lo so” si ripeteva in mente “tornerà da me”. Ma non protestò, non aveva la forza di farlo, quando la madre la trascinò nella sua camera da letto, e la cambiò, e le rimboccò le coperte mormorandole per la seconda volta di volerle bene. Ma quella frase, per quanto desiderata, ormai le sembrava una bugia. Come aveva potuto lasciare andare via suo padre se le voleva bene? Ma la madre non le disse altro, e le tenne la mano finché, stremata dai pensieri e da tutto il mondo, si addormentò, sapendo che il giorno dopo avrebbe ritrovato suo padre di sotto a fare colazione, e anche se non l’avrebbe fatta sedere sulle sue ginocchia una volta arrivata la sera, le sarebbe bastato, perché la voglia di saperlo vicino a lei era più grande di quella di sentirgli dire che l’amava. Ormai alla bambina sarebbe bastato anche solo questo.

  
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