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Autore: Flajeypi    09/03/2014    5 recensioni
Il finale di Mockingjay mi ha lasciato l'amaro in bocca.
Come hanno fatto Peeta e Katniss a ritrovarsi? Che ne è stato di Gale? E degli altri?
L'ho immaginato così.
[Dal primo capitolo]
Vorrei dirgli che se se andasse per me sarebbe la fine: smetterei di alzarmi dal letto, di lavarmi, di mangiare, di vivere. Sopravvivrei, certo, perché incapace di uccidermi per via del debito che sento nei confronti di tutte le persone che hanno perso la propria vita per salvare la mia, ma questa non sarebbe una vita degna di essere vissuta. Vorrei dirgli che quando ha piantato le primule avevo creduto che fosse tornato da me, che avevo pensato che forse le cose sarebbero potute andare, se non bene, almeno meglio di come andavano prima. Ma non so farlo. Io non so parlare, non so esprimere i miei sentimenti, era lui che smuoveva le folle con le sue parole. Così rimango lì, a fissarlo, mentre lo vedo scrutarmi l’anima attraverso gli occhi.
“Ho capito”, dice. Ed io non ho idea di cosa abbia capito, ma dopo averlo detto mi stringe a sé e a me basta questo: è una promessa, significa “resterò, nonostante tutto”.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Gale Hawthorne, Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Mentre cadevo mi hai preso la mano
A Hunger Games Fanfiction

 


2. Sensi di colpa

La luce del Sole che entra dalla finestra aperta mi costringe ad aprire gli occhi. Mentre, soddisfatta, constato di non aver avuto incubi, mi chiedo come mai la finestra sia aperta, quando la ragione si muove vicino a me e mi fa tornare in mente tutti gli avvenimenti della nottata appena passata. Peeta, ancora addormentato, si rigira nel sonno e finisce con l’aggrapparsi a me, usando la mia pancia come cuscino. Lo guardo – me ne rendo conto solo dopo un po’ – con tenerezza e questo mi fa una strana sensazione. Ho la tentazione di accarezzargli la testa ma, poi, la paura di svegliarlo mi fa fermare con la mano a mezz’aria e mi costringe a rimetterla sul cuscino vicino alla mia testa.  Resto lì, immobile a guardarlo, con una miriade di emozioni , che non riesco a classificare, che sfilano dentro di me come su di una passerella. Dopo una buona mezz’ora di attenta veglia sul sonno di Peeta, riesco finalmente ad identificarle in una sola: serenità. Vederlo dormire mi infonde una pace tale da avermi fatto dimenticare, anche se per poco, di tutti i fantasmi che tormentano la mia vita. Ma ecco che tutti i pensieri, i ricordi e i volti tornano nella mia mente. Vedo Prim, la camicia che le sbuca in una coda dalla gonna; vedo Finnick e la sua costanza nello stringere la mano di Annie, al 13; vedo Cinna mentre mi sussurra all’orecchio “io scommetto ancora su di te, Ragazza in fiamme”… li vedo tutti e, inevitabilmente, lacrime silenziose iniziano a scorrere sulle mie guance.
Intanto la luce del Sole ha raggiunto anche gli occhi chiusi di Peeta tanto che li vedo strizzarsi, segno del suo imminente risveglio. Cerco di asciugarmi le lacrime in modo da non fargli capire di averle versate ma, mentre lo faccio, Peeta si sveglia e si alza di scatto dalla mia pancia. Diventa un po’ rosso in viso e deduco che sia imbarazzato perché nel sonno mi ha toccata come mai aveva fatto da sveglio, ma appena incontra il mio sguardo tutto il colore e l’espressione buffa che aveva fatto, scompaiono dal suo viso e vengono rimpiazzati da una maschera di preoccupazione. Si è accorto delle lacrime, penso e infatti invece di darmi il buongiorno con una carezza finisce di asciugarle al mio posto e mi chiede: “Perché piangi?”. Stavolta lo so, so il perché di queste lacrime, ma non riesco a trovare la forza di parlarne. Così lo fisso e lui capisce e, in un gesto improvviso, mi stringe in un abbraccio. Mi lascio cullare un po’ , fino a che i pensieri di poco fa non tornano a fare capolino nella mia mente. Mi sento in colpa, mi sento di non meritare questo pezzo di Paradiso: ho ucciso troppe persone e rovinato la vita di troppe altre. Mi scosto e, mormorando delle scuse, gli faccio capire di volermi fare una doccia. Spero di poter lavare via questi pensieri per godermi la presenza di Peeta ma, se mi conosco almeno un po’, so già che questa sarà una giornata ‘no’ e qualsiasi cosa tenterò di fare sarà inutile: non riuscirò a fare altro se non lasciarmi inseguire da fantasmi invisibili che esistono solo nella mia testa.  Lui mi lascia andare ma nel suo sguardo leggo quanto sia restio a lasciarmi sola mentre sono in questo stato, leggo la sua preoccupazione e questo mi fa sentire ancora peggio, per quanto sia possibile. Una cometa mi passa nella mente portando la consapevolezza che Peeta oggi sembra quello di prima, ma la sua scia viene subito rimpiazzata dai soliti fantasmi, tanto che non faccio in tempo a trarne beneficio. Scappo via dai suoi occhi preoccupati, mi chiudo in bagno e inizio a spogliarmi con estrema lentezza, poi mi butto sotto il getto della doccia, grata del fatto che stavolta nessuno vedrà le lacrime che sto versando. Ancora. Mi sento strana, io sono sempre stata la ragazza forte, quella che non piangeva, che non si lasciava trasportare dall’emotività. Immagino che dopo aver vissuto quello che ho vissuto io, fosse inevitabile che sarei cambiata eppure non riesco ad accettarmi in questa veste ‘umana’. Scrollo la testa per pensare ad altro e mi ritrovo a pensare a Gale. Anche lui è cambiato da quando cacciavamo insieme nei boschi, prima dei 74esimi Hunger Games, prima della ribellione, prima di quelle bombe. Il suo ricordo ha un sapore agrodolce, mi riempie di nostalgia e di rabbia allo stesso tempo. Da un lato vorrei rivederlo, abbracciarlo, dall’altro vorrei solo riversargli addosso il mio odio verso quelle bombe che lui stesso ha progettato e che hanno ucciso mia sorella. Ecco, questo è il colpo di grazia: pensare a Gale e a Prim contemporaneamente mi ha completamente prosciugato anche di quel misero barlume di speranza che nutrivo sul miglioramento di questa giornata. Mi scuoto da questi pensieri, esco dalla doccia e mi vesto. Una volta fuori dal bagno sento un odore dolce provenire dalla cucina e capisco che Peeta sta cucinando. Per me, penso e per un attimo il macigno che porto nel petto pare sollevarsi un po’. Mi lascio guidare dal profumo e quando arrivo in cucina trovo Peeta, con tanto di grembiule, intento a sfornare le mie pagnotte preferite. Vorrei ringraziarlo in qualche modo per tutto quello che fa per me, anche solo per il fatto di essere qui e l’unica cosa che mi viene in mente è che potrei sforzarmi per fare una conversazione decente con lui. Ricordo quando mi disse che tutta la questione dell’amicizia ruota attorno al raccontarsi i propri pensieri o anche le cose meno profonde, come il proprio colore preferito. Così prendo coraggio e cerco uno spunto per una conversazione.  Un’idea mi balena per la mente: ricordo che a Capitol City giocava a ‘Vero o Falso ’ per capire quali dei suoi ricordi fossero realmente accaduti e che questa cosa lo aiutava molto. Decido che il mio modo di ringraziarlo sarà aiutarlo in questo gioco, anche se le domande che mi farà mi feriranno e mi faranno male. Lo sopporterò per lui.
Mentre ero distratta da questi pensieri non mi ero accorta del suo sguardo indagatore su di me, così mi sbrigo a parlare.
“Pensavo … - incespico – che potrei aiutarti con il ‘Vero o Falso ‘ se vuoi …” e lascio cadere la frase a metà.
Lui mi scruta. “Perché?”, domanda.
“Perché non ho altro modo per farti capire quanto apprezzi ciò che fai per me”, rispondo di getto stupendomi della mia improvvisa calma.
Lo vedo indugiare. “Sei sicura? Potrei ferirti e farti star male … - si guarda intorno come per cercare le parole - … e ho l’impressione che sarebbe persino peggio di quando ho provato a strangolarti”, completa la frase con un’espressione addolorata che mi convince che quello che voglio fare è giusto.
Non gli rispondo, mi avvicino per prendergli la mano e guidarlo con me fino al divano nel salotto, dove mi siedo e con un gesto gli faccio cenno di sedersi accanto a me.
“Chiedi tutto quello che vuoi.” Gli dico, vedendo che non sembra voler prendere l’iniziativa.
Lo vedo fare un grosso respiro, come per darsi coraggio. Finalmente prende posto sul divano, vicino a me, anche se non troppo.
“Tu avevi una capra. Vero o falso?”
Resto stranita per la scelta della domanda e mormoro un “vero”.
“Si chiamava Lady. Vero o falso?”
“Vero”. Non capisco perché sapere della mia capra potrebbe aiutarlo.
“Mio padre comprava sempre gli scoiattoli da te. Vero o falso?”
“Vero”, rispondo ancora una volta, mentre realizzo che mi sta chiedendo cose che già sa.
“Li centravi sempre …”, lo interrompo. “Perché mi chiedi cose che già sai?”. Lo vedo fare una faccia strana, come chi viene colto con le mani nel sacco. Non mi risponde.
“Perché?”, insisto.
“Perché ho paura che se ti chiedessi ciò che davvero vorrei chiederti, potrei … - il suo volto diventa triste – potrei avere un episodio e farti del male”. E’ vero, non ci avevo pensato. Ma non mi importa, io lo aiuterò, costi quel che costi.
“Se accadrà, ce ne preoccuperemo. Chiedi ciò che vuoi davvero sapere” dico, guardandolo risoluta.
Lo vedo indugiare e poi, finalmente, decidersi.
“Nella prima arena mi hai ingannato per farmi prendere del sonnifero. Vero o falso?”
“Vero”, questa era facile.
“Volevi uccidermi nel sonno. Vero o falso?”
“Falso”. Ecco, questa ha fatto un po’ male.
“Hai rischiato la vita al festino alla Cornucopia per prendere la mia medicina. Vero o falso?”
“Vero”, lo dico sentendomi sollevata perché una parte di lui ricorda ancora le cose buone che ho fatto per lui.
“Ma poi non me l’hai data e hai tentato di uccidermi ancora. Vero o falso?”
Lo guardo, addolorata, incapace di rispondere prontamente.
“Vero o falso?”, insiste.
“Falso”, rispondo in un sussurro senza guardarlo negli occhi.
“Bugiarda”. Oh no, penso. Alzo lo sguardo e trovo due pozzi neri a guardarmi. E ora che faccio?
“Peeta … quello che vedi non è reale, guarda i colori, credimi ti prego … “, cerco di farlo ragionare ma i suoi occhi restano neri. In un momento mi afferra come se fossi una bambola di pezza e mi immobilizza sul divano. Sento le sue mani raggiungermi la gola e iniziare a stringere sempre più forte. I pensieri di questa mattina tornano a fare capolino nella mia mente e, così, invece di opporre resistenza mi lascio andare. Merito di morire per tutte le vite che ho spezzato, ne sono convinta. Ormai penso di esserci vicina, sto per morire, la mia visuale si sta riempiendo di macchie quando sento un colpo violentissimo e, improvvisamente, la presa delle mani di Peeta che si annulla e lui che mi cade addosso, svenuto. Alzo lo sguardo e trovo una Sae terrorizzata e munita di padella che fissa Peeta come se fosse il diavolo. Non deve pensare che Peeta sia violento, non può crederlo, è solo tormentato da questi episodi di cui sono sempre e solo io la causa.
“Sae” la chiamo, ignorando il bruciore alla gola. Mi guarda.
“Non era lui. Era sotto l’effetto di uno dei suoi episodi. Non pensare che sia violento, ti prego. Quando tornerà in sé non dovrà sentirsi giudicato o lo perderò per sempre. Hai capito?”. Mi sorprendo della mia sincerità, ma dovevo dirglielo, perdere Peeta è troppo grave per potermi preoccupare di mostrarmi debole davanti agli altri. La vedo annuire, sì, Sae ha capito, non mi tradirà. Mi aiuta ad alzarmi e a spostare Peeta, in modo che la sua testa sia sulle mie gambe. Quando si sveglierà, sarò la prima cosa che vedrà. Chiedo a Sae di andare via e stranamente lo fa, ma quando la puzza di alcool invade la stanza, capisco che si è soltanto fatta rimpiazzare dal mio ex-mentore.
“Haymitch”, dico, sentendo che non si muove dallo stipite della porta.
“Non voglio sentire commenti”, lo ammonisco.
“Oh, d’accordo dolcezza. Non commenterò ma, se posso darti un consiglio – e intanto entra nel mio campo visivo piazzandosi davanti a me – quando si sveglierà, lascialo andare. Si sentirà in colpa e sarebbe capace di non avvicinarsi mai più a te, sai che lo farebbe. Me ne occuperò io e ti chiedo di restarne fuori, anche se ci dovesse volere molto tempo, restane fuori”. So che non si aspetta una risposta da me – infatti resto muta – e so anche che prevede che non lo ascolterò e che farò di tutto per far restare Peeta qui con me.
Intanto, Haymitch si accomoda sulla poltrona affianco al divano e inizia a sorseggiare dalla fiaschetta che tiene sempre nella tasca interna della giacca. Io ritorno a guardare Peeta in volto e noto che sta per svegliarsi; la padellata che gli ha dato Sae non doveva essere tanto forte. Apre gli occhi, finalmente azzurri, e mi guarda con un’espressione addolorata e carica di scuse. Si alza di scatto, ponendo quanta più distanza possibile tra noi. “Katniss, ti prego, scusami …” inizia, ma io lo interrompo.
“No, ti prego io. Non mi lasciare, non andare via. Non è successo niente, vedi? Sono viva e sto bene”. Ma lo vedo guardare il mio collo, diamine, devono essere comparsi dei segni rossi.
 “STAI BENE? GUARDA IL TUO COLLO! COME FAI A DIRE DI STARE BENE!”, alza la voce, ricordandomi il Peeta infuriato dell’11 durante il Tour della Vittoria.
“Sai che non mi importa, i segni andranno via. Ti prego Peeta …”, dico in un sussurro.
Ma lui intanto si alza ed è questo il momento in cui interviene Haymitch. Vecchia volpe, aveva calcolato tutto. Gli circonda le spalle con un braccio e lo guida verso la porta. Peeta si gira un’ultima volta nella mia direzione: “Mi dispiace”, dice, prima di uscire e sparire dalla mia vista.
Qualcosa dentro di me si spezza e mi sembra di poter sentire il baccano che fa anche se non è reale. Mi rannicchio sul divano e, senza rendermene conto, inizio a piangere. Singhiozzo come mai nella mia vita, soffoco urla nei cuscini del divano e mi tengo la testa con le mani perché la sento esplodere. So che molto probabilmente Peeta riconsidererà la decisione che soltanto ieri sera aveva accantonato e se ne andrà, via dal 12 e da me. Per sempre. Continuo a disperarmi finché, dopo almeno due ore, il sonno non si impossessa di me.
 
Corro nei boschi trasportando il sacchetto con il numero 12 stampato sopra. La ferita alla testa pulsa ma non m’importa. Devo correre più veloce, Peeta ha bisogno della medicina o l’avvelenamento del sangue lo ucciderà. Arrivo alla caverna e trovo tutto come l’ho lasciato. Peeta dorme ancora ma … c’è troppo silenzio. Poi capisco: manca il suo respiro. Mi avvicino e tiro fuori la medicina;gli inietto tutto il contenuto della siringa nel sangue, mi avvicino alle sue labbra ma niente, nemmeno un alito. Allora appoggio l’orecchio al suo petto, dove dovrei sentire il cuore battere, ma anche qui trovo solo silenzio. La consapevolezza dell’accaduto inizia a farsi strada dentro di me: Peeta è morto. Non ho fatto in tempo o forse sono stata proprio io ad ucciderlo, con quel sonnifero. Piango, strepito e urlo mentre lo stringo tra le braccia, mentre realizzo di essere la responsabile anche della sua morte.
 
Mi sveglio, ancora una volta madida di sudore, con la consapevolezza che quell’incubo potrebbe essere reale, non perché Peeta sia morto davvero nell’arena, ma perché se deciderà di andarsene, sarà davvero come se fosse morto. Non lo rivedrò mai più. A questo pensiero, mi rannicchio sul divano nascondendo la faccia tra le ginocchia. Dopo una decina di minuti mi riscuoto, decido di alzarmi e di andare a prendere qualcosa con cui coprirmi il collo. La parte di me che continua a nutrire una speranza sul ritorno di Peeta è riuscita a convincermi che sia meglio che non veda i segni che le sue stesse mani hanno lasciato sul mio collo, nel caso decida di tornare. Ho appena finito di sistemarmi una sciarpa intorno al collo e mi sono risistemata sul divano in posizione fetale, quando vengo distratta dal rumore di passi che arriva dall’ingresso. “Haymitch, già di ritorno?”, dico con la voce impastata dal pianto e dal silenzio prolungato. Ma la risposta non è quella che mi aspetto: “Catnip, sono io”. Sgrano gli occhi, non può essere. Lui era al 2, con un bel lavoro, forse anche con un’altra ragazza, che diavolo ci fa qui, ora? Lo sento avvicinarsi e sedersi accanto al me sul divano. Alzo lo sguardo e lo vedo: in forma, ben nutrito e con un’espressione diversa sul viso, da uomo.
“Gale …”, mormoro.
Capisce la mia confusione e inizia a spiegare: “Te l’ho scritto in una lettera, anche se immaginavo che non le leggessi dato che non rispondi neanche al telefono”. Già, chi più di lui mi conosce e sa come penso e come mi muovo?
Per un attimo mi dimentico di quello che mi ha fatto, di quello che ha fatto a lei, e lo abbraccio. Lui ricambia stringendomi forte e per un po’ mi lascio confortare da quelle braccia forti che mi hanno rassicurata tante volte in passato. Mi accorgo che mi accarezza la testa e alzo gli occhi fino a farli incontrare con i suoi. Succede in un attimo, senza darmi la possibilità di reagire poggia le sue labbra sulle mie. E’ un bacio strano, sa di guerra, sa di rabbia, sa di tristezza e domande lasciate inespresse. Rispondo per un po’, finché non mi rendo conto che mentre lo bacio sto desiderando un altro paio di labbra, che tutto questo è sbagliato. Mi stacco all’improvviso, sorprendendolo.
“Perché lo hai fatto?”, gli chiedo confusa.
“Una volta anche tu mi hai baciato perché soffrivo”, dice semplicemente.
Sorvolo sul fatto che, ancora una volta, Gale è riuscito ad indovinare il mio stato d’animo senza aver bisogno di una parola da parte mia.
 “Allora era tutto diverso”, dico con durezza.
“Lo so”, dice lui con uno sguardo triste. Chi sa, forse aveva capito che in quel periodo pensavo di aver scelto lui? Ma non è il momento di pensare a questo; devo sapere perché è tornato.
“Perché sei qui?”, chiedo e mi accorgo di aver assunto un tono freddo, controllato.
“Perché ho bisogno del tuo perdono”, dice mettendosi le mani tra i capelli; è nervoso.
“Anche io ho bisogno di perdonarti”, dico senza rendermene conto perché, all’improvviso, capisco che se lasciassi andare la rabbia che provo nei suoi confronti, forse potrei sentirmi meglio.
 Resta interdetto per un attimo finché non nota i miei occhi rossi e mi prende il viso tra le mani per osservarmi meglio, ma così facendo sposta inavvertitamente la sciarpa, scoprendo il mio collo. Scorge i segni rossi lasciati dalle mani di Peeta e il suo sguardo diventa serio e arrabbiato.
“E’ stato lui?”, dice furioso, sul punto di esplodere. Non rispondo, so che lo giudicherebbe, so che coglierebbe al volo l’occasione per sostenere che non dovrei stargli vicina. Non voglio ascoltarlo, non posso ascoltarlo, non dopo quello che ha fatto a mia sorella. Inconsapevolmente, mi suggerisce una voce nella mia testa, ma la mia parte razionale mi ricorda che quando ha progettato quelle bombe era consapevole che avrebbero colpito anche degli innocenti, Prim non era nei piani, è vero, ma questo non lo giustifica. Come ho fatto a pensare di poterlo perdonare? Lo guardo con durezza quando, improvvisamente, si alza e corre fuori. Come lui conosce me, io conosco lui e so esattamente dove sta andando: la farà pagare a Peeta. Gli corro dietro, cercando di fermarlo, ma è troppo veloce e in un attimo raggiunge la casa di Peeta. Sfonderebbe la porta se solo non fosse aperta. Entra e io gli sono dietro, cercando un modo per calmarlo. So che Peeta non è lì, ma da Haymitch, e questo mi da un vantaggio, anche se minimo, su Gale. Mi aggrappo al suo braccio per fermarlo mentre lui, furioso, ispeziona ogni stanza della casa in cerca del ragazzo del pane, trascinandomi con sé in questa folle ricerca.
“Gale, ascoltami, non è colpa sua. Non puoi fargliela pagare per qualcosa che non riesce a controllare!”. Ma Gale non mi ascolta e intanto ha capito che in casa ci siamo solo noi. Corre di nuovo fuori, con me che lo inseguo, ma stavolta si dirige verso casa di Haymitch. Dà una spallata alla porta, che si apre come se non avesse mai avuto una serratura: era aperta. Entra come una furia, trova Peeta ed Haymitch seduti in cucina e, approfittando dell’effetto sorpresa, colpisce Peeta in pieno viso con un pugno facendolo volare giù dalla sedia, lontano sia da me che da Haymitch. Peeta si riscuote e comincia a rispondere ai colpi, non l’ho mai visto diventare violento senza essere preda di uno dei suoi episodi e vederlo in questo stato mi spaventa non poco. Faccio la prima cosa che mi viene in mente: mi tuffo in mezzo a loro, cogliendo di sorpresa Gale che non riesce a fermare il pugno che era diretto a Peeta e che invece colpisce la mia faccia.  Mi piego in due dal dolore, mentre Haymitch approfitta della distrazione di Gale per colpirlo sulla testa, facendolo svenire. Peeta mi afferra al volo, prima che cada a terra mentre tutto si confonde e si concentra intorno al dolore al viso. Nonostante questo, un mezzo sorriso spunta sulla mia faccia: il mio ragazzo del pane mi sta stringendo. Sorrido nonostante l’occhio che sento pulsare e il dolore e la confusione che provo dentro per tutta questa situazione.
“Dolcezza, potresti illuminarci sul motivo di questa inaspettata visita di cortesia?”, chiede Haymitch interrompendo il flusso dei pensieri.
“Io, lui … non sapevo che dovesse arrivare. Poi mi ha guardata, ha visto i segni sul collo ed è impazzito … non riuscivo a calmarlo, io non volevo che facesse del male a Peeta e invece …”, finisco la frase guardando Peeta in viso, richiamata dalle sue carezze sulla mia testa, e soltanto ora noto il sangue che gli scorre dal naso, probabilmente rotto.
 “Peeta, il tuo naso … “ dico, sull’orlo delle lacrime mentre i singhiozzi cominciano già a perforarmi il petto. Non mi risponde e lo vedo scambiarsi un’occhiata di intesa con Haymitch. Tutto questo succede un attimo prima di sentire un ago entrarmi nel braccio.
Morfamina, è l’ultimo pensiero che faccio prima che il buio si impossessi di me. 




Angolo dell'autrice
Ciao ragazzi! Eccomi qui, prima del previsto, con un nuovo capitolo!
Questo è stato più difficile da scrivere perché ci sono molti momenti di riflessione da parte di Katniss e avevo paura di andare OOC.

Come al solito ringrazio la mia Cccch, che mi dà sempre ottimi consigli (nei prossimi capitoli scoprirete un'idea che è stata lei a suggerirmi che io trovo G-E-N-I-A-L-E).

A proposito della mia Ccch, vi lascio di nuovo il link per la sua fanfic che merita mille volte più della mia http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2462888

Spero che lascerete molte recensioni, ho davvero bisogno del vostro parere :)

Alla prossima e ricordate: #moreshirtlessPeetaforeveryone!

 
  
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