Vado a lavorare.
Dovrò pur riempire quel frigo per quando tornerai dall’estero.
Tornerai e ci stenderemo su un tappeto di stelle cadute perché inchiodate male. Poi ci sveglieremo, amore mio, e parleremo al plurale.
E sarà bello. Sarà bello.
Sarà bello parlare al plurale mentre, mano nella mano, camminiamo in casa.
Nella nostra casa di cartone e lacrime, di cartone e amarezza, di cartone e 'addio', di cartone e amore (raramente).
Muri disegnati da pastelli a cera, così, per poterti guardare mentre, seduta davanti lo specchio, pettini i tuoi capelli d'oro (Vorrei riuscire a descrivere il loro profumo, ma non ce l'hanno, o almeno, non uno che possa esser definito. Profumano di te. Profumano di buono. Profumano di me, qualche volta, e di noi. Profumano di lacrime, di sangue e di tristezza).
O mentre, davanti lo specchio, ti guardi e dici: 'vorrei esser bella!'.
Ma tu sei più che bella, penso, ma poi, resto in silenzio.
Ti fisso. E gli occhi, ormai, parlan per me.
Stai sfiorendo.
Nutriti di me, come il fuoco si nutre del legno.
Bruciami. Consumami. Ci spegneremo, ma insieme.
Lo scriverò sui muri. No, non che mi pensi raramente. Ma che ti penso sempre.