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Autore: Ruta    09/03/2014    3 recensioni
C’erano notti scure, notti nere.
Ce n’erano altre. Notti pacifiche, notti quiete.

Molly è tormentata dagli incubi e Sherlock trova una soluzione al problema.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Night

 

Il Laboratorio è deserto. Molly fa appena in tempo a considerarla una stranezza che lui è lì. È apparso dal nulla, nel modo di un illusionista con i suoi trucchi di prestigio.
L’Uomo Nero si avvicina con passi dondolanti, il corpo e la testa che oscillano, il sorriso da squalo, la voce dalla cadenza cantilenante. “Molly-Polly. La ragazza carina che nessuno vede.”
Molly rabbrividisce. Non per paura, è quello che dice a se stessa, ma per il disgusto. Non è abituata all’odio e non ha mai odiato nessuno con la stessa violenza con cui sente di odiare Jim Moriarty.
“La ragazza senza famiglia. La ragazza che vedeva persone morte e che parlava con loro come a degli amici. La ragazza”, continua, fermandosi dietro di lei, “che ha osato avvicinarsi troppo a qualcosa che non le appartiene.”
Il suo fiato è freddo contro la pelle della nuca, mefitico. Freddo come è freddo il metallo del bisturi tra le sue dita; corrotto dal veleno delle sue parole irte di spine.
Moriarty le racconta cosa farà, i suoi piani per lui. Le sfiora la gola con un dito, graffiandogliela. “Gli caverò il cielo dagli occhi e gli strapperò via le ali.”
Glielo mostra. Sherlock ha le palpebre sanguinanti, il viso marmoreo è pesto e lacero. Lacrima sangue dagli occhi ciechi, privi di bulbi. Non è quello il peggio. Le costole di Sherlock sono state rotte, separate dalla spina dorsale. “Aquila di sangue. Non è poetico? Come nelle saghe del nord. Io sono il vento del nord che gli ha bruciato il cuore. Le vedi le sue ali adesso? LE VEDI?”
E Molly urla con tutta la forza dei suoi polmoni.

 

Urlò e urlando si svegliò. Aveva la faccia affondata nel cuscino, le mani che artigliavano le lenzuola. Il piumone, nella furia del suo dimenarsi, era stato scalciato via ed era sul pavimento.
Molly tremava. L’altra metà del letto era vuota. Per una volta ne fu felice.
Si abbracciò le gambe e affondò il viso nell’incavatura del gomito sinistro, mordendosi le labbra.
Intanto cercò di scacciare le immagini filamentose del sogno, ma quelle rimasero, barbicate.

Incubi. Nulla di più.
Molly provò a riaddormentarsi. Non ci riuscì. Aveva il terrore, nel buio dell’incoscienza, di rivederlo, che lui la intrappolasse nella sue rete di bugie e malvagità come un aracnide. E lei
, povera mosca, non poteva non soccombere.

 

C’erano notti scure, notti nere.  
Questa era una di quelle.

 

 

 

 

 

 

Nightmares

 

 

 

 

 

 

 

 

Ce n’erano altre. Notti pacifiche, notti quiete.

 

Molly si svegliò con un sussulto. L’incubo era vivido, ancora dentro di lei, le si gonfiava attorno come un miasma.
Toby era raggomitolato sul cuscino di Sherlock, ad un soffio dal suo naso. La fissò, gli occhi gialli simili a pendenti d’ambra nell’oscurità della camera da letto e con un grosso punto di domanda ad attraversarli.
Molly gli grattò le orecchie in un gesto distratto, istintivo, quindi afferrò alla cieca la vestaglia che era sulla sponda del letto. Se la infilò frettolosamente, calzò le pantofole.
Un infuso, si disse. Un infuso era quel che ci voleva: le avrebbe calmato i nervi. Valeriana e iperico. Sì, l’Erba di San Giovanni era l’ideale.
Oltre il corridoio, le luci erano ancora accese. Molly non aveva bisogno di cercare una ragione. La ragione era là, china sul tavolo della cucina.
Sherlock non sembrò notarla, ancora impegnato nel suo esperimento sull’avvelenamento da piombo. Inframmezzava brontolii di gola a spiegazioni a mezza voce di cui nessuno a parte lui avrebbe potuto comprendere il senso.
Molly mise il bollitore sul fuoco, prese la scatola di latta che conteneva le erbe sbriciolate dalla mensola e si sedette, poggiò il mento sulla mano, il gomito sul bancone.
Si addormentò. Un secondo prima attendeva che il bollitore fischiasse, quello successivo Sherlock la scuoteva con forza.
Il bollitore – il bel bollitore viola che aveva comprato da neppure un mese - si era trasformato in una cosa annerita e la cucina era appestata da un fumo che sapeva di bruciato.
Minuti dopo fu Mrs. Hudson a rassicurarla. (“Sono cose che succedono, mia cara. Una bella dormita e tutto passa. Domani ti sembrerà una sciocchezza. Ora mettiti qui, da brava, mentre ti preparo qualcosa che ti rilassi. Una tazza di latte caldo con un cucchiaino di miele ti addolcirà il sonno.”)
Molly, seduta nella poltrona di Sherlock e avvolta in un plaid, non faceva che scusarsi.
Sherlock accettava i suoi “mi dispiace”, ne prendeva atto in silenzio, come se non sapesse bene cosa farci. Faceva avanti e indietro, a scatti, come un animale in gabbia. Non aveva fatto commenti. Era scuro in volto e con regolarità si portava l’indice e il dito medio alle labbra, punteggiando.
Molly aveva imparato che nel nervosismo fosse sua abitudine farlo: parodiare i gesti di una sigaretta fumata. Si coprì la faccia con entrambe le mani. Come era potuto accadere? Dio, era ridotta così male? “Sono una stupida.”
Sherlock smise di ricalcare i suoi passi inquieti. Si voltò ad osservarla. “Puoi essere molte cose, Molly, ma una stupida? No mai.”
L’intensità della sua voce, così come lo sguardo che le dedicò, le riscaldò l’anima. Perché nel caso di Sherlock equivaleva al complimento più galante che lei potesse auspicarsi di ricevere. 
Molly distolse gli occhi e se li strofinò, scoprendoli lucidi. Accidenti, era davvero ridotta male.
“Molly.”
Era chiaro come il sole che Sherlock avesse dedotto i suoi pensieri. Non essere assurda, Molly, pareva dire.
“Soffri di un deficit del sonno che ha portato a un prevedibile scompenso nel tuo ciclo del sonno. Generalmente l’insonnia transiente è provocata da improvvisi cambi di ambiente, stati depressivi o forti stress. Sei spaventata e di questo mi assumo gran parte della colpa.”
Molly studiò il modo in cui aveva chinato la testa, la sua espressione contrita e dimessa. Sembrava pronto a cospargersi il capo di cenere. Si poggiò le nocche sulla bocca, scrutandolo con gli occhi socchiusi, all'istante lucida. “Illuminami”, disse con insolita durezza. “In che modo la colpa ricadrebbe su di te?”
“Piuttosto semplice.” Sherlock annuì energicamente, si portò le braccia dietro la schiena, nella posa disciplinata ed elastica che assumeva durante l’argomentazione delle soluzioni desunte. Tutta scena, enfasi e teatralità, secondo John. “Se non mi avessi aiutato a inscenare il mio suicidio tre anni fa, ora dormiresti sonni tranquilli, al sicuro dal pensiero inquietante che sei sulla lista nera di un pazzo psicotico.”
“Non consolante come prospettiva, no”, riconobbe Molly con un sospiro. Rialzò gli occhi dalla trama intricata del tappeto per incrociare quelli di Sherlock, trasparenti e rigorosi. “Quindi credi che io sia terrorizzata.”
Sherlock fece un rapido cenno con la testa. “Comprensibilmente”, aggiunse con sollecitudine.
“Che Moriarty mi abbia rubato il sonno”, riepilogò Molly nello stesso identico tono spento.
“Come ho già detto: è comprensibile.”
Molly scosse la testa. “Deduzione sbagliata. Non temo che Moriarty possa nuocermi.”
Sherlock ruotò su se stesso per fronteggiarla del tutto. “No?”
“No”, rispose Molly, risoluta.
“Oh”, fece Sherlock, visibilmente frustrato.
“Oh, già.”
“Dunque… ho tralasciato qualche indizio rivelatore?” Sherlock sollevò un sopracciglio, la bocca già curvata in un principio di smorfia, seccato dall’errore di valutazione in cui era incappato.
“Giusto uno.”
Sherlock roteò gli occhi. “C’è sempre un elemento che mi sfugge.”
Molly fece leva sui piedi e si alzò, portandosi di fronte a lui e toccandogli il petto, indicandolo con un sorriso che – lo sentiva – era colpevole e agitato in uguale misura.
Sherlock osservò per un istante la sua mano aperta sul tessuto azzurro della camicia. “Io?”
Il sorriso di Molly si increspò, diventò preoccupato. Chi poteva sapere come lui avrebbe reagito? “Tu, sì. Sei tu a turbare il mio sonno.”
“Cosa ho fatto per-” iniziò Sherlock con evidente fastidio.
“Nulla. Non hai fatto nulla, ma ora che Moriarty è tornato non è difficile immaginare gli scenari più catastrofici.” E qui Molly gli rivolse un’occhiata infingarda - e sperò - dai sottotesti inequivocabili. Ricordi il tetto del Bart’s, sì? Al che Sherlock l’avrebbe di sicuro rimproverata per la sua incapacità di fare giochi di parole.
“Molly.” Sherlock le poggiò le mani sulle spalle. Insieme alla sua voce, ruvida e calda e ferma, anche i palmi erano tiepidi, così ampi e larghi che, a volte in passato, Molly si era sentita una bambina. “Non hai motivo di dubitare che sei debitamente al sicuro.”
Molly si accigliò. Chiuse gli occhi e l’orrore dell’incubo – ricorrente solo nel tema delle torture inflitte a Sherlock – germogliò come un fiore di sangue su un campo di battaglia. “Per te. Catastrofici per te”, chiarì con voce rotta. “Non ho dubbi di essere al sicuro perché ho te, ma tu, tu sei al sicuro? Chi ti guarda le spalle?”
Serrò i pugni e aspettò con ansia una sua risposta pungente che, però, non arrivò. Dopo pochi secondi, probabilmente senza che ne avesse reale intenzione, lo sguardo di Sherlock saettò alla poltrona di John.
“Prevedibile, ma no”, disse Molly. Si divincolò e si allontanò da lui, circondandosi il busto con le braccia. All’improvviso sentiva un freddo acuto, perforante. “Noi non ti proteggiamo, non davvero. Tu non ce lo permetti. In questa storia siamo aiutanti”, il pensiero volò a Mycroft (e Deus ex machina), “e per quanto tu corrisponda al profilo del cavaliere oscuro, rimani il migliore tra noi, Sherlock. Sei l’eroe che tutti sognano di avere al proprio fianco.”
“Anche tu. Sei la…” Sherlock esitò, corrugò la fronte e poi la spianò subito dopo. “Strega di Endor? -”, tentò disastrosamente, in tono interrogativo, “che chiunque vorrebbe avere.”
E Molly avrebbe voluto ridere di cuore per quel malandato tentativo di trovarle un equivalente biblico. Non le riuscì.
Il sorriso che mise insieme era una smorfia mal spuntata. “Al proprio funerale forse.” Si massaggiò le tempie, troppo stanca per dire o fare alcunché, anche per tornarsene a letto. “Non dire niente. Va bene così.”
Meglio finirla lì, davvero. La sonnolenza le faceva partorire pensieri più disorganici del solito. Le sembrava di avere la testa imbottita di ovatta.
“In quale mondo andrebbe bene così?” ribatté Sherlock, irritato.
Ovvio che per lui la questione fosse tutt’altro che conclusa. 
“Molly Hooper.” Esasperazione e concerno si rivelarono sul volto di Sherlock e Molly se ne vergognò, ma di nuovo scoprì di avere gli occhi pieni di lacrime.
Con un balzo repentino, Sherlock le fu di fronte. Le prese il mento e lo sollevò perché lo guardasse, le posò le mani ai lati del viso, i pollici a sfregarle le guance. “Io sono al sicuro”, scandì lentamente, irremovibile. “Tu lo sei, John lo è, lo è chiunque altro e finché voi sarete al sicuro, così lo sarò io. Perciò sì, tu hai un ruolo necessario, fondamentale nella storia. Vedi di tenerlo a mente e dì ai tuoi sogni che non sono un eroe e che sto perfettamente bene, grazie.” Sherlock addossò la fronte alla sua, trasse un respiro breve, impaziente che lo fece vibrare dall’interno. “Non vado da nessuna parte”, promise e c’era qualcosa di fragile nella sua voce, come se lei avesse riacceso il ricordo di un turbamento o di un dolore, nominandolo. “Ho visto il mondo e ho saziato la mia sete di viaggi per molti degli anni a venire.”
Molly tirò su con il naso. Le sfuggì una risata singhiozzante. “Buono a sapersi.”
Sherlock sorrise e già quel sorriso asimmetrico, pensò lei, era la migliore delle rassicurazioni.
Era così vicino che per Molly non fu difficile fare quello che fece. Si alzò in punta di piedi, strinse i risvolti della vestaglia e lo baciò. E fu un bacio umido, determinato e struggente. Uno che voleva dire molto su quello che provava. Del tipo: Non azzardarti a morire, razza di idiota o potrei davvero diventare la Strega di Endor.  
Sherlock rispose con identico slancio, circondandole la vita, stringendola contro di lui. Quando si staccarono strofinò il naso contro il suo collo, l’orecchio, la gola. Le accarezzò i capelli. “Molly”, disse soltanto.
Molly era sommersa dalla tenerezza, dalla morbidezza dei suoi sentimenti.
Affondò le dita nei capelli di Sherlock, stupendosi come al solito di quanto fossero soffici al tatto, folti e lo stesso sfuggenti. Era come toccare la notte, afferrare il buio, il nero più fondo attorno alle stelle. La sensazione era quella: di disarmante scoperta e conquista. E ciò nonostante, ogni giorno e ogni notte, ad ogni bacio si sentiva meno un’esploratrice in terra straniera e molto più una locataria che si abitui all’idea che quello è il posto in cui desidera spendere il resto della vita.
“Oh-ooo-ho”, trillò Mrs. Hudson, comparendo sulla soglia con la tazza di latte caldo promessa. “Non è mia intenzione interrompere voi due piccioncini, ma Sherlock caro, Molly ha avuto una brutta esperienza. Quello che le serve è calma e riposo, non altre emozioni scombussolanti.”
Molly rise di cuore contro la spalla di Sherlock, imbarazzata solo in minima parte dall’essere stata trovata con le mani nella marmellata.
Sherlock fece un’osservazione acuta, sulla falsariga del: Sono perfettamente in grado di prendermi cura di Molly, malgrado tutti pensino il contrario; ma espresso con un numero maggiore di parole, un tono arcigno e l’accompagnamento di un sorriso urticante.
“Se ne è andata. Ora puoi smettere di fare lo struzzo.”
“Sto bene dove sto.”
Un sospiro. Molly lo sentì salirgli dal petto, palpitante.
“Per quanto indiscutibilmente piacevole, Mrs. Hudson ha ragione. Non è di questo che hai bisogno al momento.”
“Credevo che avessi detto che sai come prenderti cura di me.”
“Che è quello che sto cercando di fare. Non mi rendi il compito facile.”
“Oh?” Molly sfarfallò le ciglia, scostandosi quel tanto che bastava per guardarlo in viso. Cercò di imitare il modus operandi delle dive dei film quando seducevano l’amato, di solito il protagonista maschile.   
Sherlock si staccò di colpo. Si schiarì la voce, gli occhi appena allargati.
Oh. Pupille dilatate, respiro affannato, nessun rossore visibile.

Punto per te, Molly.
Sherlock le lanciò uno sguardo di ammonimento. “Se queste sono le conseguenze, non sono sicuro che privarti di una buona dormita ogni tanto non possa rivelarsi potenzialmente proficuo.”
“Stai proponendo quello che penso?”
Sherlock la osservò da capo a piedi e sebbene fosse più che vestita, debitamente vestita, Molly arrossì, come se avesse molta pelle a nudo, fosse scoperta in modo inappropriato.
“Non iniziare qualcosa che non puoi portare a termine, Molly Hooper. Potresti scoprire che non sono affatto paziente con i casi lasciati a metà.”

Oh, Signore. Stavano flirtando?  
“Stai sorridendo.” Sherlock aggrottò le sopracciglia. “Devo aver sbagliato il mio approccio. Ciò che intendevo è che-”
“Ho inteso perfettamente, Sherlock, il che mi rende solo molto, molto felice.” Lo abbracciò di slancio.
Sherlock dovette piegarsi sulle ginocchia per evitare che entrambi cadessero per il contraccolpo, afferrandole i fianchi. “Incremento di esuberanza e ipersensibilità. Non che nel quotidiano tu non sia piuttosto emotiva, ma in genere la lucidità pone un freno ai tuoi assalti. Molly, hai bisogno di dormire.”
Il sorriso appassì. Malgrado tutto, l’idea la intimidiva, assediata nel castello d’ossa che solo la paura riusciva a costruire: paradossale.
“Andiamo.”
“Cosa?” Molly batté le palpebre e lo fissò, confusa. “Dove?”
Sherlock la tirò per il polso con burbera gentilezza.
“Tu a dormire, io a condurre un esperimento sulle difficoltà riscontrabili nel tentativo di indurre al sonno un soggetto che ha sofferto di privazione di quest’ultimo.”
Le passò la tazza di latte ormai tiepido che Mrs. Hudson aveva lasciato sul tavolino e poi si fermò di fronte alla libreria, nella sezione che le aveva riservato subito dopo il suo trasloco dal vecchio appartamento al 221B.
Tamburellò le coste dei libri, concentrato nella sua ricerca, infine emise un verso di approvazione, afferrandone uno.
Molly lesse il frontespizio. Era Keats.
La prese di nuovo per il polso, il libro stretto nell’altra mano, trascinandola lungo il corridoio e in camera da letto. Si chiuse la porta alle spalle.
“Mettiti a letto, Molly e bevi il tuo latte.”
Molly fece come le era stato detto. Si tolse la vestaglia e si infilò sotto le coperte. Bevve in silenzio, osservando Sherlock che scacciava Toby, riappropriandosi del suo posto (Toby si accoccolò ai suoi piedi, soffiando per il fastidio). Scalciò le scarpe e si stese sul letto, di fianco a lei, maestosamente. La vestaglia bordeaux si allargava come uno strascico ai lati delle gambe lunghissime. Sherlock le accavallò, si inumidì l’indice e il pollice, aprì il libro e cominciò a sfogliarlo. “Mmm. Ode a un usignolo è confacente alla situazione, credo.”
Sherlock le lanciò un’occhiata incuriosita. “Non hai intenzione di metterti in una posizione più confortevole? Dicono che agevoli lo stato di assopimento.”
Molly posò la tazza sul comodino e si sistemò accanto a lui. “Posso?” domandò e indicò il suo braccio, improvvisamente tentennante.
Sherlock non rispose. Si limitò ad aprire il braccio, in modo che lei poggiasse comodamente la testa sul cuscino e a passarglielo attorno alla schiena.
Cominciò a leggere.

 

 

 
Dopo poco Molly constatò che il sonno fosse l’ultimo dei suoi problemi. Certamente la spossatezza le aveva fatto perdere il controllo sul proprio corpo, ma Sherlock leggeva per lei e la sua voce… Dio, la sua voce era lenitiva, ma non il calmante che lei avrebbe prescritto ad un ansioso per acquietarlo.
Era morbida e seducente e melodiosa e bassa e pura poesia, musicale ed evocativa.
Si diffondeva intorno a lei, creando una suggestione da quadro dipinto, inebriante quanto i paesaggi che descriveva.    
Era tutto ciò che una voce avrebbe dovuto avere, essere. Era la voce dei cantastorie e dei menestrelli: di Shahrazād che aveva fatto innamorare di lei un re con la malia delle sue storie o di Orfeo che secondo le leggende aveva ottenuto il potere di ammansire le bestie più feroci tramite essa.
Sherlock leggeva per lei e Molly percepì la trazione della tensione abbandonarla, sdrucciola. Nel torpore gli affanni impallidivano e rimaneva solo Sherlock: l’azzurro intenso dei suoi occhi, le sue dita lunghe e affusolate a carezzarle mollemente il fianco, con indolenza.
Sherlock leggeva per lei e gli incubi non vennero, non quella notte.

   

 

 

 


N/a:

Okay. È da quando ho ascoltato questa meraviglia che mi sono detta che dovevo infilarla da qualche parte (http://www.youtube.com/watch?v=TdphtMWjies).
Non saprei dire, non lo ricordo con precisione, se sia nata prima la storia o l’idea di farne una storia. Fatto sta che inizialmente consisteva in un’unica scena, l’ultima, e che da lì poi io ho ingigantito e complicato grosso modo il tutto – come mio solito. Pensate che ad un certo punto sono stata addirittura sfiorata dal vago proposito di farne una raccolta.
Sono giorni che cerco di completarla, ma tra l’aiutare mio fratello per l’interrogazione di inglese, un’uscita con un’amica che rimandavo da un mese e il pranzo della domenica con la famiglia al gran completo, non ho avuto tregua.
Scusate se non ho ancora risposto alle vostre recensioni, quindi, rimedierò il prima possibile ;)
Temo che sia mostruosamente OOC, ci sono infatti dei punti su cui… bah, non mi esprimo.
Spero che abbiate tutti trascorso un week-end piacevole e che questa mia vi aiuti a trovare la carica per iniziare con il piede giusto la settimana.
Un abbraccio a tutti :D
(Per chi desiderasse una traduzione dell’Ode, ecco qui: http://www.keats-shelley-house.org/it/works/works-john-keats/john-keats-ode-to-a-nightingale)

P.s.: ho dovuto aumentare il rating per un (!) rigo (quello della descrizione delle torture inflitte a Sherlock). Non so se a qualcuno interessi, ma per chi fosse incuriosito, ecco in cosa consisteva. http://it.wikipedia.org/wiki/Aquila_di_sangue

E, come al solito, note lunghe un papiro…     

  
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