Il Laboratorio è deserto. Molly
fa appena in tempo a considerarla una stranezza che lui è lì. È apparso dal
nulla, nel modo di un illusionista con i suoi trucchi di prestigio.
L’Uomo Nero si avvicina con passi
dondolanti, il corpo e la testa che oscillano, il sorriso da squalo, la voce
dalla cadenza cantilenante. “Molly-Polly. La ragazza carina che nessuno vede.”
Molly rabbrividisce. Non per
paura, è quello che dice a se stessa, ma per il disgusto. Non è abituata
all’odio e non ha mai odiato nessuno con la stessa violenza con cui sente di
odiare Jim Moriarty.
“La ragazza senza famiglia. La
ragazza che vedeva persone morte e che parlava con loro come a degli amici. La
ragazza”, continua, fermandosi dietro di lei, “che ha osato avvicinarsi troppo a
qualcosa che non le appartiene.”
Il suo fiato è freddo contro la
pelle della nuca, mefitico. Freddo come è freddo il metallo del bisturi tra le
sue dita; corrotto dal veleno delle sue parole irte di spine.
Moriarty le racconta cosa farà, i
suoi piani per lui. Le sfiora la gola con un dito, graffiandogliela. “Gli caverò
il cielo dagli occhi e gli strapperò via le ali.”
Glielo mostra. Sherlock ha le
palpebre sanguinanti, il viso marmoreo è pesto e lacero. Lacrima sangue dagli
occhi ciechi, privi di bulbi. Non è quello il peggio. Le costole di Sherlock
sono state rotte, separate dalla spina dorsale. “Aquila di sangue. Non è
poetico? Come nelle saghe del nord. Io sono il vento del nord che gli ha bruciato
il cuore. Le vedi le sue ali adesso? LE VEDI?”
E Molly urla con tutta la forza
dei suoi polmoni.
Urlò e
urlando si svegliò. Aveva la faccia affondata nel cuscino, le mani che artigliavano
le lenzuola. Il piumone, nella furia del suo dimenarsi, era stato scalciato via
ed era sul pavimento.
Molly tremava.
L’altra metà del letto era vuota. Per una volta ne fu felice.
Si abbracciò
le gambe e affondò il viso nell’incavatura del gomito sinistro, mordendosi le
labbra.
Intanto cercò
di scacciare le immagini filamentose del sogno, ma quelle rimasero, barbicate.
Incubi. Nulla di più.
Molly provò
a riaddormentarsi. Non ci riuscì. Aveva il terrore, nel buio dell’incoscienza,
di rivederlo, che lui la intrappolasse nella sue rete di bugie e malvagità come
un aracnide. E lei, povera
mosca, non poteva non soccombere.
C’erano notti
scure, notti nere.
Questa era
una di quelle.
Nightmares
Ce n’erano altre.
Notti pacifiche, notti quiete.
Molly si svegliò
con un sussulto. L’incubo era vivido, ancora dentro di lei, le si gonfiava
attorno come un miasma.
Toby era
raggomitolato sul cuscino di Sherlock, ad un soffio dal suo naso. La fissò, gli
occhi gialli simili a pendenti d’ambra nell’oscurità della camera da letto e
con un grosso punto di domanda ad attraversarli.
Molly gli
grattò le orecchie in un gesto distratto, istintivo, quindi afferrò alla cieca
la vestaglia che era sulla sponda del letto. Se la infilò frettolosamente, calzò
le pantofole.
Un infuso,
si disse. Un infuso era quel che ci voleva: le avrebbe calmato i nervi.
Valeriana e iperico. Sì, l’Erba di San Giovanni era l’ideale.
Oltre il
corridoio, le luci erano ancora accese. Molly non aveva bisogno di cercare una
ragione. La ragione era là, china sul tavolo della cucina.
Sherlock non
sembrò notarla, ancora impegnato nel suo esperimento sull’avvelenamento da
piombo. Inframmezzava brontolii di gola a spiegazioni a mezza voce di cui
nessuno a parte lui avrebbe potuto comprendere il senso.
Molly mise
il bollitore sul fuoco, prese la scatola di latta che conteneva le erbe sbriciolate
dalla mensola e si sedette, poggiò il mento sulla mano, il gomito sul bancone.
Si addormentò.
Un secondo prima attendeva che il bollitore fischiasse, quello successivo
Sherlock la scuoteva con forza.
Il bollitore
– il bel bollitore viola che aveva comprato da neppure un mese - si era
trasformato in una cosa annerita e la cucina era appestata da un fumo che sapeva
di bruciato.
Minuti dopo fu
Mrs. Hudson a rassicurarla. (“Sono cose che succedono, mia cara. Una bella
dormita e tutto passa. Domani ti sembrerà una sciocchezza. Ora mettiti qui, da
brava, mentre ti preparo qualcosa che ti rilassi. Una tazza di latte caldo con un
cucchiaino di miele ti addolcirà il sonno.”)
Molly,
seduta nella poltrona di Sherlock e avvolta in un plaid, non faceva che
scusarsi.
Sherlock
accettava i suoi “mi dispiace”, ne prendeva atto in silenzio, come se non
sapesse bene cosa farci. Faceva avanti e indietro, a scatti, come un animale in
gabbia. Non aveva fatto commenti. Era scuro in volto e con regolarità si portava
l’indice e il dito medio alle labbra, punteggiando.
Molly aveva
imparato che nel nervosismo fosse sua abitudine farlo: parodiare i gesti di una
sigaretta fumata. Si coprì la faccia con entrambe le mani. Come era potuto
accadere? Dio, era ridotta così male? “Sono una stupida.”
Sherlock smise
di ricalcare i suoi passi inquieti. Si voltò ad osservarla. “Puoi essere molte
cose, Molly, ma una stupida? No mai.”
L’intensità
della sua voce, così come lo sguardo che le dedicò, le riscaldò l’anima. Perché
nel caso di Sherlock equivaleva al complimento più galante che lei potesse
auspicarsi di ricevere.
Molly distolse
gli occhi e se li strofinò, scoprendoli lucidi. Accidenti, era davvero ridotta male.
“Molly.”
Era chiaro come
il sole che Sherlock avesse dedotto i suoi pensieri. Non essere assurda, Molly, pareva dire.
“Soffri di
un deficit del sonno che ha portato a un prevedibile scompenso nel tuo ciclo
del sonno. Generalmente l’insonnia transiente è provocata da improvvisi cambi
di ambiente, stati depressivi o forti stress. Sei spaventata e di questo mi
assumo gran parte della colpa.”
Molly studiò
il modo in cui aveva chinato la testa, la sua espressione contrita e dimessa. Sembrava
pronto a cospargersi il capo di cenere. Si poggiò le nocche sulla bocca,
scrutandolo con gli occhi socchiusi, all'istante lucida. “Illuminami”, disse
con insolita durezza. “In che modo la colpa ricadrebbe su di te?”
“Piuttosto
semplice.” Sherlock annuì energicamente, si portò le braccia dietro la schiena,
nella posa disciplinata ed elastica che assumeva durante l’argomentazione delle
soluzioni desunte. Tutta scena, enfasi e teatralità, secondo John. “Se non mi
avessi aiutato a inscenare il mio suicidio tre anni fa, ora dormiresti sonni
tranquilli, al sicuro dal pensiero inquietante che sei sulla lista nera di un
pazzo psicotico.”
“Non
consolante come prospettiva, no”, riconobbe Molly con un sospiro. Rialzò gli
occhi dalla trama intricata del tappeto per incrociare quelli di Sherlock, trasparenti
e rigorosi. “Quindi credi che io sia terrorizzata.”
Sherlock
fece un rapido cenno con la testa. “Comprensibilmente”, aggiunse con
sollecitudine.
“Che Moriarty
mi abbia rubato il sonno”, riepilogò Molly nello stesso identico tono spento.
“Come ho già
detto: è comprensibile.”
Molly scosse
la testa. “Deduzione sbagliata. Non temo che Moriarty possa nuocermi.”
Sherlock
ruotò su se stesso per fronteggiarla del tutto. “No?”
“No”,
rispose Molly, risoluta.
“Oh”, fece
Sherlock, visibilmente frustrato.
“Oh, già.”
“Dunque… ho
tralasciato qualche indizio rivelatore?” Sherlock sollevò un sopracciglio, la
bocca già curvata in un principio di smorfia, seccato dall’errore di
valutazione in cui era incappato.
“Giusto uno.”
Sherlock
roteò gli occhi. “C’è sempre un elemento che mi sfugge.”
Molly fece
leva sui piedi e si alzò, portandosi di fronte a lui e toccandogli il petto,
indicandolo con un sorriso che – lo sentiva – era colpevole e agitato in uguale
misura.
Sherlock
osservò per un istante la sua mano aperta sul tessuto azzurro della camicia. “Io?”
Il sorriso
di Molly si increspò, diventò preoccupato. Chi poteva sapere come lui avrebbe reagito?
“Tu, sì. Sei tu a turbare il mio sonno.”
“Cosa ho
fatto per-” iniziò Sherlock con evidente fastidio.
“Nulla. Non
hai fatto nulla, ma ora che Moriarty è tornato non è difficile immaginare gli
scenari più catastrofici.” E qui Molly gli rivolse un’occhiata infingarda - e
sperò - dai sottotesti inequivocabili. Ricordi
il tetto del Bart’s, sì? Al che Sherlock l’avrebbe di sicuro rimproverata
per la sua incapacità di fare giochi di parole.
“Molly.”
Sherlock le poggiò le mani sulle spalle. Insieme alla sua voce, ruvida e calda
e ferma, anche i palmi erano tiepidi, così ampi e larghi che, a volte in
passato, Molly si era sentita una bambina. “Non hai motivo di dubitare che sei
debitamente al sicuro.”
Molly si
accigliò. Chiuse gli occhi e l’orrore dell’incubo – ricorrente solo nel tema
delle torture inflitte a Sherlock – germogliò come un fiore di sangue su un
campo di battaglia. “Per te. Catastrofici per
te”, chiarì con voce rotta. “Non ho dubbi di essere al sicuro perché ho te,
ma tu, tu sei al sicuro? Chi ti guarda le spalle?”
Serrò i
pugni e aspettò con ansia una sua risposta pungente che, però, non arrivò. Dopo
pochi secondi, probabilmente senza che ne avesse reale intenzione, lo sguardo
di Sherlock saettò alla poltrona di John.
“Prevedibile,
ma no”, disse Molly. Si divincolò e si allontanò da lui, circondandosi il busto
con le braccia. All’improvviso sentiva un freddo acuto, perforante. “Noi non ti
proteggiamo, non davvero. Tu non ce lo permetti. In questa storia siamo
aiutanti”, il pensiero volò a Mycroft (e
Deus ex machina), “e per quanto tu
corrisponda al profilo del cavaliere oscuro, rimani il migliore tra noi,
Sherlock. Sei l’eroe che tutti sognano di avere al proprio fianco.”
“Anche tu.
Sei la…” Sherlock esitò, corrugò la fronte e poi la spianò subito dopo. “Strega
di Endor? -”, tentò disastrosamente, in tono interrogativo, “che chiunque
vorrebbe avere.”
E Molly
avrebbe voluto ridere di cuore per quel malandato tentativo di trovarle un
equivalente biblico. Non le riuscì.
Il sorriso
che mise insieme era una smorfia mal spuntata. “Al proprio funerale forse.” Si
massaggiò le tempie, troppo stanca per dire o fare alcunché, anche per
tornarsene a letto. “Non dire niente. Va bene così.”
Meglio
finirla lì, davvero. La sonnolenza le faceva partorire pensieri più disorganici
del solito. Le sembrava di avere la testa imbottita di ovatta.
“In quale
mondo andrebbe bene così?” ribatté Sherlock, irritato.
Ovvio che
per lui la questione fosse tutt’altro che conclusa.
“Molly
Hooper.” Esasperazione e concerno si rivelarono sul volto di Sherlock e Molly
se ne vergognò, ma di nuovo scoprì di avere gli occhi pieni di lacrime.
Con un balzo
repentino, Sherlock le fu di fronte. Le prese il mento e lo sollevò perché lo
guardasse, le posò le mani ai lati del viso, i pollici a sfregarle le guance.
“Io sono al sicuro”, scandì lentamente, irremovibile. “Tu lo sei, John lo è, lo
è chiunque altro e finché voi sarete al sicuro, così lo sarò io. Perciò sì, tu
hai un ruolo necessario, fondamentale nella storia. Vedi di tenerlo a mente e
dì ai tuoi sogni che non sono un eroe e che sto perfettamente bene, grazie.”
Sherlock addossò la fronte alla sua, trasse un respiro breve, impaziente che lo
fece vibrare dall’interno. “Non vado da nessuna parte”, promise e c’era
qualcosa di fragile nella sua voce, come se lei avesse riacceso il ricordo di
un turbamento o di un dolore, nominandolo. “Ho visto il mondo e ho saziato la
mia sete di viaggi per molti degli anni a venire.”
Molly tirò
su con il naso. Le sfuggì una risata singhiozzante. “Buono a sapersi.”
Sherlock
sorrise e già quel sorriso asimmetrico, pensò lei, era la migliore delle
rassicurazioni.
Era così
vicino che per Molly non fu difficile fare quello che fece. Si alzò in punta di
piedi, strinse i risvolti della vestaglia e lo baciò. E fu un bacio umido,
determinato e struggente. Uno che voleva dire molto su quello che provava. Del
tipo: Non azzardarti a morire, razza di idiota
o potrei davvero diventare la Strega di Endor.
Sherlock
rispose con identico slancio, circondandole la vita, stringendola contro di lui.
Quando si staccarono strofinò il naso contro il suo collo, l’orecchio, la gola.
Le accarezzò i capelli. “Molly”, disse soltanto.
Molly era
sommersa dalla tenerezza, dalla morbidezza dei suoi sentimenti.
Affondò le
dita nei capelli di Sherlock, stupendosi come al solito di quanto fossero soffici
al tatto, folti e lo stesso sfuggenti. Era come toccare la notte, afferrare il
buio, il nero più fondo attorno alle stelle. La sensazione era quella: di
disarmante scoperta e conquista. E ciò nonostante, ogni giorno e ogni notte, ad
ogni bacio si sentiva meno un’esploratrice in terra straniera e molto più una locataria
che si abitui all’idea che quello è il posto in cui desidera spendere il resto
della vita.
“Oh-ooo-ho”,
trillò Mrs. Hudson, comparendo sulla soglia con la tazza di latte caldo
promessa. “Non è mia intenzione interrompere voi due piccioncini, ma Sherlock
caro, Molly ha avuto una brutta esperienza. Quello che le serve è calma e
riposo, non altre emozioni scombussolanti.”
Molly rise
di cuore contro la spalla di Sherlock, imbarazzata solo in minima parte
dall’essere stata trovata con le mani nella marmellata.
Sherlock
fece un’osservazione acuta, sulla falsariga del: Sono perfettamente in grado di prendermi cura di Molly, malgrado tutti
pensino il contrario; ma espresso con un numero maggiore di parole, un tono
arcigno e l’accompagnamento di un sorriso urticante.
“Se ne è
andata. Ora puoi smettere di fare lo struzzo.”
“Sto bene
dove sto.”
Un sospiro.
Molly lo sentì salirgli dal petto, palpitante.
“Per quanto
indiscutibilmente piacevole, Mrs. Hudson ha ragione. Non è di questo che hai
bisogno al momento.”
“Credevo che
avessi detto che sai come prenderti cura di me.”
“Che è
quello che sto cercando di fare. Non mi rendi il compito facile.”
“Oh?” Molly
sfarfallò le ciglia, scostandosi quel tanto che bastava per guardarlo in viso.
Cercò di imitare il modus operandi delle dive dei film quando seducevano
l’amato, di solito il protagonista maschile.
Sherlock si
staccò di colpo. Si schiarì la voce, gli occhi appena allargati.
Oh. Pupille
dilatate, respiro affannato, nessun rossore visibile.
Punto per te, Molly.
Sherlock le
lanciò uno sguardo di ammonimento. “Se queste sono le conseguenze, non sono
sicuro che privarti di una buona dormita ogni tanto non possa rivelarsi
potenzialmente proficuo.”
“Stai
proponendo quello che penso?”
Sherlock la
osservò da capo a piedi e sebbene fosse più che vestita, debitamente vestita,
Molly arrossì, come se avesse molta pelle a nudo, fosse scoperta in modo
inappropriato.
“Non
iniziare qualcosa che non puoi portare a termine, Molly Hooper. Potresti
scoprire che non sono affatto paziente con i casi lasciati a metà.”
Oh, Signore. Stavano flirtando?
“Stai
sorridendo.” Sherlock aggrottò le sopracciglia. “Devo aver sbagliato il mio
approccio. Ciò che intendevo è che-”
“Ho inteso
perfettamente, Sherlock, il che mi rende solo molto, molto felice.” Lo
abbracciò di slancio.
Sherlock
dovette piegarsi sulle ginocchia per evitare che entrambi cadessero per il contraccolpo,
afferrandole i fianchi. “Incremento di esuberanza e ipersensibilità. Non che
nel quotidiano tu non sia piuttosto emotiva, ma in genere la lucidità pone un
freno ai tuoi assalti. Molly, hai bisogno di dormire.”
Il sorriso
appassì. Malgrado tutto, l’idea la intimidiva, assediata nel castello d’ossa
che solo la paura riusciva a costruire: paradossale.
“Andiamo.”
“Cosa?”
Molly batté le palpebre e lo fissò, confusa. “Dove?”
Sherlock la
tirò per il polso con burbera gentilezza.
“Tu a
dormire, io a condurre un esperimento sulle difficoltà riscontrabili nel tentativo di indurre al sonno un
soggetto che ha sofferto di privazione di quest’ultimo.”
Le passò la
tazza di latte ormai tiepido che Mrs. Hudson aveva lasciato sul tavolino e poi
si fermò di fronte alla libreria, nella sezione che le aveva riservato subito
dopo il suo trasloco dal vecchio appartamento al 221B.
Tamburellò
le coste dei libri, concentrato nella sua ricerca, infine emise un verso di
approvazione, afferrandone uno.
Molly lesse
il frontespizio. Era Keats.
La prese di
nuovo per il polso, il libro stretto nell’altra mano, trascinandola lungo il
corridoio e in camera da letto. Si chiuse la porta alle spalle.
“Mettiti a
letto, Molly e bevi il tuo latte.”
Molly fece
come le era stato detto. Si tolse la vestaglia e si infilò sotto le coperte.
Bevve in silenzio, osservando Sherlock che scacciava Toby, riappropriandosi del
suo posto (Toby si accoccolò ai suoi piedi, soffiando per il fastidio). Scalciò
le scarpe e si stese sul letto, di fianco a lei, maestosamente.
La vestaglia bordeaux si allargava come uno strascico ai lati delle gambe
lunghissime. Sherlock le accavallò, si inumidì l’indice e il pollice, aprì il
libro e cominciò a sfogliarlo. “Mmm. Ode a un usignolo è confacente alla
situazione, credo.”
Sherlock le
lanciò un’occhiata incuriosita. “Non hai intenzione di metterti in una
posizione più confortevole? Dicono che agevoli lo stato di assopimento.”
Molly posò
la tazza sul comodino e si sistemò accanto a lui. “Posso?” domandò e indicò il
suo braccio, improvvisamente tentennante.
Sherlock non
rispose. Si limitò ad aprire il braccio, in modo che lei poggiasse comodamente la
testa sul cuscino e a passarglielo attorno alla schiena.
Cominciò a
leggere.
Dopo poco Molly
constatò che il sonno fosse l’ultimo dei suoi problemi. Certamente la spossatezza
le aveva fatto perdere il controllo sul proprio corpo, ma Sherlock leggeva per
lei e la sua voce… Dio, la sua voce era
lenitiva, ma non il calmante che lei avrebbe prescritto ad un ansioso per
acquietarlo.
Era morbida
e seducente e melodiosa e bassa e pura poesia, musicale ed evocativa.
Si diffondeva
intorno a lei, creando una suggestione da quadro dipinto, inebriante quanto i
paesaggi che descriveva.
Era tutto
ciò che una voce avrebbe dovuto avere, essere. Era la voce dei cantastorie e
dei menestrelli: di Shahrazād che aveva
fatto innamorare di lei un re con la malia delle sue storie o di Orfeo che secondo
le leggende aveva ottenuto il potere di ammansire le bestie più feroci tramite
essa.
Sherlock leggeva per lei e Molly percepì la trazione della tensione
abbandonarla, sdrucciola. Nel torpore gli affanni impallidivano e rimaneva solo
Sherlock: l’azzurro intenso dei suoi occhi, le sue dita lunghe e affusolate a carezzarle
mollemente il fianco, con indolenza.
Sherlock leggeva per lei e gli incubi non vennero, non quella notte.
N/a:
Okay. È da
quando ho ascoltato questa meraviglia che mi sono detta che dovevo infilarla da qualche parte (http://www.youtube.com/watch?v=TdphtMWjies).
Non saprei
dire, non lo ricordo con precisione, se sia nata prima la storia o l’idea di
farne una storia. Fatto sta che inizialmente consisteva in un’unica scena, l’ultima,
e che da lì poi io ho ingigantito e complicato grosso modo il tutto – come mio
solito. Pensate che ad un certo punto sono stata addirittura sfiorata dal vago proposito
di farne una raccolta.
Sono giorni
che cerco di completarla, ma tra l’aiutare mio fratello per l’interrogazione di
inglese, un’uscita con un’amica che rimandavo da un mese e il pranzo della
domenica con la famiglia al gran completo, non ho avuto tregua.
Scusate se
non ho ancora risposto alle vostre recensioni, quindi, rimedierò il prima
possibile ;)
Temo che sia
mostruosamente OOC, ci sono infatti dei punti su cui… bah, non mi esprimo.
Spero che
abbiate tutti trascorso un week-end piacevole e che questa mia vi aiuti a
trovare la carica per iniziare con il piede giusto la settimana.
Un abbraccio
a tutti :D
(Per chi
desiderasse una traduzione dell’Ode, ecco qui: http://www.keats-shelley-house.org/it/works/works-john-keats/john-keats-ode-to-a-nightingale)
P.s.: ho
dovuto aumentare il rating per un (!) rigo (quello della descrizione delle
torture inflitte a Sherlock). Non so se a qualcuno interessi, ma per chi fosse
incuriosito, ecco in cosa consisteva. http://it.wikipedia.org/wiki/Aquila_di_sangue
E, come al
solito, note lunghe un papiro…