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Autore: Mina_Von_Ess    10/03/2014    1 recensioni
La gravidanza non si addiceva ad Abigail Candie, al suo esile corpo dalle ossa sottili. Né le si addiceva Candyland, che con la sua estesione e la sua opulenza sembrava inghiottire la ragazza, la quale si trovava ad essere nient’altro che un piccolo punto bianco sperduto nella piantagione. D’altronde, ad Abigail non si addiceva nemmeno suo marito Calvin: vederli uno di fianco all’altro era come vedere una colomba schiacciata sotto la zampa di un leone.
***
“Puoi dispiacerti quanto vuoi Django, ma non puoi assumerti delle colpe che non hai. Non hai niente di cui pentirti, niente di cui vergognarti.”
“Non prendertela, Hildi, ma Dio sa certe cose meglio di te.”
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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L’innocente
 


“Sono passati venticinque anni.”
“Da cosa?”
“Non fare così. Sai bene da cosa.”
Infatti Broomhilda lo sa. E sa anche a cosa vuole arrivare suo marito.
 
Django tira fuori l’argomento a intervalli più o meno regolari: all’inizio si trattava di ogni certo numero di mesi; poi, ogni certo numero di anni.
È come un anniversario, una scadenza che Broomhilda teme.
Riabbassa lo sguardo sulla cipolla che sta tagliando mentre Django, seduto al piccolo tavolo accanto a lei, continua a bere il suo whiskey, tenendo i gomiti appoggiati sulla superficie di legno. Non la guarda. Non sembra guardare nulla.
 
Broomhilda fa un profondo respiro prima di parlare. “Non capisco perché ti ostini a voler discutere di qualcosa che sai che voglio dimenticare.”
“Perché ho una coscienza.”
Nessuno dei due alza la voce. È un copione che recitano da anni ormai: lo hanno interiorizzato, mostrare le proprie emozioni in maniera sfrenata sarebbe superfluo.
“Ah, una coscienza.” La donna inizia a tagliare la cipolla più velocemente, facendo meno attenzione. “Venticinque anni fa ho smesso di venire frustrata, stuprata, torturata, e l’unica cosa che viene in mente a te è…”
“Non l’ho mai raccontata giusta ai nostri figli, Hildi. È questo che non riesco a digerire.” Django fa ruotare il bicchiere nella propria mano, guardandolo come se lo stesse vedendo per la prima volta in vita sua. “Ho sempre detto loro che l’unica persona che quella notte a Candyland non si meritava di morire era Schultz…”
 
Broomhilda si pulisce le mani sul logoro vestito viola scuro. Tirerà lei fuori quel nome per prima, dirà di nuovo quello che ha già detto a Django decine di volte, e la conversazione terminerà lì.
“Non hai colpa per quello che è successo ad Abigail Candie. Quello che è successo a lei è successo a migliaia di donne prima di lei e sicuramente continuerà ad accadere.”
“Chissà come mai, ma questo non mi fa sentire meglio.”
La donna sbuffa, passandosi la mano sul viso; ha ancora una pelle relativamente liscia e dall’aspetto piacevole… Nonostante tutto.
Vorrebbe strapparsi i vestiti di dosso, infilzare il coltello nel tavolo, gridare al proprio marito di smetterla, smetterla, smetterla. Ha voluto farlo molte volte, ma alla fine quell’esasperazione non è mai scoppiata: è rimasta dentro i confini sicuri e stabili della sua testa, e così sarà anche questa volta.
 
“Mi hai detto tu stessa che non aveva mai fatto male a una mosca…”
“Sì, l’ho detto. Ma questo non bastava a fare di lei un’innocente.”
 
Le parole cadono sul suo cuore come un masso- le sue stesse parole.
Broomhilda prega Dio di perdonarla. Odia tutti i bianchi che hanno avuto a che fare con piantagioni e schiavi (a volte sente di odiare tutti i bianchi e basta), ma parlare in quella maniera dei morti le sembra un peccato imperdonabile.
 
Dopotutto, Abigail era solo una ragazza. Nata e cresciuta nel Paese sbagliato, sposata con l’uomo sbagliato.
 
Broomhilda si morde il labbro inferiore e alza lo sguardo, guardando fuori dalla finestra.
 
Fuori sta cadendo la neve.
 
* * *
 
“Com’è il tè, Abbie? È una nuova miscela a quanto pare, me la sono fatta mandare da New Orleans…” Lara Lee Candie guardava l’interlocutrice con il più vivo interesse, desiderosa di conoscere l’opinione della cognata riguardo a un argomento di tale importanza.
 
La verità era che Abigail Candie in quel momento non sentiva né provava niente, a parte un caldo infernale. Sorseggiava il tè senza assaporarne l’aroma, udiva la voce della cognata come un eco, o come un sottofondo musicale- qualcosa che riempiva il silenzio senza però fare parte del suo flusso di pensieri.
“Molto buono, cara. Ottima scelta.” La ragazza riappoggiò la tazza, praticamente piena, sul tavolino di fronte a sé, senza ancora guardare la cognata, che le sedeva accanto.
 
Ad Abigail piaceva stare sulla terrazza del piano superiore della casa. Poteva vedere le cose dall’alto, da un’altra prospettiva: le risultava facile, ad esempio, fare finta che tutti quegli schiavi non esistessero; le risultava facile immaginare Candyland come un’eden (l’azzurro del cielo, il verde dei campi e della vegetazione facevano sembrare il tutto come uno dei quadri appesi nella casa) invece che come l’inferno che in realtà la piantagione era.
Non che Abigail non fosse cresciuta a sua volta in una piantagione, fra gli schiavi. Una piccola piantagione –quella dei Leverton, nella contea Winston- in cui però lei e le sue quattro sorella, a volte, quando erano bambine, avevano giocato con i bambini neri; in cui, non c’era stato mai bisogno di frustare nessuno; in cui nessuno stuprava le schiave, né aveva figli illegittimi da loro.
Almeno, da quanto sapesse lei.
Da ventiquattro anni la schiavitù era parte integrante e necessaria della sua vita, come lo era, secondo Abigail, di tutto il Sud degli Stati Uniti. Non condivideva le posizioni degli abolizionisti, né sapeva cosa pensare della frenologia; era fermamente convinta tuttavia che ogni essere umano, in quanto tale, meritasse di ricevere un comportamento umano, per quanto inferiore per nascita, intelletto e quant’altro. Così l’avevano allevata, così Abigail tutt’ora ragionava.
Ma a Candyland non si seguiva ovviamente la filosofia dei Leverton.
 
“Sei sicura di sentirti bene, Abbie? Mi sembri così assente…”
Abigail sbattè le palpebre prima di voltarsi verso la cognata. “Sì, sto divinamente. Sono solo incinta da più di trenta settimane, soffro il caldo e il cranio mi sta scoppiando. Ma penso che sia tutto assolutamente normale.”
Lara Lee abbozzò un sorriso prima di concentrarsi nuovamente sul proprio tè.
Abigail si pentì subito di essere stata brusca. La cognata, per quanto la ragazza si vergognasse ad ammetterlo, provocava in lei un sentimento molto simile alla pena: era la sorella di Calvin, eppure sembrava esserne la madre; indossava vestiti troppo colorati (al momento sfoggiava un vestito rosa con colorazioni floreali), era sempre a spalle scoperte, flirtava con uomini molto più giovani. Una donna di mezza età che però non aveva mai accettato di aver passato la soglia dei venticinque anni.
Abigail non stimava di certo Lara Lee per la sua intelligenza; a volte le sembrava che la donna fosse solo lì per distribuire sorrisi a trentadue denti ed elogiare il fratello, che amava sinceramente.
Era oltrettutto una donna che, pur non distribuendo e ordinando direttamente frustate e mutilazioni, non ne sembrava né impressionata né tantomeno inorridita.
Ma Lara Lee era anche una vedova senza figli, che nessun uomo dopo il signor Fitzwilly aveva voluto, e che ora si trovava di fronte una ragazza di ventiquattro anni, nel pieno della propria vita e della propria bellezza, la quale attendeva ciò che lei non aveva mai avuto la possibilità di attendere. Questo, agli occhi di Abigail, bastava per giustificare almeno una minima parte delle colpe di Lara Lee. Sapeva cosa significava non poter avere figli: lei e Calvin (come l’intera famiglia Leverton) avevano atteso per cinque anni la sua gravidanza.
La ragazza mora mise una mano su quella della cognata, sporgendosi leggermente in avanti.
“Mi avevi promesso di aiutarmi nella scelta dei nomi, ricordi? Non pensare di sfuggirmi, questa volta. Mi dispiace dirlo, ma tuo fratello non mi è di molto aiuto al riguardo.”
Lara Lee si illuminò immediatamente, ed Abigail sorrise. In effetti, la cognata era una preziosa alleata nel ricercare nomi femminili.
Calvin, quando si trattava di parlare di un possibile nome per il nascituro (e la cosa accadeva assai di rado, visto che il proprietario di Candyland sembrava avere sempre qualcosa di meglio a cui pensare), sapeva elencare solo nomi maschili.
 
Non erano passati dieci minuti che una grossa macchia scura comparve in fondo al viale che portava all’entrata della tenuta. Abigail vide Lara Lee rizzare la schiena, e di nuovo quel bagliore infantile nei suoi occhi.
Avevano aspettato il ritorno di Calvin da Greenville per quel giorno, e Calvin stava ora tornando. Quando furono più vicini, Abigail riconobbe Moguy nella carrozza assieme a suo marito, e gli uomini della scorta a cavallo. Ma fra di loro spiccavano due figure che lei non riconosceva: uno di loro sembrava essere nero.
 
L’attesa e l’arrivo di Calvin avevano scombussolato il suo stomaco, e non sapeva spiegarsi il perché. Calvin da qualche anno non era più il suo fidanzato, il suo innamorato, e lei non era più preda di quel sentimento adolescenziale che era un misto di amore, speranza, curiosità, ma anche riverenza e timore.
Guardò la comitiva con un sorriso alquanto forzato. Riusciva a distinguere la pipa del marito.
Abigail e Lara Lee rietrarono in casa, lasciando le domestiche a sparecchiare. Abigail chiese a Cora di portarle una bacinella di acqua fredda in camera.
“Sono io che sto diventando cieca o fra gli altri c’era un negro a cavallo?” Le chiese la cognata, prima che le loro strade si dividessero.
Abigail arricciò un angolo della bocca. “O c’era veramente, o stiamo diventando cieche entrambe.”
 
In camera si rinfrescò viso e collo prima di sedersi davanti allo specchio. Ella stessa riconosceva che la vanità fosse uno dei suoi peccati, ma non sopportava le donne che non badavano affatto al proprio aspetto, specialmente quelle che si lasciavano totalmente andare durante la gravidanza.
Abigail non lo faceva per Calvin, né per nessun altro; lo faceva in primis per se stessa. Avere una bella carnagione, tenere i capelli in una capigliatura ordinata, mettersi un paio di orecchini (per quanto piccoli e modesti) semplicemente la faceva sentire più in pace con se stessa.
La ragazza guardò le proprie occhiaie, che non erano mai state un suo difetto ma il cui aspetto era andato peggiorando durante gli ultimi mesi. Fu però contenta di vedere come la propria carnagione avesse mantenuto il suo pallore, e nemmeno le dispiacevano le due chiazze rosse che le coloravano le gote. La riga dei capelli era perfettamente al centro della testa, con la chioma scura intrecciata e legata sulla nuca.
Abigail si passò i polpastrelli della dita sulle sopracciglia folte e scure, tentando di sorridere allo specchio, volendo dare più vitalità ai propri occhi neri. Non intendeva dare il benvenuto al marito e agli ospiti con l’aria della moglie dimenticata e provata dalla gravidanza.
Si inumidì la piccola bocca carnosa e controllò il vestito lilla pallido prima di uscire.
 
La ragazza si teneva il ventre gonfio mentre scendeva le scale, facendo scivolare l’altro palmo sullo scorrimano. Pensare alla miriade di cose che sarebbero potute succedere a lei e il bambino (cadere giù per le scale, mangiare qualcosa andato a male, ricevere per sbaglio un colpo al ventre…) era più forte di lei.
Perfino Cora non le lasciava fare quasi alcunchè da sola, quasi come se la considerasse un pesante, ma fragile vaso prezioso che si sarebbe potuto scheggiare o rompere al minimo errore.
Andrò fuori di testa. Il caldo e tutti questi pensieri mi faranno andare fuori di testa.
 
La gravidanza non si addiceva ad Abigail Candie, al suo esile corpo dalle ossa sottili. Né le si addiceva Candyland, che con la sua estesione e la sua opulenza sembrava inghiottire la ragazza, la quale si trovava ad essere nient’altro che un piccolo punto bianco sperduto nella piantagione. D’altronde, ad Abigail non si addiceva nemmeno suo marito Calvin: vederli uno di fianco all’altro era come vedere una colomba schiacciata sotto la zampa di un leone.
 
Abigail e Lara Lee arrivarano giusto in tempo per il richiamo urlato di Calvin.
“Dove sono le mie bellissime donne?! Ecco dove sono! Whoo-ho-hooo!”
Il padrone di Candyland balzò fuori dalla carrozza. Lara Lee si fece avanti sul portico, mentre Abigail rimase appoggiata allo stipite della porta d’ingresso. Era socievole ma timida, rendeva nota la propria presenza ma preferiva rimanere nelle retrovie.
Vide la fila di schiavi neri (sudati e ansanti) allineati vicino alla carrozza e abbassò lo sguardo. Era forse anche quello che la induceva a non farsi avanti: la vergogna di appartenere, di essere parte integrante di qualcosa di abominevole.
 
“Dottor Schultz, queste due attraenti bellezze del Sud sono mia sorella vedova e mia moglie. Care, siete un tonico per gli occhi stanchi!”
Calvin saltò agilmente sulla veranda prima di scambiare un bacio con la sorella. Abigail vide i due sconosciuti (un uomo che era effettivamente di colore e un bianco vestito di grigio) smontare dai rispettivi cavalli.
“Posso presentarvi Lara Lee Candie-Fitzwilly?” Calvin sembrava voler esporre la sorella come una sorta di mercanzia costosa, e d’altronde quello era anche il gioco di Lara Lee, la quale fece un grazioso inchino.
“E poi…” Il padrone di casa si voltò verso Abigail, rimanendo interdetto per un secondo, il quale tuttavia fu sufficiente per esprimere una certa insoddisfazione. “Tesoro, fatti pure avanti, nessuno ha intenzione di mangiarti!” La rimproverò scherzosamente, guardando però l’uomo vestito di grigio.
Abigail in due passi fu da lui e alzò la testa per ricevere un bacio. Era una ragazza bassa, fra lei e il marito c’erano più di venti centimetri di differenza.
Calvin sapeva fortemente da tabacco, come al solito.
Improvvisamente, lui la alzò e la fece roteare. “E questa è la mia deliziosa moglie Abigail! Come vedete, fra poche settimane Candyland avrà un nuovo padrone…” Calvin abbracciò Abigail da dietro, facendo intrecciare tutte le loro venti dita, e baciò il suo collo scoperto. La ragazza arrossì ancora di più, non sapendo se per il piacere o l’imbarazzo.
“Le mie più sincere congratulazioni.” L’uomo vestito di grigio si fece avanti e si tolse il cappello. Le sorrideva, e Abigail ricambiò il sorriso, mormorando qualcosa.
Quell’uomo dai capelli grigi le sembrò sorridere in maniera diversa da tutti gli ospiti che aveva dovuto intrattenere fino allora: non c’era ipocrisia, non c’era finzione; al contrario, sembrava nella sua espressione esserci addirittura qualcosa di paterno. Abigail desiderò conversare con lui, forse a cena, forse anche prima; la ragazza d’altronde si aggrappava a qualsiasi cosa che non appertenesse a Candyland, a qualsiasi persona che, come un singolo spiraglio di luce, le ricordava che c’era un altro mondo fuori quella piantagione.
 
Ma l’attimo dopo l’uomo dallo sguardo paterno chiese di Hildi, chiese di farsela mandare in camera, ed Abigail si rese conto che in fondo non era poi molto diverso da tutti gli altri.
Indietreggiò mentre Calvin dava le proprie istruzioni a Stephen su Hildi. Sentendoli bisticciare, ne approfittò per rientrare in casa e affrettarsi al piano di sopra; non era molto educato verso gli ospiti, ma in quel momento gliene importava veramente poco. Aveva bisogno di rintanarsi nuovamente nella camera da letto.
 
Ora aveva veramente la nausea.
 
*
 
Aveva appena finito di sciogliersi i capelli e iniziato a pettinarsi che sentì la maniglia della porta girare.
Sapeva chi era. Ecco di nuovo quella strana sensazione nello stomaco, quell’emozione dovuta alla sua stessa confusione, alla volontà di vedere il marito mista alla volontà di tenerlo il più lontano possibile da sé.
 
Nello specchio, vide Calvin che sorridendo entrava nella stanza, prima di chiudere la porta dietro di sé e appoggiarvisi con la schiena.
Abigail ricambiò lo sguardo, ma il suo sorriso era molto più incerto. “Se vuoi riposare, finisco di pettinarmi e vado nella mia stanza.”
La sua stanza era una camera che Calvin aveva fatto allestire per lei sin da quando era venuta ad abitare a Candyland; inizialmente la ragazza ne era rimasta quasi offesa e si era riproposta di non utilizzarla mai, ma con il passare del tempo aveva finito per passarci più tempo di quanto non avesse immaginato. Era grata di avere il proprio spazio, ma la maggior parte del tempo continuava a stare nella camera sua e di Calvin- per inerzia, per propria volontà, o per mantenere l’armonia familiare, a seconda delle situazioni.
 
Calvin arricciò ancora di più gli angoli della bocca e iniziò a procedere lentamente nella sua direzione.
“Non ti vedo da una settimana e pensi che vorrò stare da solo, senza di te? Per che razza di mostro mi hai preso?” La canzonò, gettando il cappello sul letto.
Abigail abbassò lo sguardo. La battuta del marito non suonava affatto divertente.
L’attimo dopo sentì la mano calda di Calvin appoggiarsi sulla sua spalla nuda. La ragazza lasciò la spezzola sul tavolino di legno e cercò di sorridere al marito.
Dopo qualche secondo, fu lui a rompere il silenzio. “Pensavo saresti venuta a Greenville da me”, disse, in un tono che non poteva essere più diverso da quello di prima.
Abigail schiuse le labbra, senza sapere però cosa dire. Calvin iniziò ad accarezzarle i capelli e a sistemarli con la stessa mano di prima, ma i suoi occhi azzurri la interrogavano.
“Tesoro, sono almeno cinque ore di viaggio. Nelle mie condizioni non sarebbe la cosa più saggia da fare, non trovi?” Alle parole bisbigliate seguì un risolino nervoso, con il quale Abigail cercò l’approvazione del marito.
“Hmm.” Calvin le sorrise di nuovo. “Già. Che stupido.”
Aveva pronunciato le parole troppo lentamente, in modo troppo scandito. La ragazza gettò inconsapevolmente i capelli ondulati su una spalla, fuggendo alla mano del marito e cercando qualcos’altro da fare.
 
“Io ho pensato a te comunque.” Sentenziò Calvin, uscendo da quella specie di trance. Tirò fuori la mano che fino a quel momento aveva tenuto dietro la schiena, mano con la quale reggeva una piccola scatola quadrata marrone, che aprì di fronte allo sguardo della moglie.
“Ti piacciono?” Chiese, ma dal suo sguardo compiaciuto si intuiva che pensava di sapere già la risposta.
Abigail fece scorrere i polpastrelli delle dita sul girocollo di piccoli smeraldi e sui piccoli pendenti, anche quelli formati da smeraldi.
Alzò lo sguardo verso Calvin. “Sono meravigliosi.”
Aveva risposto sinceramente: i gioielli erano fatti con la sua pietra preferita, erano discreti, fini ma d’effetto. E proprio per questo intuiva che probabilmente non era stato Calvin a sceglierli: ormai conosceva i suoi gusti, sapeva che egli era più incline all’esagerazione che alla discrezione. Forse aveva chiesto a Moguy di andare a scegliere qualcosa al posto suo; non sarebbe stata la prima volta, in ogni caso.
Ancora più compiaciuto, Calvin si affrettò a metterle collana e orecchini. “Avevo paura fossero troppo miseri…”
“No. È tutto perfetto.” Abigail si rimirò nello specchio. Gli smeraldi esaltavano la sua carnagione chiara, i suoi capelli e i suoi occhi scuri, il vestito lilla. In effetti erano splendidi, ma in quel momento sentiva che una parte di lei li odiava.
Incontrò lo sguardo del marito nello specchio. “Grazie.”
I due si sorrisero, e le loro mani si unirono sulle spalle di lei.
 
Per qualche attimo, solo per qualche breve attimo, Abigail si ricordò dell’esatta sensazione che aveva provato quando si era innamorata di Calvin.
Ogni fase della sua vita la ragazza la poteva rivivere dentro di sé, associandola a un particolare stato d’animo, a un colore. Delle sue nozze, stranamente, non ricordava al contrario quasi nulla: un insolito buco nero, probabilmente provocato dall’agitazione. Forse era meglio così.
Ma Abigail a volte non si ricordava nemmeno perché aveva sposato Calvin. Immaginava che ne fosse stata innamorata, al tempo.
Innamorata del suo bell’ aspetto (del suo bel viso, dei suoi bei vestiti), dei suoi modi educati e al contempo leggermente strafottenti, del fatto che fosse alquanto più vecchio di lei; innamorata delle sue avances, dei modi fini in cui la corteggiava, ma anche degli incoraggiamenti della propria famiglia. Era stata in parte innamorata della sua stessa vanità, anche se all’epoca non se ne era resa conto.
Stava per sposare un uomo bello e che sapeva farsi piacere da tutti, nonché proprietario della quarta piantagione più grande del Mississippi e ridicolmente ricco. Questo era stato per lei (e per la sua famiglia) il culmine della gioia.
Questo l’aveva scambiato per amore.
 
Si era innamorata (o invaghita, a seconda dei punti di vista) solo di una minima parte di Calvin, anche se allora non ne poteva essere conscia: il Calvin Candie che dilettava tutti con le proprie battute e con le proprie cortesie e che affascinava con il proprio sorriso.
Il Calvin Candie che dirigeva un club di dubbio carattere a Greenville, che aveva un’amante nera, che considerava le lotte all’ultimo sangue fra gli schiavi come diletto principale per lei era tutt’ora solo un’ombra, un incubo a cui non voleva permettere di rovinare il bel sogno in cui credeva di vivere.
L’unica via d’uscita dalla disperazione era quindi l’ignoranza: il voltare la testa dall’altra parte (quando vi riusciva), l’immaginazione.
 
Non che Abigail fosse un’ingenua, nemmeno quando si chiamava ancora Abigail Leverton: sapeva bene come venissero gestite le grandi piantagioni, come venissero trattati gli schiavi, che rapporti intercorressero a volte fra padrone e schiave, ma anche fra mariti ed altre donne. Ma questi pensieri la giovane li aveva sempre scacciati come mosche fastidiose, comparandoli alla paura  di qualche malattia mortale.
Sì, succede, succede a molti, ma a me non accadrà, perché io sono intoccabile e non mi puo’ accadere nulla di poi tanto grave.
Poi, quando le era successo di scoprire che il marito aveva un’amante di colore, che era un mostro che gioiva nel far uccidere uomini a vicenda e nel far sbranare uno schiavo insubordinato da cani, non riuscendo a metabolizzare la cosa aveva di nuovo chiesto aiuto alla propria mente.
Non sta succedendo veramente, è solo un brutto sogno. Il mio mondo è creato dalla mia verità, e la mia verità è creata solo da belle cose.
 
Nonostante tutto, non si pentiva di aver sposato Candie, e questo perché Abigail credeva nel destino e non si pentiva mai di alcunchè: se era successo, voleva dire che era dovuto succedere, e ogni cosa che accadeva, in fondo, aveva un senso.
Doveva ammettere che i bei momenti c’erano stati: Calvin dopotutto aveva sempre mostrato infinite attenzioni e inaspettato affetto nei suoi confronti; non le era mai mancato niente, né materialmente né sul piano dei loro rapporti – più o meno.
Con una certa dosa di tenerezza Abigail ricordava di come svariate volte il marito l’aveva lasciata fumare le sigarette di lui mentre erano da soli nella biblioteca e di come aveva riso senza malizia quando lei aveva iniziato a tossire subito dopo la prima tirata; di come l’aveva elogiata a cena, davanti ai propri ospiti; di come avevano visitato varie città assieme, camminando a braccetto; di come l’aveva riempita di baci quando lei gli aveva dato la grande notizia. E, per quanto ammetterlo la facesse arrossire dall’imbarazzo e dalla vergogna, non le era dispiaciuto affatto dividere il letto con lui- anzi.
 
Ma Calvin Candie era nato e cresciuto in un reame gestito da mostri; non poteva non essere un mostro anche lui, ancora oggi.
E lei non era nient’altro che la moglie di un mostro la quale cercava di ignorare tutto questo, diventando a sua volta un essere abominevole.
 
Provata da tutti questi pensieri stremanti, Abigail appoggiò le labbra sul dorso della mano di Calvin, cercando di nascondere gli occhi lucidi.
“Stai bene, Abbie?”
Il fatto che tutti le chiedessero in continuazione se stesse bene le faceva capire che era evidente che non stesse bene, e le faceva stringere ancora di più il groppo che sentiva alla gola.
“Si, tesoro. Ma la gravidanza mi fa brutti scherzi.”
“Hmm. Difatti ho attribuito alla gravidanza molte cose.”
Abigail aggrottò la fronte e guardò il marito. “Prego?” La voce le tremava leggermente.
“Intendo alcuni tuoi comportamenti.” Calvin aveva inarcato le sopracciglia, ma il suo tono era ancora calmo. “Trovo che a volte la tua condotta sia… poco appropriata.”
La ragazza si alzò di scatto e andò verso il letto, facendo finta di sistemare i lenzuoli. “Se ti riferisci a poco fa, ammetto di essere stata troppo schiva, ma ho avuto un malore e…”
“No, no, no, mia cara, non mi riferivo a quello. Credimi, quella è stata solo una goccia nell’oceano.”
Abigail si bloccò; quelle parole la stavano ferendo più di quanto il suo orgoglio le permetteva.
Calvin le si avvicinò a passi lenti, togliendosi la giacca e buttandola sul letto. “Mi reputo un uomo paziente, Abigail. Esattamente come reputo pazienti le persone che spesso intratteniamo come ospiti. Sappiamo tutti che effetti puo’ avere una gravidanza su una donna, per questo sono sempre stato disposto a sopportare ogni tua frecciatina, ogni occhiata storta, ogni risposta insolente.”
Abigail si voltò verso di lui, e dalla sua bocca aperta uscì una mezza risata che aveva qualcosa di incredulo. “Io avrei fatto cosa?”
“Ma qua non stiamo parlando solo degli altri, tesoro. Stiamo parlando di me e di te.”
 
Calvin aveva ignorato la reazione della moglie. Ora i due si guardavano negli occhi, senza più tenerezza.
“Potrei, ad esempio, parlare del fatto che non mi ricordi l’ultima volta che ti sei lasciata toccare…”
Calvin cercò di afferrarla per la vita, ma Abigail si scostò.
“Calvin, ti prego…” Lo implorò, esasperata, alzando i palmi delle mani come in segno di resa. “Sai che non posso…”
“Oh, si che puoi, tesoro mio. Forse non vuoi, ma potresti sicuramente.” L’uomo tentò ancora una volta di stringerla in quella che sembrava più una morsa che un abbraccio, ma la moglie lo spinse via, usando tutta la forza che aveva nelle braccia.
Lasciami!
 
Calvin era stato costretto a indietreggiare un paio di passi. Ora Abigail notava con terrore la riga verticale in mezzo alle sopracciglia del marito, resa ancora più evidente dall’espressione sconcertata di lui.
Proprio per questo decise di non fermarsi proprio ora.
“Hai sempre la tua Sheba, no?”
Calvin dapprima la guardò con aria interrogativa, ma poi la sua bocca e i suoi occhi si allungarono in un sorriso che aveva qualcosa di maniacale.
Abigail capì che il marito non avrebbe negato alcunchè riguardo la sua schiava favorita.
“Non mi puoi rimproverare niente, cara. Ti ho dato sempre tutto.”
 
Improvvisamente, la ragazza si sentì piovere addosso un tale senso di umiliazione che dovette sedersi di nuovo al tavolino della toeletta. Nascose il viso (ora arrossato, come anche il collo e il decolleté) nei palmi delle mani, e in pochi secondi iniziò a venire scossa da singhiozzi.
“Che cosa vuoi veramente, Abbie?” Ora era Calvin a sembrare esasperato, ma la sua era un’esasperazione figlia del tedio.
Voglio mia madre!” Abigail appoggiò con violenza la testa sul tavolo, nascondendola fra gli avanbracci. “Voglio indietro mio padre, le mie sorelle, la mia casa, i miei cani…!”
Non l’aveva mai ammesso a nessuno, ma in quei cinque anni aveva sofferto terribilmente la nostalgia di casa: una di quelle cose che prima delle nozze non si sarebbe mai aspettata, ma che l’avevano colpita con violenza già dai primi tempi del matrimonio. Si ritrovava spesso a desiderare di avere di nuovo sedici anni, quando si poteva godere ancora il mondo e la propria vita con relativa maturità, senza però essere conscia dei suoi aspetti più delicati e negativi.
 
Calvin sbuffò, passandosi una mano fra i capelli. “Cristo, Abigail, sembri una ragazzina quando fai così. D’altronde, una ragazzina è quella che ho sposato.”
La ragazza vide che là in fianco c’era ancora la sua bacinella d’acqua. Senza pensarci troppo (perché sapeva com’era fatta: se ci avesse pensato un solo secondo in più, non avrebbe più agito), si alzò, afferrò la grossa bacinella e lanciò il suo contenuto su Calvin.
Il signor Candie si ritrovò con tutta la parte superiore del corpo bagnata. Tenendo gli occhi ben chiusi, con gli stivali circondati da una pozza d’acqua, allungò lentamente una mano per afferrare uno degli asciugami posti lì accanto.
 
Abigail si affrettò ad uscire dalla stanza. Schivando un paio di domestiche nel corridoio, entrò nella propria camera sbattendosi la porta alle spalle.
 
*
 
“… Ma non dimentichiamo la cosa più importante nel combattimento fra negri, e cioè che un negro deve vincere gli incontri. È questo il vostro primo, secondo, terzo, quarto e quinto pensiero. Quando c’è questo, e per voi questo c’è, allora potete… Mettere in pratica il grande disegno. In altre parole: andiamo-con-ordine.”
“Andiamo con ordine.”
 
A Calvin piaceva tenere lezioni, pensò Abigail. Suo marito pensava di sapere tutto su ogni argomento possibile e di saperlo meglio di chiunque altro. E il maggiordomo Stephen si era sempre rivelato un ottimo assistente, soprattutto per quanto riguardava il ripetere come un pappagallo ogni cosa che diceva Monsieur Candie.
 
Abigail solitamente mangiava con gusto, ma non quella sera: aveva più che altro giocherellato con il cibo, e solo il guardare il filetto posto sul proprio piatto le faceva girare la testa.
Aveva ovviamente lo stomaco chiuso; quando pensava a quanto il suo corpo (e la sua mente) era stato provato durante quella giornata, si meravigliava di non aver vomitato tutto quello che aveva ingerito negli ultimi cinque giorni.
 
Calvin era –o almeno sembrava- del suo consueto buonumore; la sua parlantina non sembrava subire freni. Fatto stava che dall’inizio della cena non aveva rivolto alla moglie nemmeno uno sguardo, e tantomeno una parola, sebbene Abigail fosse seduta subito accanto a lui, alla sua destra.
La ragazza non se ne meravigliava: per schiacciare qualcuno bastava ignorarlo, in fondo. E Calvin, quando voleva, quando pensava che la moglie non si fosse meritata le sue lusinghe e i suoi baci, era un maestro nel schiacciarla senza sforzo apparente.
Per ripicca, lei cercava di dimostrarsi il più comunicativa e amabile possibile con Moguy, che aveva alla sua destra.
Doveva ammettere che in minima parte suo marito aveva avuto ragione: la ragazzina che tutt’ora abitava in lei si manifestava nella voglia di Abigail di portare avanti quel litigio, quella tensione fra di loro il più a lungo possibile.
 
La giovane, durante un attimo di pausa generale, vide Schultz schioccare le dita nella direzione di Hildi, la quale fu subito da lui per riempirgli il bicchiere.
Ma poi Abigail notò una cosa insolita.
Hildi era una donna dal viso bellissimo e dallo sguardo perennementre triste – e non poteva essere altrimenti; ma ora, mentre Schultz le bisbigliava qualcosa in tedesco, Abigail la vide sorridere dolcemente. Senza finzione, senza costrizione.
Allora non le ha fatto del male?
Non era andata da Hildi subito, dopo che l’avevano tolta dalla fornace; non ne aveva avuto il coraggio, e per questo avrebbe voluto farsi risucchiare dalla terra per la vergogna. Aveva lasciato che Lara Lee e Cora facessero il grosso del lavoro, prima di unirsi a loro.
Non aveva osato dire niente alla schiava. Tolta dalla fornace per venire data in pasto a un’ospite del padrone di casa- non c’era niente da dire. Le aveva messo solo una mano sulla spalla con aria materna, cercando oltretutto di evitare il suo sguardo.
Hildi non era solo bella: i suoi occhi brillavano di un’inconsueta intelligenza e di una soppressa dolcezza; si esprimeva bene; aveva mani fini ed abili con dalle quali più volte Abigail si era fatta preparare acconciature elaborate o stringere un corsetto.
Era una schiava che non apperteneva ai campi, ma che non sarebbe dovuta nemmeno appartenere alle capanne che circondavano la piantagione in quanto ragazza di comodo.
Abigail avrebbe voluto fare qualcosa per lei (farla assistere da Cora e renderla una domestica a tutti gli effetti, ad esempio).
Avrebbe voluto cambiare molte cose a Candyland, in effetti.
 
“Ha, vi intendete voi due!” Commentò Calvin, sorseggiando dal suo bicchiere e guardando con un certo interesse Schultz.
“A meraviglia! Oh, Monsieur Candie, non immaginate cosa sia non udire la tua lingua natia da quattro anni…”
“Beh, non riesco a immaginare me due settimane a Boston!”
La battuta di Calvin riscosse molto successo, tranne che da parte di Schultz e Django, che parevano ammutoliti.
Abigail da parte sua si limitò ad alzare il proprio bicchiere di fronte a sé, e ad osservarlo intensamente mentre sorrideva. Calvin era stato sottile: sapeva bene quanto la moglie amasse Boston. Ci era stata una sola volta, quando aveva diciassette anni, e da allora non riusciva che parlare di quella città.
Il padrone di casa riusciva a essere di classe anche quando tirava frecciatine.
 
“Io non so esprimervi la gioia provata nel conversare nella mia lingua madre”, continuò Schultz, ignorando educatamente le risate generali, “e Hildi è una compagnia di conversazione incantevole!” L’uomo si sporse dal tavolo per afferrare delicatamente il braccio di Hildi, che sorrise di nuovo timidamente, imbarazzata e lusingata.
Ancora quel sorriso.
“Beh, fate attenzione, dottor Schultz. Prendersi un’infezione di amore negro è un attimo. L’amore negro è un’emozione forte, signori! È come una pozza di pece nera, se ti ci lasci acchiappare sei cotto!”
“Signorsì, impecorato!” Stephen confermò come di consueto le parole del padrone, ed Abigail decise di fare altrettanto.
“Credetemi, dottor Schultz, mio marito oltre che di lotte fra negri è anche un’esperto di amore negro. Ha anni di pratica alle proprie spalle.”
 
La timida e minuta Abigail non avrebbe mai pensato che in vita sua sarebbe stata volutamente l’artefice di una situazione così imbarazzante. Come si aspettava, calò il silenzio. Tutti, tranne Calvin, abbassarono lo sguardo, e si udì solo il tintinnio delle posate.
Le guance di Abigail si infiammarono; la ragazza alzò orgogliosamente il mento, con un’espressione quasi sognante, sorseggiando dal proprio bicchiere. Invece di pensare a cosa avesse fatto, pensò a quanto doveva essere bella in quel momento, così altera, con indosso il suo vestito verde scuro che le lasciava le spalle scoperte, i gioielli di smeraldo (sì, quelli che le aveva portato Calvin) che contrastavano con la sua carnagione lattea, i capelli raccolti e ornati  da una coroncina di fiori.
Tuttavia suo marito, oltre che padrone di Candyland, era anche padrone della conversazione: la conversazione era una sfida, un duello che egli non aveva mai perso.
“Essendo cresciuto in un’enorme piantagione, sarei decisamente uno zuccone se non avessi appreso tutto sui negri!” Calvin, ancora senza guardare la moglie, fece un gesto vago con la mano, regalando prontamente ai suoi ospiti un altro dei suoi sorrisi. Schultz ricambiò, ma Abigail era comunque soddisfatta di aver fatto centro.
Il danno era stato fatto: la signora Candie aveva creato una crepa nella perfezione della serata; una crepa minuscola, che forse si sarebbe rimarginata, ma a lei bastava.
“Non saprei, dottore. Sfoderate pure tutte le lusinghe tedesche migliori, ma direi che questa pulendra non ha occhi che per Django!”
L’osservazione di Lara Lee riportò la conversazione e l’intera serata al flusso normale: si passò dal discutere dei pregi del dottor Schultz a quelli dei gentiluomini europei, per poi passare alle trattative riguardo al lottatore che Schultz e Django erano venuti ad acquistare; Calvin fumava dal suo bocchino d’avorio; si raggiunse una decisione; si brindò all’ ”Ercole Nero”; Calvin stuzzicò volgarmente Hildi.
 
Fu a quel punto che Abigail prestò di nuovo attenzione a quello che stava succedendo a tavola.
“Sai, monsieur Candie, al dottore qui magari interessa vedere la schiena di Hildi, visto che non ci sono tanti negri, da dove arriva lui…”
“Ah! Dottor Schultz, in camera vostra, con Hildi, avete solo parlato tedesco o… Le avete tolto i vestiti?”
“No, solo parlato…!”
Abigail chiuse gli occhi. Non poteva muoversi da quel tavolo, ma il suo corpo fremeva.
“Quindi non le avete visto la schiena? Ah, no, no, no! Stephen ha ragione, potreste trovarla interessante! Hildi, levati i vestiti, mostra al dottor Schultz la schiena. Avanti.”
“Calvin, ti prego…” Abigail non si fece problemi a supplicarlo, pur se con un fil di voce. L’espressione atterrita di Hildi era qualcosa che non poteva sopportare.
“Calvin! L’ho appena vestita tutta elegante e carina…” Anche Lara Lee le venne in soccorso, pur se per motivi differenti.
“Ma Lara Lee, il dottor Schultz è di Dusseldorf! Non ce li hanno i negri, lì! È un uomo di medicina, rimarrebbe affascinato dalla resistenza dei negri al dolore!”
“Calvin, mio caro, ti prego, non ce n’è bisogno…”
“Questi negri sono rocce, dottor Schultz, non si puo’ negare!”
Abigail vide con orrore che Stephen stava sbottonando la veste di Hildi, facendosi aiutare da Calvin. Boccheggiò un paio di volte, prima di supplicare il marito per la terza volta. “Tesoro, non farlo.”
Inutilmente.
“Hildi ha preso quattro scudisciate sulla schiena. Lara Lee dopo una uscirebbe di senno!” Il padrone di casa rise, mentre faceva passare le dita sulle cicatrici di Hildi. “Guardate, dottore, è un dipinto!”
Abigail decise che non avrebbe supplicato una quarta volta. Battè la mano sul tavolo, facendo tintinnare i bicchieri. “Calvin! Smettila! Smettetela tutti e due!”
Suo marito, effettivamente, si bloccò. Finalmente la guardò, con un’espressione indecifrabile sul viso. Questa volta non poteva ignorarla.
“Calvin, stiamo mangiando. Nessuno vuole vedere la sua schiena frustata!” Ancora una volta, Lara Lee fu dalla parte di Abigail, convinta probabilmente che la giovane cognata semplicemente non volesse far venire il voltastomaco agli ospiti.
Osteggiato su due fronti (anche se considerando di più il rimprovero della sorella che da quello della moglie), il padrone di casa fu costretto a cedere. “Bene, bene, bene. Dopo cena, Stephen, dopo cena. Con il brandy, signori, hm?”
 
Il corpo di Abigail ebbe una reazione strana. Il suo cuore iniziò a battere più forte, sempre più forte, e il suo stomaco, se possibile, si strinse ancora di più. Questa volta la ragazza ebbe davvero paura di rimettere proprio là, a tavola, davanti a tutti.
Ma non successe. Abigail tentava di ignorare il cibo, le chiacchiere degli altri, cercando nel contempo di calmarsi.
Non c’era motivo di andare in panico, continuava a ripetersi. Andava tutto bene- lei stava bene, il bambino stava bene.
Tuttavia Abigail sapeva, in fondo, in cosa consistesse il problema: non poteva più stare in quella casa, non poteva più stare con Calvin. Doveva effettivamente tornare alla piantagione Leverton, almeno per un po’ di tempo, finchè le acque non si fossero calmate. Forse Calvin non avrebbe approvato, come d’altronde i suoi genitori, e forse la gente avrebbe chiacchierato; ma le donne forse non dicevano spesso e volentieri che l’arrivo di un figlio aggiustava sempre tutto?
Dopo cena. Senza litigi, senza alzare la voce. Dopo cena mi scuserò e glielo dirò.
 
In seguito, Abigail riuscì solo a cogliere frammenti di conversazione: Schultz che mostrava interesse per un possibile acquisto di Hildi; Stephen che chiamava fuori Calvin riguardo un problema con il dessert; Lara Lee che intratteneva un non troppo interessato Schultz con storie su circhi e teatri.
Non si accorse nemmeno che il marito si era assentato per un periodo di tempo insolitamente lungo, né si accorse che era tornato portando una specie di bauletto pesante.
 
Stava pensando a come esprimersi nella lettera che intendeva scrivere alla madre quando lo stesso Calvin la sorprese nella sua distrazione.
“Anche tu, Abbie, hm?”
“Huh?” La ragazza alzò lo sguardo di colpo, rendendosi subito conto di aver risposto in modo inappropriato. Si schiarì la voce. “Pardon?”
“Vai anche tu ad aiutare Lara Lee, si?”
Calvin era di fronte a lei, alle spalle di Lara Lee, a cui stava spostando la sedia per farla alzare.
Abigail non aveva idea di dove dovesse andare né in che cosa dovesse aiutare Lara Lee, ma fu ben felice di alzarsi dal tavolo. “Sì…sì. Magari vado fuori a prendere un po’ d’aria. Ne avrei bisogno.”
“Magari, si.”
Calvin baciò la sorella prima di prendere la moglie per le mani e schioccarle un bacio sulla bocca.
I due si guardarono per un attimo. Qualcosa in Calvin era cambiato, pensò Abigail. Non sapeva cosa, né sapeva perché. Suo marito pareva leggermente più rilassato di prima, anche se nei suoi occhi azzurri era presente una tensione che forse, fra non molto, sarebbe esplosa.
La ragazza pensò che dovevano essere belli assieme; sarebbero stati ancora più belli, e in modo più completo, se non fossero stati due mostri – sì, sia lui che lei.
“A più tardi.”
“A più tardi.”
Abigail rivolse un sorriso agli ospiti prima di seguire la cognata fuori dalla porta.
 
Quando Lara Lee le spiegò in che cosa consistesse il problema (Billy Crash che trattava di nascosto con un negriero), Abigail si scusò e disse che avrebbe preferito fare un giro da sola intorno alla casa.
Tuttavia, non appena la cognata non fu pù in vista, la ragazza si incamminò in direzione del cancello principale.
Pensò che ci doveva essere qualcosa dietro, se Calvin le aveva volute tutte e due fuori dalla sala da pranzo. Affari, probabilmente. Forse qualche problema.
La ragazza si incamminò lungo il grande viale principale, oltre il cancello. Pensò che doveva essere una visione alquanto insolita, nel suo abito da sera e tutta agghindata, mentre camminava in mezzo ai campi tenendo alzati i lembi della gonna per non farli sporcare troppo.
 
Era una bella serata. Il cielo era stellato e l’aria respirabile.
In quel momento ad Abigail parve che tutto sarebbe andato bene, anche se al momento tutto stava andando storto.
Per qualche strana ragione le tornò il buonumore.
Calvin non sarebbe mai cambiato, e a Candyland la brutalità sarebbe continuata a regnare sovrana. Nonostante questo, Abigail decise che per il proprio figlio avrebbe sopportato tutto: avrebbe dovuto sopportare tutto, poiché per i figli si compiono ogni genere di sforzi e sacrifici. Sarebbe andata avanti per quel bambino, e lo avrebbe fatto a fianco di Calvin, perché così doveva essere.
Tutto si sistemerà. Tutto si sistema sempre.
 
*
 
La mente umana fa strane connessioni e in strani momenti.
Mentre tornava dal funerale del proprio marito, tenendo a braccetto la cognata, Abigail si ricordò di come il giorno prima aveva notato il contrasto tra la pelle abbronzata di Calvin e la sua quando lui aveva appoggiato la mano sulla sua spalla. Ora la carnagione di Abigail in meno di ventiquattr’ore era passata dall’essere bianca e rosea all’essere grigiastra.
 
Le ultime ventiquattr’ore erano state un’immenso buco nero, esattamente come le sue nozze, ma questa volta moltiplicato per dieci.
Abigail non era ancora riuscita a piangere. Avrebbe voluto farlo con tutte le sue forze, ma il suo cervello e i suoi nervi semplicemente non erano in funzione.
La ragazza si era solamente ammutolita e irrigidita; era come se il suo corpo fosse continuato a funzionare senza un’anima al proprio interno.
Abigail non pensava né riusciva a provare alcunchè: il suo corpo, che ora sentiva totalmente estraneo, si muoveva da solo, per inerzia, esattamente come nei sogni.
Per la ragazza tutto quello che era successo in fondo era solo un incubo: non poteva essere altrimenti; Calvin non poteva non esserci più. Era impossibile: l’uomo –suo marito- che fino alla sera prima aveva parlato, riso e scherzato, mangiato e bevuto, con cui lei aveva litigato, ora giaceva in una bara sotto terra.
E gli ultimi ricordi che le aveva lasciato erano stati il loro litigio, un bacio poco sincero, datole per rassicurare gli ospiti, e un’occhiata strana.
Era morto, ed era morto stupidamente. Per mano dei loro stessi ospiti. Non avrebbe mai visto il proprio figlio, né il bambino che di lì a poco sarebbe arrivato avrebbe conosciuto il proprio padre.
Ci sarebbero state solo due vedove circondate da schiavi in un’immensa piantagione.
 
Nella testa di Abigail rimbombava con prepotenza solo un deciso no. Un no alla realtà, e nient’altro. Il dolore e la disperazione non l’avevano ancora attaccata con tutte le loro forze, e la giovane vedova temeva il momento in cui ciò sarebbe successo.
 
Erano già entrati in casa- una casa che ora lei non riconosceva più, una casa dai muri schizzati di sangue come nella grottesca visione di un autore di racconti dell’orrore.
Abigail si piazzò vicino a Lara Lee con le braccia a penzoloni; sarebbe rimasta lì finchè qualcuno non la avesse esortata a spostarsi.
Sentì la cognata che chiedeva a Cora di preparare il caffè, e la domestica che si incamminava su per le scale con Sheba. Sì, c’era anche lei, con i capelli in perfetto ordine e un vestito dalla generosa scollatura. Ad Abigail non dava fastidio che fosse presente pure lei- non le dava più fastidio niente.
 
Ad un tratto, qualcuno ricominciò a cantare la canzone che aveva cantato Stephen fino allora. Qualcuno che evidentemente non era Stephen.
Tutte le teste si voltarono verso la rampa di scale.
“Sarete tutti insieme con Calvin tra non molto”, continuò la voce.
Billy Crash e gli altri uomini si fecerono avanti con cautela.
Abigail riconobbe la figura che sbucò dalla penombra e che ora li guardava dall’alto, e trattenne il fiato.
Ecco, questa è la prova. O è un incubo o sono io a essere impazzita.
“Solo un po’ prima di quanto vi aspettavate.”
 
Django sparò tre colpi, e abbattè tre uomini.
Lara Lee ed Abigail gridarono, abbracciandosi. La ragazza nascose il viso nell’incavo del collo della cognata, sentendo Billy Crash che continuava a dimenarsi e a gemere.
“Billy Crash, dov’eravamo? Oh… sì, giusto. L’ultima volta che ti ho visto stavi con le mani sul mio…”
Django lasciò finire la frase alla propria pistola.
Abigail si rifiutò di guardare, ma intuì che il colpo non aveva ucciso Crash, dati gli ululati animaleschi che egli emetteva. Lara Lee strillava.
Django! Sei un negro figlio di puttana!”
“La d è muta, bifolco.”
Un altro colpo, e Crash non si sentì più.
Lara Lee ed Abigail continuavano a stringersi, anche se la vedova Candie si limitava a singhiozzare silenziosamente.
 
Ora. A tutta la gente nera io consiglio di scappare da tutta la gente bianca. Tu no, Stephen. Tu stai bene dove stai.”
Abigail in quel momento seppe di stare per morire. Stranamente, non aveva timore. Quello che aveva visto fino a quel momento era sicuramente peggio di quello che stava per succedere. Preferiva un colpo alla testa che la pazzia eterna.
Pensò solamente che ciò non sarebbe stato giusto verso il suo bambino, ma in verità non ebbe tempo di pensarci.
Ai suoi piedi si formò un pozza di liquido trasparente, ed Abigail indietreggiò, boccheggiando e tenendosi il ventre.
“No…” Gemette, appoggiandosi allo stipite della porta del salotto.
L’attenzione dei presenti si spostò su di lei. La ragazza gemette ancora un paio di volte, strizzando gli occhi, prima che Django riaprisse bocca.
“Cora, porta la vedova Candie fuori di qui. Andate via, avanti.”
Un attimo dopo, Abigail sentì la forte mano della domestica prenderla per un braccio. “Madame Candie, andiamo. Ci siamo io e Sheba.”
Allora dopotutto non morirò qui e adesso? O forse sono già morta e questa è la voce di un angelo?
 
Quando Abigail alzò la testa per chiamare Lara Lee e dirle di venire con lei, Cora e Sheba, reggendola ognuna per ogni lato, l’avevano già scortata fuori dalla casa.
La giovane voltò la testa in direzione della porta.
“Lara Lee…”
Un altro colpo.
Lara Lee!” Urlò, mentre le due donne la trascinavano per il viale, e la porta d’ingresso si allontanava dalla sua vista.
 
*

Contro ogni aspettativa, Calvin aveva avuto ragione.
Il bambino era un maschio.
 
“Povero bambino mio…” Abigail riusciva a parlare, pur se con molta fatica. “Povero orfano.”
“Non è un orfano”, ribattè Hildi. L’unica superstite bianca di Candyland riusciva a intravedere lei e Cora che si davano da fare attorno al neonato, il quale ancora piangeva. “Avrà sua madre. E sembra sano. È nato prima del previsto, ma sembra sano. Starà bene.”
 
Abigail restò immobile, a gambe divaricate. Aveva i capelli appicciacati al viso, imperlato di sudore, e il vestito nero ancora addosso.
 
Guardò verso il cielo stellato, e vide una spirale.
Il suo litigio con Calvin, la cena, la sparatoria, la morte del marito, la carneficina, casa Candie che veniva incenerita, lei che partoriva in un campo facendosi aiutare da due schiave. Era tutto precipitato vorticosamente, sempre più velocemente, e ora erano arrivati alla fine, al punto dove tutto si bloccava.
Di quello che c’era stato fino al giorno prima non rimaneva più assolutamente nulla. In poche ore, tutta la sua esistenza era stata smantellata.
E poi non sarebbe dovuta andare fuori di testa.
 
“Non dovrà sapere chi erano i suoi genitori…” Solo un mignolo di Abigail si mosse mentre lei farfugliava. “Non dovrà sapere chi è.”
 
Hildi e Cora si guardarono, chinate su di lei. Cora porse il neonato alla ragazza.
“Madame Candie, guardate…”
Abigail, che a malapena respirava, fece lo sforzo di guardare suo figlio. Con due dita accarezzò quell’essere così minuscolo, così irreale, mentre gli occhi, per l’ultima volta, le si riempivano di lacrime.
“Ethan…” Bisbigliò, facendo cadere la mano di fianco alla propria testa. “Si chiama Ethan…”
Calvin non aveva mai nominato quel nome.
 
Pochi minuti dopo, Cora si copriva la bocca, guardando con orrore la mano tremante di Hildi chiudere gli occhi alla signora Candie.

 
* * *
 
“Puoi dispiacerti quanto vuoi Django, ma non puoi assumerti delle colpe che non hai. Non hai niente di cui pentirti, niente di cui vergognarti.”
“Non prendertela, Hildi, ma Dio sa certe cose meglio di te.”
Broomhilda inarca le sopracciglia mentre accarezza il viso del marito. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, abbiamo fatto il nostro dovere di umani.”
L’uomo scuote la testa. Broomhilda l’ha visto molto raramente così scosso. Vuol dire che suo marito ha un’anima, nonostante il muro invisibile che interpone tra sé e le altre persone.
“E’ stato lo spavento, lo shock… Dovevo immaginarmi che sarebbe accaduto.”
“Shhh.” Broomhilda appoggia la guancia sulla testa del marito.
 
Si chiede quanto sia convinta delle proprie parole.
Si ricorda come lei e Django litigarono sul da farsi. Una coppia di colore con un bambino neonato bianco.
Di come rubarono del latte per poi raggiungere la cittadina più vicina, nel cuore della notte.
Un carboncino, e il retro di un piccolo manifesto di carta. Su un pezzo di quel manifesto, che poi infilarono fra le fasce con cui avevano avvolto il neonato, scrissero ETHAN.
Il villaggio consisteva in una sola strada fiancheggiata da case che terminava con una piccola chiesa. Django e Broomhilda individuarono quella che doveva essere la casa del reverendo.
Nemmeno un lume in tutto il luogo sembrava acceso.
La donna avrebbe voluto bussare alla porta, dare una spiegazione, e andarsene sapendo di aver lasciato la creatura in buone mani.
Ma era il 1859, erano in Mississippi, e loro due erano due neri, armati e a cavallo. Che spiegazione avrebbero potuto dare? Con che tipo di persone si sarebbero trovati faccia a faccia?
Broomhilda non ce la fece, e mandò Django a fare quel che si doveva fare: lasciare il bambino di fronte alla porta della casa del reverendo, bussare con violenza, e scappare.
Ethan iniziò a piangere non appena fu messo a terra, anche se era avvolto in vari strati di tessuto pesante. Un cane cminciò a latrare.
Ben nascosti fra gli alberi, Django e Broomhilda aspettarono, ma non dovettero aspettare molto: un lume si accese, poi due; una figura uscì fuori dalla casa, e prese in braccio il fagotto che trovò sull’uscio; arrivò un’altra figura. In un’altra casa si accese un lume, e ancora un figura uscì in strada. Attorno al neonato infine si formò un gruppo di cinque persone.
Fu l’ultima cosa che videro. Django trascinò via la moglie per un braccio, via da quella cittadina, via da Chickasaw County, via dal Mississippi.
 
Esattamente come quella notte di venticinque anni fa, Broomhilda si asciuga subito le lacrime.
Esattamente come ventincinque anni fa, sta piangendo per qualcuno per cui vorrebbe che non gliene importasse: il figlio del suo carnefice.
Ma come puo’ incolpare  un neonato per quello che era il padre? Il male non scorre nelle vene, al contrario di quello che dicono molti. Un bambino è un bambino, e un bambino è sempre un innocente. La madre non era forse una santa, ma aveva una coscienza, e Broomhilda non se lo dimenticherà mai.
 
Pensa automaticamente ai suoi quattro figli: sono tutti fuori a lavorare o a cercare lavoro. Sono alti, sani e, forse cosa più importante di tutte, sempre sorridenti.
“Vorrei sapere dov’è. Cosa fa. Che persona è. Se è ancora vivo.” Django mormora, accarezzandole la schiena.
“Non c’è modo di scoprirlo.”
L’uomo sospira.
“Ma noi crediamo in Dio, Django, e questo a me basta. Mi piace pensare che a quel bambino Dio abbia riservato una sorte diversa da quella dei genitori. Una bella sorte.”
 
I due rimangono abbracciati nella loro minuscola cucina, nella loro piccola casa di legno circondata da colline colline e altre minuscole case di legno.
Gli inverni nel Nebraska sono rigidi, ma a Broomhilda va bene così. Ha sofferto troppo il caldo durante la sua vita.
 

 
* * *
 
Centinaia di miglia ad est, Ethan Church, insegnante di professione, sta dando una lezione a dei bambini di colore in un quartiere povero di Baltimora.
È un bell’uomo di venticinque anni, alto, dai capelli e dagli occhi scuri e con due sopracciglia insolitamente spesse e ben arcuate.
Oggi è di buonumore: si è appena fidanzato.
Non ha un passato roseo, tuttavia non se ne vergogna: pensa di vivere in un bel presente e di avere un bel futuro davanti a sé, ed è solo questo, per lui, che conta.
 
Da quando si è trasferito a Baltimora, Ethan torna molto raramente in Mississippi, e sa che con tutta probabilità ora che ha affitato due stanze per i genitori adottivi in città e che sta per sposarsi, non tornerà più nel Sud.
Gli capita molto raramente di pensare a chi fossero i suoi veri genitori, a che aspetto avessero, al perché lo abbiano abbandonato. Non ne ha mai avuto il tempo, né la forza. Cerca di non farsi troppe domande, di mettere un freno alla propria curiosità. Ma quando non ci riesce, quando l’amarezza e un senso di vuoto interiore prendono il sopravvento, chiude gli occhi e pensa all’azzurro cielo del Mississippi, e almeno puo’ essere certo che le persone che lo hanno messo al mondo hanno visto quello stesso cielo.

 
 
Fine
 
 
 
 
Se siete arrivati fino alla fine, innanzitutto sento il dovere di ringraziarvi! Colgo l’occasione nel chiedervi di lasciarmi una recensione, per me significherebbe tutto.
 
Come al solito, da questa piccola fanfiction non ho avuto grosse pretese, ho solamente voluto dare sfogo all’immaginazione dopo che mi sono chiesta come mai Calvin Candie non fosse sposato (avrebbe dovuto lasciare Candyland a qualcuno in eredità, immagino).
 
Spero che almeno qualcuno l’abbia apprezzata.
 
Grazie e a presto!
Mina
 
  
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