Between the Hungry
Tra sangue e caos
Aprii gli
occhi a fatica,con il sole ancora tiepido di metà mattina
che filtrava dalle
tende socchiuse. Avvertii il lenzuolo avvolto sulla pelle nuda e mi
girai verso
lui,che dormiva con quell’aria di pace e serenità
sul volto. C’era un clima
così calmo e piacevole,era come se il mondo intero ci avesse
escluso per un
momento da quella folle corsa,come se il tempo ci avesse concesso una
pausa.
Accarezzai i capelli neri ed arruffati di Josh e lui aprì
appena appena gli
occhi. Mi guardò,sorrise,e riaffondò la testa nel
cuscino.
«Che
ore
sono?» biascicò contro la federa.
Gettai
un’occhiata alla sveglia sul comodino.
«Le 9
: 30. Sarebbe ora di alzarsi».
Josh si
lasciò scappare un lamento.
Facemmo
colazione con del caffè,qualche toast e delle uova
strapazzate,poi lui si fece
una doccia,si preparò e scappò
nell’officina dello zio. Io mi buttai a peso
morto sul letto,ancora stanca,priva di forze,priva di cose da fare. Non
avevo
più un lavoro e ,di conseguenza, più nulla che mi
tenesse occupata. Mandy mi
aveva fatto un paio di chiamate il pomeriggio precedente,ma non avevo
risposto
e dopo un po’ si era stancata di tentare. L’avrei
fatto anch’io : avrei smesso
anch’io di chiamare perché in fondo avrei saputo
di non aver proprio nulla di
cui scusarmi. Se avessi avuto l’occasione di tenermi stretto
quello
schifosissimo impiego,non l’avrei di sicuro sprecata e a
Mandy serviva,così
come era servito anche a me. Ci avevo pensato a lungo quella
notte,prima di
riuscire a prendere sonno : di cosa nella mia vita sarei andata
fiera?Cos’era
mio?Quali erano le certezze di cui non avrei mai dubitato?Era un
argomento
piuttosto impegnativo,e forse proprio per quel motivo avevo impiegato
così
tanto ad addormentarmi. Ma era lecito chiederselo,no?Ero stata appena
licenziata e mi ritrovavo senza nulla…senza obbiettivi,senza
sogni,senza niente
da fare se non oziare su un divano mangiando patatine e guardando la
tv. Non
era quella la vita che volevo ; cavolo,io ero Santana Lopez!La regina
del
McKinley,ex capitano delle cheerios,ex studentessa non proprio
modello,ma temuta
ed invidiata da tutti. Era quella la fine che una tipa tosta come me
meritava?Uno squallido impiego poi perso piuttosto in fretta,una vita
monotona
e un senso di insoddisfazione che metteva il magone?No,non ci stavo!
Forse il
licenziamento era stato un segno,un indizio che mi avrebbe condotta a
qualcosa
o a qualcuno che avrebbe fatto parte del mio destino. Così
avevo preso una
decisione : presto avrei lasciato Lima,magari anche l’Ohio.
Sarei andata in
posti come New York o Los Angeles e avrei tentato la fortuna,anche se
chissà
con quali soldi. Insomma,ero una brava cantante,una ballerina
accettabile,e una
bella ragazza. Avrei potuto provare a recitare,mi sembrava una gran
bella idea.
Avrei portato Josh con me,ci saremmo ambientati e avremmo vissuto come
una
vera e propria coppia di innamorati. Non potevo continuare a restare
lì,in
quella merda di situazione,impassibile,aspettando che un nuovo e
disgustoso
lavoro mi cadesse dal cielo,e continuare la mia vita in quel modo.
Avevo diciannove
anni,porca miseria! Diciannove anni ed una vita noiosa come quella di
un
vecchio di settanta. Mi ci sentivo un po’ come una vecchia,un
po’ ….un po’
morta,spenta,inattiva. Non era quello che volevo e sapevo che non era
quello
che volevano i miei genitori per me. Ce l’avrei fatta,certo
che ce l’avrei
fatta!Sarei andata a New York e avrei intrapreso una professione che
potesse
esser chiamata tale ; avrei ricominciato a vivere e avrei continuato ad
avere al
mio fianco una delle persone più importanti della mia vita :
Josh.
*
«Sto
tornando. Che c’è?» chiesi scocciata a
mia madre,continuando a tenere gli occhi
fissi sulla strada.
«Tuo
fratello,ecco che c’è!» urlò
lei esasperata.
«Cos’è
successo?»
Ero
allarmata. La voce di mia madre mi allarmava,così come la
sua chiamata. Lei non era una tipa particolarmente tecnologica,se si
escludeva l’uso del suo
amato televisore. Se poteva evitare di adoperare un aggeggio come il
cellulare,l’avrebbe fatto.
«Mi
hanno
chiamata dalla scuola,si è lussato una spalla giocando a
basket!»
«Merda»
borbottai.
«Puoi
andare
a prenderlo e portarlo in ospedale?Io vi raggiungo
lì» .
«Certo,nessun
problema».
Riagganciai e frenai di colpo effettuando poi una delle mie inversioni ad U un po’ folli. Lucas non riusciva a tenersi fuori dai guai,non c’era mai riuscito. A sette anni si era spaccato un incisivo giocando a calcio,a nove si era rotto un dito litigando con un altro ragazzino più grande di lui,ad undici si era procurato un taglio sulla mano da tre punti cercando di rompere un pezzo di vetro con un pugno,poi a quindici si era slogato una caviglia,e infine quello. Un ragazzino molto fortunato,mi dissi tra me e me. Il vero problema era che non riusciva a stare fermo,non riusciva a riposare come ero stata costretta a fare io in quei giorni,non riusciva a stare chiuso in casa. Dire che fosse iperattivo sarebbe stato minimizzare.
Nel giro di
cinque minuti raggiunsi il Lima Hospital,ma c’era qualcosa di
strano : era
pieno di macchine. Non avevo mai visto quel parcheggio così
colmo prima
di allora ; era come se la metà degli abitanti di
Lima si fosse recata lì per una
qualche urgenza. Allucinante,era a dir poco allucinante. Continuavo a
girare in
cerca di un parcheggio con mio fratello che dolorante si lamentava al
mio
fianco,ma di posto non ce n’era neppure volendolo. Girai a
vuoto a lungo,avevo
fretta,cominciavo ad entrare nel panico.
«Dio,come
fa
male!» esclamò singhiozzando Lucas.
«Sta’
tranquillo,» lo rassicurai «presto ti sistemeranno
la spalla».
«Sbrigati,maledizione…è
dolorosissimo!»
Gli occhi
impazzivano alla ricerca di uno spiazzo vuoto,ma sembrava impossibile
trovarlo.
Dopo qualche altro minuto,e un ultimo sofferente lamento di mio
fratello,decisi
di lasciare la macchina dove capitasse. Quanto ci sarebbe voluto per
sistemare
una lussazione?Non potevo continuare a girare a vuoto. Lasciai
l’auto dietro ad
una BMW dall’aspetto lussuoso e curato,e scesi alla svelta.
«Muoviamoci!»
Camminavamo
quasi correndo,inseguiti da una sorta di agitazione inspiegabile,di
ansia,di
paura. Tutte quelle macchine,i lamenti di mio
fratello…c’era un’atmosfera
tetra,strana. D’un tratto i miei pensieri corsero a mia madre
; chissà se era
riuscita a trovare un parcheggio,chissà se era
già là. Avevo impiegato più
tempo per cercare una piazza vuota,che per andare a riprendere mio
fratello da
scuola e portarlo in ospedale. Forse era dentro che ci aspettava
ansiosa,chiedendosi dove fossimo finiti.
Aprii la
porta dell’edificio con mio fratello al seguito che piangeva
tenendosi una mano
sulla spalla sinistra.
«Resisti,adesso
chiamo un dottore» dissi,cercando di tranquillizzarlo.
Era
fatta,ormai mancava poco e la situazione si sarebbe risolta.
Accompagnai Lucas
in sala d’attesa e mi accorsi che era piena di gente. Forse
c’erano quaranta
persone,forse anche cinquanta ; non c’era spazio per sedere e
probabilmente
neppure per respirare. Che diavolo stava succedendo?! Si sentiva solo
il suono
del tossire,di pianti disperati,urla,lamenti,cose che facevano
accapponare la
pelle. La visione era molto peggio : alcune persone erano sedute sul
pavimento,con il busto poggiato al muro,la pelle diafana e velata da
gocce di
sudore,le occhiaie marcate e la bocca aperta,come se stessero cercando
disperatamente di respirare.
«Mi ha
morso!» urlava una signora pallida,agitandosi verso un altro
gruppetto di
persone «Il mio vicino mi ha morso!»
Sbarrai gli
occhi. Non capivo il senso delle sue parole,non capivo il senso di quel
“mi ha
morso”.
«Santana,dove
sono i dottori?Perché c’è tutta questa
gente qui?» mi chiese mio fratello,con
un filo di voce rauca e disperata,che aveva perso improvvisamente il
colorito.
Avrei voluto
rispondergli qualcosa di sensato,ma non sapevo cosa dire,non sapevo
darmi
spiegazioni. Avevo solo un gran brutto presentimento,uno di quelli che
ti
esplodono dentro e che spingono le gambe a muoversi veloci,velocissime
per
aiutarti a sopravvivere.
«Non
lo so».
Tutto quel
groviglio di gente mi inquietava,mi metteva una gran paura e non potevo
fare a
meno di gettare una qualche occhiata disperata ai bambini che
stringevano le
mani dei propri genitori moribondi a terra,o agli anziani che
stringevano un
pezzo di stoffa insanguinata attorno ad un braccio o ad una gamba.
C’era però
una cosa che tutti avevano in comune : delle ferite. Presi in
mano il
cellulare e composi il numero di mia madre.
«E’
tutto
ok?Sto arrivando. Come sta Lucas?»
«No!»
esclamai immediatamente «Torna a casa,mi hai
capita?!»
«Santana,che
succede?» domandò con la voce preoccupata come non
l’avevo mai ascoltata.
«Non
venire
qui!E’ pieno di gente,pieno come non puoi nemmeno immaginare.
Ci penso io,ok?Torna
a casa e aspettaci lì».
«Non
se ne
parla!» rispose lei alterata.
Respirai a
fondo,ma la mia mano stringeva il telefono così forte che
avrebbe potuto
romperlo. Volsi lo sguardo a Lucas che con gli occhi pieni di lacrime
mi guardava
sofferente,preoccupato,pieno di paura.
«Non
ti
azzardare a venire!» urlai con rabbia,sopraffacendo in parte
i lamenti rumorosi
che assediavano la sala «Non devi venire!Hai sentito?Non devi
venire» ripetei
furiosa, scandendo bene le parole.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio,e allora mi preoccupai ancora di
più.
«Va
bene»
rispose la donna arresa «vi aspetto a casa».
Era rimasta
senza parole. Avevo alzato la voce in modo esagerato,ma la rabbia mi
era esplosa
in gola,incontrollabile e devastante. Forse non era rabbia,forse
era…forse era
disperazione,paura. Lucas piangeva appoggiato al muro del corridoio
adiacente
alla sala d’attesa,ed i suoi occhi mi chiedevano aiuto ;
stava soffrendo.
«Si
puoi
sapere dove cazzo sono i dottori?!Si può sapere che diavolo
succede?!» strillai
con quanta più forza avessi.
Le persone
meno malandate e sofferenti si voltarono verso di me,e la cosa strana
fu che mi
compatirono con lo sguardo. Loro compativano me,quando sarebbe dovuto
essere il
contrario. Una donna con le lacrime agli occhi,ma priva di ferite,mi si
avvicinò con l’aria afflitta ed una mano sul petto.
«Io e
mio marito siamo qui da due ore» mi disse,aspettandosi che
facessi la domanda
giusta.
«Che
cosa è
successo?» la mia voce tremava,era debole,così
come le mie gambe.
«Eddy
è stato aggredito a lavoro.» rispose piangendo e
portandosi le mani sui capelli
biondi ed arruffati «lo ha morso un uomo!Gli ha staccato
parte del polpaccio e
nessuno ci assiste!Sta morendo…mio marito sta morendo e
nessuno ci assiste!»
urlò tra i singhiozzi e la disperazione.
Dio,mi
sentivo male. Mi sentii girare la testa e mancare le forze. Ero
impietrita.
«L-l-lo
ha
m-morso?»
Mi fece
cenno di sì con la testa.
«Tutti
qui
sono stati morsi,ed ora hanno la febbre. Mio marito dice che non sono
dei veri
uomini,ma che sono una specie di mostri e che hanno cercato di
divorarlo. Lui
ha provato a difendersi,ma sarebbe morto se non fosse intervenuto un
suo
collega. Dice che gli ha sparato un paio di colpi di pistola sulla
schiena,ma
quella cosa non moriva,così ha iniziato a prenderlo a pugni
sul cranio e l’ha
allontanata da Eddy».
Scossi la
testa scioccata «n-non è po-possibile».
«Perché
dovrei mentire?» mi chiese lei piangendo,con la voce acuta ed
interrotta dai
singhiozzi «Presto morirà!Presto
morirà!» urlò gettandosi con le
ginocchia a
terra, impazzendo dal dolore.
Spostai gli
occhi dalla donna ; quello era l’unico movimento che ero in
grado di fare.
Sentivo i pianti,le urla,tutto creava un gran frastuono,un caos nocivo
che
faceva tremare le gambe,che trasformava le ossa in gelatina. Il cuore
mi
scoppiava nel petto,le tempie mi pulsavano,mi faceva male lo stomaco.
Ma fu un
attimo prima che il vero disastro avvenisse,un piccolissimo e terribile
attimo.
«E’
morto!O
mio Dio!Qualcuno mi aiuti!Qualcuno mi aiuti!»
gridò una voce femminile alla mia
sinistra,accanto il muro.
Mi voltai di
scatto verso Lucas,che continuava a piangere forse più per
la paura che per il
dolore,e gli ordinai severamente di non muoversi di lì. Poi
trovai la forza,non
so come,di avvicinarmi a quella voce la cui fonte era coperta da un
gruppo di
persone. I piedi neppure volevano muoversi,così come le
gambe. Sudavo,sudavo
freddo e pensavo al mio cuore dai battiti impazziti. Con cautela mi
feci avanti
e trovai uno spazietto in cui infilarmi per dare un’occhiata.
C’era una donna
dai capelli rossi che piangeva sul corpo di un signore che
era privo di vita. Il petto dell’uomo non si muoveva,la pelle
era morta,spenta
e gli occhi erano chiusi.
«Aiutatemi!»
gridò ancora la ragazza,scuotendo il cadavere inerme
«Qualcuno faccia qualcosa!»
Soltanto
dopo che la rossa si voltò in cerca di uno sguardo
rassicurante,disposto ad
assecondare la sua follia,mi accorsi di chi si trattasse : era Mandy.
In quel
momento il mio cuore si strinse e le lacrime cominciarono ad
uscire,come se
avessero avuto bisogno,dopo tanto,di tornare ad avere vita propria.
Provai a
gridare il nome della ragazza una volta,poi una seconda,ma la voce
risuonava
sorda e priva di consistenza. Quando decisi di avvicinarmi per
parlarle,vidi
qualcosa che mi raggelò il sangue nelle vene,qualcosa di
mostruoso,di disumano.
L’uomo aprì gli occhi vitrei,sembrò
scrutare il sorriso umido della figlia,poi
le afferrò un braccio e si portò la carne alla
bocca. Affondò i denti e ne staccò
una grossa porzione con la stessa facilità con quale si
taglia il burro. Le
urla si levarono,il sangue cominciò ad uscire a fiotti,e in
breve l’uomo fu
sopra la ragazza e continuò a divorare il
braccio,indisturbato. Cercai di
respirare più e più volte,ma l’ossigeno
pareva essersi rarefatto e il mio
cervello era andato in tilt. Ero ferma,immobile,ed osservavo il mostro
divorare
quella che forse era stata la mia unica amica da dopo il diploma. Non
la
fissavo perché volessi fissarla,ma perché non ero
in grado di spostare lo
sguardo,di muovermi,e quindi ero in trappola. Non sentivo nemmeno i
rumori ; forse c’erano urla,la gente correva,scappava,pur
sapendo in fondo che
non esisteva fuga. Io fissavo quel che restava di Mandy,ma intanto la
situazione
degenerava.
«Dobbiamo
andarcene!Andiamocene Santana!» gridava mio fratello
disperato,scuotendomi per
un braccio.
Ma io non
riuscivo a muovermi,non potevo muovermi.
«Dall’ingresso
stanno arrivando altre di quelle cose!Ti prego!Andiamocene!»
La sua paura fu l’unica cosa che riuscì a sbloccarmi. Lo guardai per qualche secondo,mentre tornavo a prendere coscienza del resto del mondo,battei le palpebre un paio di volte e feci a stento qualche passo,trascinata per il braccio. Mentre percorrevamo il corridoio mi voltai indietro una sola volta,e quella bastò. C’erano delle sagome in fondo che camminavano trascinandosi,e i loro lamenti annientavano la poca lucidità che mi era rimasta. Erano forse in cinque,o di più,non avevo neppure la capacità di contarli ; erano lenti,con parti di carne mancanti,gli occhi vitrei e la pelle dello stesso colore del marcio,ma cosa più importante : erano affamati,erano davvero affamati.
Salve a tutti!
Vi chiedo scusa se non mi sono presentata nello scorso capitolo,ma ho pensato che forse sarebbe stato meglio farlo in questo (è stupido,lo so). Sono "writinglove" e ho finalmente deciso dopo tempo di dar vita ad un qualcosa che potesse essere frutto di una folle ispirazione. 'Beetween the Hungry" nasce da una mia grande passione per le serie televise,in particolare quelle di The Walking Dead e Glee,e quella invece per la scrittura. Dunque,con questo mix un po' azzardato, mi presento a tutti voi lettori assieme alla viva speranza che questo piccolo lavoro di una piccola persona possa essere di vostro gradimento.
Dopo questo palloso discorso (è vero,sono pesante) vi dico solo un'ultima cosa : al prossimo capitolo! (spero)