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Autore: Etie    29/06/2008    1 recensioni
"Sorrido, mettendomi in spalla la custodia con la chitarra e chiudendo lo sportello con l'altra mano. Sono allegro, dopotutto. Nonostante la scuola, nonostante sia stato al centro dell'attenzione di un esercito per tutta la giornata, sento di stare bene: è incredibile quanto Tj e gli altri influenzino il mio umore..."
Nonostante il peso dell'improvviso successo degli Angeli, la vita di Hero scorre con tranquillità e leggerezza. Ma cosa succede se la popolarità riporta a galla le ombre del passato?
Seconda one-shot dedicata a Hero, l'inclemente capitano degli angeli più irriverenti che si siano mai visti!
Genere: Generale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Hero'
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Hero 2
Come promesso, sono tornata con una nuova storia di Hero. Ok, è un pochino più lunga della precedente, ma la sostanza e l'ironia sono sempre quelle.
Volevo spendere solo qualche parola per ringraziare di nuovo di cuore tutti coloro che hanno letto e che leggeranno le mie storie. Un bacio e un saluto particolare a chi ha recensito e a chi ha intenzione di farlo. Scusate, ma con le one-shot non so regolarmi per i ringraziamenti, quindi...
Beh, ora vi lascio al motivo per cui avete aperto questa pagina. Buona lettura!
-yuna-


Hero

La vita da campioni













Oggi, due giorni dopo la vittoria ai nazionali, al ritorno - nostro malgrado - a scuola, l’accoglienza riservataci è anche più imbarazzante di quanto ci aspettassimo: esattamente come Daniel ci aveva assicurato. Le cheerleaders ballano per noi, accompagnate dalla musica della banda studentesca, i prof ci applaudono, gli studenti - nessuno escluso - urlano in coro il nostro soprannome di “Angeli”, agitando gli striscioni scritti per noi, quasi fossimo cantanti pop in mezzo a un branco di fan sfegatate. La cosa peggiore è il direttore, immobile davanti l’entrata, che ci aspetta impaziente. Ognuno di noi è suo ospite fisso in presidenza - cosa di cui gli altri vanno abbastanza fieri - al punto da arrivare quasi a chiamarlo per nome, non fosse che ha un nome a dir poco osceno: Bob. E non è un diminutivo. Arrivando con il pullman scolastico, come nostra abitudine fin dai tempi più remoti, abbiamo avuto modo di avere accanto anche le nostre cheerleaders, in versione informale, rigorosamente in lotta con le cheerleaders della scuola. Tutti noi sappiamo che lo scontro è questione di attimi. Così, troppo cavallerescamente per gente come noi - eh, già: ci sono dentro anch’io, ormai - ci incamminiamo verso il direttore, rigidi come robot, per evitare la “rissa”. Sorprendentemente, quando gli arriviamo di fronte, Bob ci mostra il suo sorriso più affabile - per quanto possa esserlo il sorriso di un preside in vesti ufficiali - e a braccia aperte mi viene incontro, abbracciandomi calorosamente - anche in questo caso la nota di prima è sempre valida...- Beh, anche se non gioco quasi mai, sono pur sempre il capitano: a me spettano gli onori più grandi e, a volte, anche gli oneri più spiacevoli. Il concetto di diritti e doveri che mia madre ha sempre cercato di mettermi in testa. Una delle poche cose che ho sempre cercato di non imparare da lei.
“Congratulazioni, Angeli!” ci dice, allontanandosi di un passo da me. Nel momento stesso in cui la prima sillaba viene proferita, l’intera scuola ammutolisce, pronta a farsi due risate. O, almeno, questo è l’uso degli “Angeli”.
“Siete l’orgoglio di questa scuola!”
Come da copione, Daniel è il primo a cedere: cerca inutilmente di nascondersi dietro la grande stazza del fratello, ma è inutile, lo abbiamo beccato. Tutti sappiamo che soffrirà anche più del solito, nell’assolvere la sua penitenza: quel giorno, non gliela daremo vinta con le solite venti flessioni, ormai troppo facili anche per lui.
Comunque, ho deciso di omettere le insignificanti ciance di Bob, per passare direttamente al succo. Il direttore ci ha lasciato, al suono della campana, con in mano una targa di platino, un omaggio della scuola ai suoi nuovi campioni. Con lui lì davanti, tutti si sono dileguati in fretta verso le loro classi, complimentandosi con noi e salutandoci al passarci accanto. Alcuni ci hanno toccato come fossimo reliquie, mentre le nostre ragazze pon-pon si atteggiavano, lanciando sguardi di ghiaccio alle loro acerrime rivali. Entrando per ultimi - un’altra nostra tradizione che siamo felici di continuare ad onorare - salutiamo le ragazze e ci incamminiamo verso gli armadietti. Tj continua ad esaminare la targa ingenuamente offertaci dal preside, cercando di valutarne anche i dettagli. Se la rigira ancora un paio di volte nelle mani, prima di lanciarla ad Alex, il nostro esperto in campo di ricettazioni pulite.
“Che dici, possiamo guadagnarci qualcosa?”
Apro il mio armadietto a suon di pugni - terza tradizione scolastica - scuotendo la testa con fare rassegnato.
Alex emette un sonoro fischio, rispondendo con sarcasmo: “Come no: saranno almeno cinque dollari a testa!” Infilando la targa nel suo zaino, quasi dimentica di evitare il solito leggero pugno di rimprovero che Tj gli indirizza. Se c’è una cosa che Tj odia - tutti lo sanno - è il sarcasmo. E di sarcasmo Alex ne ha sempre da vendere...
Chiudo il mio armadietto senza mostrare alcuna pietà per quell’inutile ammasso di ferraglia arrugginita, con in mano i libri per la lezione di spagnolo. Il sobbalzo che il gruppo fa all’indietro nel notarli è quasi simultaneo.
“Frequenti ancora il corso con quel pazzo di Smith?” chiede Mike, impressionato.
“Smith?” gli fa eco Ruby, ancor più sorpreso “Hero, ti è dato di volta il cervello? Lo sai che quello non può vedere né te, né chiunque altro con un briciolo di talento sportivo nel raggio di tutto lo stato! Hai notato che era l’unico che mancava all’appello fuori?”
“Avevi detto che avresti mollato” commenta Tj, neutro.
“Beh, ci ho ripensato: non ho intenzione di dargliela vinta e di certo non sposterò tutte le mie lezioni per poter frequentare un corso con un altro professore!”
Daniel scuote la testa, allontanandosi subito dopo.
“Ehi, dove vai così di corsa, tu?” gli chiede Tj, sospettoso.
“Ad algebra!” Daniel risponde come fosse la cosa più scontata del mondo.
Ad algebra? Così di corsa? Di certo c’è di mezzo una ragazza...
Seguendo quell’esempio, ad uno ad uno i ragazzi si dileguano, raggiungendo svogliatamente le loro aule. Io li imito e mentre cerco di far passare il tempo fino all’ora di pranzo svolgendo i compiti che avrei dovuto fare quel pomeriggio - per evitare di andare al parco a vedere i miei amici giocare? Ma per chi mi hanno preso? - quasi mi prende un colpo quando sento il caro Smith fare il mio nome. Meglio, il mio cognome. Cadendo dalle nuvole, torno a concentrarmi sulla lezione, visto anche che ormai ho finito i compiti di algebra e anche quelli di inglese.
All’ora di pranzo, rivedere la scena pietosa di quella mattina sembra inevitabile: mentre mi incammino velocemente verso il nostro solito tavolo, dove tutti gli altri sono già seduti, alcune delle cheerleaders della scuola, vestite con la loro divisa che sembra venga cucita loro addosso al momento del taglio del cordone ombelicale, mi vengono incontro, sorridendomi in un modo che non mi piace. Stanno per chiedermi di uscire, me lo sento.
“Ehi, Hero” mi fa la più alta e anoressica tra le due “sai, mi stavo chiedendo se ti va di uscire con me sabato sera.”
Appunto.
Ma perché vogliono essere rifiutate? Cos’è, si divertono? Sanno perfettamente che è Daniel quello che sbava loro dietro, non io.
...Qual è il modo più gentile per slittare l’invito? Ah, già: la mia solita vecchia scusa...
“Mi piacerebbe molto...ehm...” mi rendo conto solo ora di non sapere neanche il suo nome.
“Ariel” suggerisce lei.
“Ariel. Mi dispiace, ma vado ad una partita sabato sera.”
“Degli Angeli?” chiede l’altra, emozionata.
“No” rispondo secco. “la squadra di un mio amico.”
“Ah”.
Gelo totale.
Finalmente!
“Beh, sarà per un’altra volta...” continua Ariel, sorridendo.
“Già, magari un’altra volta.” Magari tra cent’anni.
Senza degnarle di un altro sguardo, torno sui miei passi e mi siedo a bordo tavolo, vicino a Tj, di fronte a Daniel.
“Ehi” attacca subito “erano Miriam e Ariel quelle?”
Annuisco, stappando la mia lattina ghiacciata. Incredibile quanto abbia bisogno di liquidi per poter affrontare il duo Daniel-ragazze...
“Che ti hanno detto?”
Mi volto a guardare Tj in cerca di aiuto, ma il suo lieve sorriso mi fa capire che non ha intenzione di risparmiarmi l’interrogatorio. Sospiro, rassegnato, prima di rispondere.
“Quella alta mi ha chiesto di uscire sabato sera.”
“Ariel?”
“Ariel.”
“E tu, naturalmente, le hai risposto...”
“...che avevo già un impegno.”
“Ed è così?”
“No.”
Ci siamo: sta per partire la predica.
“Oh, Hero! Ma cosa devo fare con te? Possibile che rifiuti sempre tutti gli inviti che ti fanno? La tua vita sentimentale è pari a quella di un secchione! Che mi tocca vedere!?”
Tj ride, mentre sento tutto il tavolo ammutolirsi per interessarsi alla conversazione.
“Ha di nuovo rifiutato un invito?” chiede Mark e Daniel gli risponde con un tono di voce quasi stridulo. “Sì.”
“Era una cheerleader?” chiede invece Ruby, stringendo un braccio ad Alex.
Di nuovo un monosillabo “Sì.”
Ruby sorride, mentre Alex tira fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans. Le loro solite scommesse...
“Ma perché mi fai questo?” Tornando a rivolgermi la sua attenzione, Daniel si sporge sul tavolo, arrivando ad afferrarmi e a scuotermi le spalle. “Perché?”
Resto in silenzio per qualche secondo, incerto su cosa dire. Poi, con tono distaccato, commento: “Sai, certe volte mi viene proprio voglia di essere te: almeno le ragazze smetterebbero di darmi il tormento...”
“Oooh” Tutto il tavolo ride, persino Tj, mentre Daniel si fa piccolo piccolo, abbassandosi la visiera del cappello.
“Sei insopportabile.” Sono le sue ultime parole.
Sorrido, trionfante, mentre Tj cerca di tirar su il morale al fratello sconfitto, inutilmente: sappiamo tutti che terrà il muso fino a che non prenderà in mano un pallone da basket...
Dopo la mensa, le ultime ore di studio passano in fretta e all’uscita ci troviamo di nuovo tutti insieme, per poi dividerci di nuovo. Come sempre, l’appuntamento è al nostro campetto, non appena sbrigate le nostre faccende: Alex con il riciclo della targa, Mike che va ad aspettare l’uscita delle elementari, per riportare a casa la sorellina Jude, io - con Daniel e Tj come scorta - che torno a casa ad abbandonare lo zaino e a prendere la mia chitarra...
A piedi, Tj ed io ci dirigiamo verso casa mia, con Daniel alle nostre spalle, silenzioso come non mai. Lungo la strada, il mio cellulare inizia a squillare. Svogliatamente, rispondo alla chiamata con un laconico: “Chi scoccia?”
“Ehi, capitano! Simpatico come al solito, eh?”
È Vincent, uno dei pochi in grado di risollevarmi l’umore dopo una giornata a scuola.
“Ehi, capo! Qual buon vento?”
Al sentirmi dire “capo” Tj e Daniel capiscono immediatamente che sto parlando con il coach e si fanno più attenti.
“Vi sto osservando, sai?”
Mi guardo intorno, cercandolo. Sorrido, mentre chiudo il cellulare, vedendo Vincent dall’altra parte della strada. Mi saluta con la mano, attraversando.
“Ciao, campioni! Vi stavo aspettando, come mai ci avete messo tanto?”
“Certa gente che neanche conosciamo ci ha trattenuto all’uscita da scuola.” spiega Tj, alzando le spalle. “È stato così tutto il giorno.”
“È il prezzo del successo, ci farete l’abitudine.”
“O, magari, passerà...” dico io, in un soffio, subito fulminato da Tj.
“Non se continuerete a vincere...” replica Vincent, con un sorriso soddisfatto stampato sulla faccia.
Riprendiamo a camminare e in pochi minuti siamo sotto casa mia. Apro il portone dell’ingresso con le chiavi poi, quando tutti siamo entrati in ascensore, premo il bottone con il numero cinque e aspetto che il vecchio rottame ci porti su.
“Allora, capo” fa Tj, attirando l’attenzione di Vincent “che ci fai da queste parti?”
“Volevo solo avvisarvi che oggi, agli allenamenti...”
“Allenamenti?” chiediamo in coro noi tre.
“Va bene: al campetto.” si corregge, alzando le mani in segno di resa. “Insomma, oggi verrà anche Roy: ha detto di avere una sorpresa, non so...”
Roy, il nostro manager. Strano, credevo avesse un convegno, o qualcosa di simile, almeno...
“Non doveva essere fuori per lavoro?” chiede infatti Daniel, confermando i miei dubbi.
Vincent alza di nuovo le spalle, mentre scuote debolmente la testa. “Ne so quanto voi, ragazzi...”
In quel momento l’ascensore si ferma, aprendo le porte. Esco solo io e Tj mette un piede davanti alla porta per tenere fermo l’ascensore mentre aspettano che torni. Apro il portoncino con le chiavi e corro in camera mia, lanciando lo zaino sul letto. La chitarra invece è sul divano del salotto, come al solito. Tornando in salotto, afferro la custodia scura della chitarra e me la metto in spalla, uscendo subito dopo.
“Non dimenticare la giacca, tesoro, o ti prenderai un malanno!” esclama Tj, imitando la voce di una donna.
“Non mi scocciare, mamma!” gli rispondo, mentre rientro in ascensore e schiaccio il pulsante del piano terra.
Sulla strada del ritorno, Daniel chiede speranzoso a Vincent come sia arrivato a casa mia.
“In moto” risponde lui ingenuamente, non conoscendo i calcoli mentali di Daniel.
“Sul serio?” gli chiede ancora, fingendosi sorpreso. “Non sapevo guidassi la moto!”
Tj sospira, intuendo il piano del fratello.
“Ti piacciono le moto?” domanda Vincent, sprofondando sempre più nelle sabbie mobili.
“Da morire!”
“Vuoi farci un giro?”
È fregato, pensiamo Tj ed io, guardandoci sorridendo.
“Scherzi?”
Per tutta risposta, il capo tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo zeppo di chiavi, sventolandone una in particolare a un palmo dal naso di Daniel.
“Certo che no.”
Sorridendo, Daniel passa alla fase finale del suo piano, cominciando a elogiare la sua ignara vittima.
“Oh, capo sei un grande! Non posso crederci che tu abbia davvero il doppio della mia età: sei forte come un sedicenne!”
I due si allontanano dalla parte opposta, mentre Daniel continua a ingraziarselo e a fargli domande sulla moto. Tj ed io ricominciamo a camminare verso il campetto ma, poco dopo, sentiamo un urlo pazzesco e ci voltiamo a guardare la strada: una moto nera familiare proprio come se fosse mia ci affianca in un attimo. Vincent si alza la visiera del casco, indicando Daniel alle sue spalle con un gesto del capo: “Ve lo riporto tra un po’, ci vediamo al campetto.” dice, riabbassando la visiera. Daniel stringe la presa, chinandosi in avanti come Vincent, quando lui dà gas al motore. Bastano pochi secondi perché spariscano dalla nostra vista.
“Povero Vincent, c’è cascato come un idiota...” commenta Tj, di nuovo in cammino.
Arriviamo al campetto in una decina di minuti, trovando che gli altri del gruppo stanno già giocando. Vedendoci, Alex ci viene incontro, dandoci dieci dollari a testa.
“È andata meglio di quanto sperassi: l’ho venduta a un fesso che mi ha offerto il doppio del suo valore...”
Tj sorride, dandogli un’amichevole pacca su una spalla. “E bravo il nostro ricettatore!”
Subito dopo si allontanano e i ragazzi passano immediatamente la palla a Tj, che comincia a palleggiare un po’ per riscaldarsi, prima di rimetterla in gioco.
Seduto come sempre sugli spalti vuoti, prendo la chitarra e comincio a suonare. Daniel e Vincent arrivano una decina di minuti dopo, sulla sola ruota posteriore. Inchiodando, la moto fa un mezzo giro su sé stessa, interrompendo il suo ringhio tutt’altro che sommesso.
Daniel, elettrizzato, si toglie il casco e scende, perdendo per un attimo l’equilibrio. Poi ringrazia Vincent una ventina di volte e corre a giocare insieme agli altri. Vincent viene a sedersi accanto a me.
Il suo sorrisetto divertito mi costringe a smettere di suonare.
“Guidi come un pazzo, lo sai?” gli dico, senza degnarlo di uno sguardo.
“Lo so: me lo avrai detto un milione di volte, da quando ti conosco.”
Sorrido, ricordando la mia prima volta sulla sua moto tanti, tanti anni prima. Aveva lo stesso sorriso di oggi, vedendo la mia espressione spaventata. Mfh, spaventata è riduttivo, in effetti...
Riprendo a suonare, scuotendo la testa.
“Dovresti giocare: non migliorerai mai se te ne stai sempre qui a suonare.”
“Il basket non è la mia passione, Vince, dovresti saperlo.”
Vincent sorride, posandomi una mano su una spalla. Poi si alza e raggiunge gli altri, rubando la palla a Daniel.
Intanto i minuti passano e, all’improvviso, noto che fuori dalla rete di ferro che circonda il campetto si sono radunati parecchi ragazzi e ragazze che osservano il gioco interessati.
“Guarda, sono gli Angeli!” sussurra qualcuno, per non disturbare quelli che giocano.
Scuoto la testa, smettendo di suonare non appena vedo il gemello casual di Roy entrare in campo. A braccia larghe, il manager sorride, facendo capire che è proprio quella la sorpresa. Non che non sia un evento straordinario...
Senza troppi complimenti, Roy si affretta verso la palla e in un attimo va a canestro. Bene, pare voglia la guerra. Vedo Tj incrociare le braccia e le sue labbra che si piegano in un sorriso divertito a significare che ha raccolto la sfida. Il gruppo si divide in due, con Vincent e Roy che tentano il gran colpo, soli contro tutti gli altri.
Sono quasi commosso, nel vederli prepararsi il patibolo da soli...
Tj scrocchia ogni dito di entrambe le mani, lentamente, l’atteggiamento minaccioso smorzato dal sorriso beffardo che mi rivolge. Ricambio, divertito, ricominciando a suonare qualche accordo qua e là, sistemandomi meglio sugli spalti di cemento per non perdermi il massacro.
“Ma tu non giochi mai?” per poco, la familiare voce che sento alle mie spalle non mi fa perdere le facce sconvolte dei due amici nel vedere il gioco di squadra del gruppo. Di mala voglia, mi volto a cercare la persona che so di trovarmi davanti, sorridente come sempre.
Jenny, la figlia del capo di mia madre. Da bambini, giocavamo spesso insieme ma poi ci siamo divisi, lei troppo presa dalle sue amicizie alla moda ed io, costantemente in lotta con loro. Un gruppo che di certo non mi si addiceva e che avevo lasciato senza troppe cerimonie.
“Mi piace stare a guardare i miei amici.”
La guardo come per la prima volta, perché per la prima volta la vedo con i capelli chiari tanto incasinati. Jenny...rasta? Lei che era tanto chic?
La ragazza con cui si accompagna ha un aspetto tutt’altro che elegante, vestita con dei jeans strappati e una semplice canotta bianca. I capelli cortissimi color carota le sbattono sulla sua pelle abbronzata.
Torno a guardare davanti a me, sorpreso per quella visione.
“Sempre di poche parole, eh?”
Sorrido, pensando a quanto poco mi conosca, nonostante gli anni insieme. Sono i miei amici, gli unici a potersene vantare. Senza smettere di giocherellare con le corde del mio strumento, sento il suono metallico della rete alle mie spalle e un improvviso tonfo accanto a me.
“Va’ pure, Lil: ti raggiungo poi.” esclama Jenny, salutando l’amica con la mano, già lasciandosi cadere al mio fianco.
“Ti spiace se resto a guardare gli Angeli?” chiede, cercando una posizione comoda in cui godersi lo spettacolo. Buffo che chieda sempre dopo aver già fatto ciò che vuole.
“Fa’ pure” rispondo, ignorandola il più possibile “ma avvisami, se ne vedi uno...”
Di nuovo riprendo a suonare e per poco riesco a trattenermi dal picchiare il poveraccio che mi ha interrotto.
“Ehilà” fa Daniel, teso nel notare il mio sguardo stizzito, alzando una mano per smorzare l’atmosfera pesante.
“Che c’è?” gli domando in un sospiro, rivolgendo il volto al cielo, ad occhi chiusi, mentre prego per il suo bene che sia una cosa seria e non la solita scusa per avvicinarsi a una ragazza.
“È tardi” dice, serio e lapidario come solo al tramonto “Dobbiamo andare.” Possibile che sia già tanto tardi? Apro di nuovo gli occhi per accertarmene di persona e solo adesso noto il cielo terso già dipinto di rosso.
È vero, è tardi.
A malincuore, rimetto la chitarra nella sua custodia nera, mettendomela sulle spalle nell’alzarmi.
“Ve ne andate di già?” chiede sorpresa Jenny, ancora seduta sulle gradinate. Certo, lei non è cresciuta in un quartiere come quello, non immagina cosa vi possa accadere di notte.
“Sì” rispondo, mentre già mi allontano di qualche passo “e dovresti farlo anche tu, prima che si faccia buio.”
“Veramente...starei aspettando una persona...”
Sono abbastanza sorpreso nel sentirglielo dire, ma faccio del mio meglio per non darlo a vedere. Secondo Tj ci riesco benissimo, perciò non mi preoccupo più di tanto dell’espressione sul mio viso. Alzo le spalle, rivolgendole un’occhiata di sfuggita.
“Come vuoi.” Ma se ti succede qualcosa, poi chi li regge i tuoi? “Fossi in te, però, non me ne starei lì da sola troppo a lungo, sai com’è...” mi costringo ad aggiungere, mentre mi dirigo con passo svelto verso l’omogeneo gruppo radunatosi all’uscita del campetto. Vincent si offre subito di riaccompagnarmi, alzando le sopracciglia in un sorriso.
“Stasera passo, grazie.”
“Lo accompagno io” si intromette Roy, in un tono che sembra quasi di rimprovero “Abbiamo ancora bisogno di un capitano, non possiamo rischiare così, mettendolo sulla tua moto!”
“Ehi, che vorresti dire?”
Una risata generale copre le parole di Vincent, mentre tutti ci separiamo, dileguandoci in fretta verso direzioni opposte. Roy mi lascia sotto casa, salutandomi con un gesto della mano e un semplice “A presto, capitano.”
Sorrido, mettendomi in spalla la custodia con la chitarra e chiudendo lo sportello con l’altra mano. Sono allegro, dopotutto. Nonostante la scuola, nonostante sia stato al centro dell’attenzione di un esercito per tutta la giornata, sento di stare bene: è incredibile quanto Tj e gli altri influenzino il mio umore...
Sto ancora sorridendo, quando infilo le chiavi nella porta di casa. C’è un uomo sul pianerottolo, prima non lo avevo notato. Chissà perché, ha un’aria stranamente familiare. Appena incrocia il mio sguardo, si volta subito altrove e si allontana a capo chino.
Mah.
Entro in casa ed alzo la voce per farmi sentire nel caso ci sia qualcuno “Ciao mamma!” grido, mentre poso la chitarra sul divano.
“Sono in cucina!” fa lei, proprio mentre io entro nella stanza. Come al solito, sta cucinando e io, come al solito, le passo accanto rubando qualcosa a caso dal tagliere. Ormai non mi rivolge più neanche quell’occhiataccia che mi ha riservato per secoli nel tentativo di farmi perdere l’abitudine.
“Allora, com’è andata la giornata?” mi chiede, mentre mi metto a sedere su un mobile accanto a lei, sgranocchiando la merce rubata. Una carota, a quanto pare...
“Così” rispondo, alzando le spalle con noncuranza.
“Il rientro a scuola deve essere stato...come diresti tu? Pesante?”
Non faccio caso alle sue parole perché, per la prima volta da quando sono tornato, incontro di sfuggita il suo sguardo. Ho un groppo alla gola al vedere i suoi occhi colmi di lacrime.
“Hai pianto?” le mie solite domande dirette la lasciano sempre spiazzata. Stavolta, però, la sua risposta arriva troppo prontamente perché possa crederle.
“Ma cosa dici, tesoro? Perché dovrei?”
Sorrido, fingendo di non essermi accorto della strana ottava che la sua voce aveva toccato nel parlare. “Certo.” dico, lasciando cadere l’argomento. Chissà, magari è solo stanca...
Comunque, settimane dopo siamo ancora qui, a divederci tra la scuola e il basket e a fare del nostro meglio per ignorare i fan che ci assaltano letteralmente ogni santo giorno. Poi, dopo un po’ che non lo vedevamo, Roy si fa di nuovo vivo al campetto, indossando un abito che sarà costato migliaia di dollari.
“Ehi, è di Armani quello?” gli chiede Vincent, perplesso. Nemmeno aspetta la risposta dell’amico per continuare “Se ti si strappa mentre giochi, non voglio sentirti parlare di suicidio...”
Roy ride, dicendo che non è qui per giocare. “Ho un’offerta che non potete assolutamente rifiutare!”
E così è, perché ci ha portato i biglietti per una trasferta, una partita per beneficenza in cui dovremo giocare contro chissà quale squadra a sole poche miglia di distanza, a Chicago. Nessuno di noi sa cosa ci aspetta alla partita. Siamo entrati in campo ed io tengo sotto braccio il pallone. Per una volta non indosso la tuta perché il capo mi ha praticamente costretto con la forza a giocare, stasera. Ho rischiato di morire prima, nello spogliatoio: la squadra mi teneva fermo – una decina di persone contro un uomo solo – e Vincent mi minacciava con la scarpa di qualcuno, non so chi. Così, ora sono in campo. Accanto a me tutti i miei amici sorridono, ma io ho un’aria rassegnata e lo sguardo affranto. Fortuna che in campo c’è Tj, così non mi dovrò preoccupare di nulla. Ok, se qualcuno mi passa la palla, io devo solo reindirizzarla verso di lui, ce la posso fare, ce la posso fare!
Ma l’idea mi passa del tutto dalla mente quando entrano in campo i nostri avversari. La folla è in delirio e dalla panchina vedo Roy tentare di trattenere Daniel che, preso dall’entusiasmo, vorrebbe entrare in campo per chiedere un autografo a qualcuno. Diavolo, sono i Bulls!
“È stato bello combattere al vostro fianco, soldati!” commenta Alex, mentre Ruby al suo fianco deglutisce a fatica. Mark, accanto a Tj, è completamente sbiancato alla vista dei suoi campioni preferiti. Grazie al cielo ha la tuta: in campo, non riuscirebbe a muovere un muscolo contro di loro. Tj incrocia le braccia, sorridendo con aria di sfida.
“Facciamogli vedere di che pasta siamo fatti, ok?” guarda tutti, ma è sulla mia spalla che batte un colpo.
“Giusto: voi andate avanti, che io vi raggiungo dopo...”
“Che dici?” strilla Jake, sporgendosi leggermente dalla fila per potermi guardare “Abbiamo bisogno di te, tutti noi.”
Un coro di voci gli fa eco, concordando. Siamo fregati, ci faranno a pezzi. Forse, senza di me avrebbero almeno avuto una possibilità...
“Comunque vada a finire, ricordate che è una grande opportunità, potersi confrontare con dei  campioni come loro.” dice Vincent, venendosi a poggiare tra me e Alex. “E, se proprio dovessimo perdere...lo faremo in grande stile. Allora, siete con me?”
L’urlo di battaglia che precede l’inizio dell’incontro è feroce e spaventoso e, anche se questa è solo un’amichevole, nessuno di noi ha intenzione di perdere. Perché, per quanto la sconfitta con certe leggende possa essere comprensibile, la vittoria sarebbe un fantastico passe-par-tout per il mondo del basket.
“Fateli neri!” grida ogni tanto Daniel dalla panchina, per una volta almeno concentrato sulla partita e non solo sulle cheerleaders.
Naturalmente i festeggiamenti durano tutta la notte, visto che abbiamo pareggiato con i Bulls. Sì, loro hanno avuto la stessa reazione, quando l’ultima sirena ha segnato la fine del gioco. Tsk, grazie a un solo, misero punto, segnato in tiro libero a pochi secondi dalla fine. Da me, poi! Ok, in effetti i tiri liberi mi riescono bene, lo ammetto. Ma in fondo che ci vuole a fare canestro da fermo a pochi passi dal canestro? E poi, uno l’ho pure sbagliato per la tensione...E se invece avessi fatto centro?
Mi sono saltati tutti addosso, anche il capo, Roy, Daniel e persino le cheerleaders! Per un attimo ho temuto il soffocamento visto che eravamo a tanto così dalla vittoria, ma mi hanno talmente riempito di baci che alla fine mi sono convinto che non stavano tentando di uccidermi. A dire il vero, non sono del tutto sicuro che siano state le cheerleaders a baciarmi: le ragazze non ti baciano in testa, o sbaglio? Mah, forse hanno deciso di promuovermi a reliquia...
Comunque, per tutta la notte non abbiamo fatto altro che saltare e gridare e vantarci del traguardo raggiunto. Nessuno è sembrato dispiaciuto per l’interruzione del nostro record personale, perciò anch’io mi sono goduto i festeggiamenti.
Tornando a casa, la squadra ha insistito talmente tanto per riaccompagnarmi fin sul portone d’ingresso, che non ho potuto dir loro di no. O meglio, certo che gliel’ho detto, ma quei capoccioni hanno fatto orecchie da mercante e mi hanno scoccia...cioè...accompagnato fino a casa. Ci avranno sentito fino in Texas! Mi batto per riuscire ad infilare le chiavi nella toppa, mille volte distratto e toccato dagli altri, che si danno da fare per trattenermi ancora con loro a festeggiare. Quando ci riesco, saluto tutti, tentando di nascondere loro il sorriso che mi sento sulle labbra sbattendo loro la porta in faccia. Mi prendo un istante per me, giocherellando con le chiavi di casa, prima di voltarmi e di chiamare mia madre mentre mi avvio verso la cucina. Mi aspetto che mi salti addosso anche lei, consapevole che non si perderebbe una mia partita neppure...beh, per nulla al mondo! Già la sento dire quanto sia fiera di me, commentando ogni singolo istante in cui ho avuto la palla al mano. Eppure, quando arrivo in cucina, la trovo seduta al tavolo e a malapena alza la testa nel vedermi. Ha l’aria affranta ed è un evento praticamente unico, visto che lei è la persona più ottimista che conosca. Il mio entusiasmo si spegne immediatamente, non osando immaginare quale terribile occasione sia riuscita a toglierle il sorriso. Sto per aprire bocca, quando una voce maschile accanto a me mi saluta con un “Ciao, campione!”
Odio questa voce. Odio l’uomo che so di trovarmi di fronte nel momento in cui volterò lo sguardo. Odio il modo in cui solo lui riesce a rovinare sempre tutto, proprio mentre le cose sembrano essere così perfette.
“Che ci fai qui?” ringhio a denti stretti, difendendo con le unghie il mio territorio, la mia casa, la mia famiglia. Mi costringo a guardarlo in faccia, tentando di fargli vedere quanto io sia cresciuto, quanto sia forte nonostante lui.
Qualcuno suona alla porta e mia madre si alza velocemente dalla sedia su cui era seduta, dileguandosi per andare ad aprire.
“Non hai il diritto di farci questo.”
“Cosa?” chiede lui, aggrottando le sopracciglia scure.
“Non hai il diritto di andartene e poi tornare così, come niente fosse, a rovinarmi la giornata. O hai intenzione di trattenerti, così da rovinarmi l’esistenza?”
“Ehi Hero, hai dimenticato la borsa!” la voce di Tj si avvicina in fretta, fino ad arrivare davanti al mio sguardo. Mi fissa con le sopracciglia alzate, notando la mia faccia non esattamente felice. Immediatamente, allora, comincia a scrutare l’uomo al mio fianco, riservandogli un’espressione vuota e glaciale.
Dal salotto, intanto, si sente il tipico casino di quando c’è Daniel – avete mica presente i bombardamenti delle esercitazioni dei poligoni militari? Beh, se è così ci siamo quasi – e dopo pochi secondi, infatti, anche lui ci raggiunge in cucina, con Vincent al suo fianco. Il suo sorriso si spegne all’istante, quando nota chi altro c’è nella stanza.
“La porta è da quella parte.” dico con calma, indicando nella direzione da cui sono venuti tutti.
“Ehi, ma che...?” l’uomo tenta di parlare, ma viene incenerito dagli sguardi di Vincent e di Tj, oltre che dal mio, mentre Daniel sembra non averci capito nulla.
“Non hai sentito cos’ha detto?” il tono di Tj farebbe rabbrividire Schwarzenegger “Fuori di qui!”
Lui si avvicina a Vincent, cercando supporto nel suo vecchio amico, ma il coach lo gela con un netto “Sparisci, Robert.”
Adoro i miei amici.
Lui si allontana in fretta, senza aggiungere una sola parola, mentre mia madre ricompare sulla soglia della cucina.
“Tutto bene, Sarah?” le chiede Vincent non appena la vede, posandole una mano su una spalla. Lei fa segno di sì con la testa, sorridendogli appena per rassicurarlo.
“Che diavolo ci faceva qui?” le chiedo, senza riuscire a controllare la mia voce, che suona incerta ed isterica.
“Ha detto che ha sentito parlare di te. Ti ha visto in tv e si è reso conto di quanto gli mancavi e che voleva rivederti. Voleva riallacciare i rapporti.”
“Tsk.” fa Tj, incrociando le braccia sul petto. Strano, è esattamente quello che avrei voluto dire io. Visto che la mia battuta ormai è andata, sono costretto ad usare il commento numero due.
“Beh, è riuscito a rovinarmi la serata!” mi dirigo in fretta verso camera mia, chiudendo...no, in effetti sbattendo la porta alle mie spalle e girando la chiave con un gesto automatico. Mi lascio scivolare lungo la porta fino a sedermi in terra e porto la mano destra a coprirmi il volto. E dire che stava andando tutto così bene, era tutto così...perfetto...
La mattina dopo la sveglia digitale sul mio comodino inizia a suonare a vuoto, visto che non ho chiuso occhio per tutta la notte, immobile nella stessa posizione a cui mi ero abbandonato la sera prima. Suona quanto ti pare, stupido aggeggio senza cervello: oggi non me la sento proprio di andare a scuola...
Sono le tre del pomeriggio quando sento dei passi avvicinarsi alla mia stanza: probabilmente mia madre è tornata prima dal lavoro e si è accorta che sono ancora qui...Un attimo dopo, invece, è la voce di Vincent a sorprendermi.
“Ehi, capitano” sento degli strani suoni contro la porta, come se si stesse lasciando scivolare in terra, seduto come me con la schiena contro il legno chiaro. Chissà, magari si è messo nella mia stessa posizione e neppure lo sappiamo...
“Ehi, capo” gli faccio eco io, dopo un attimo appena. “Come sei entrato?”
“Tj e Daniel sono di là in salotto. Mi hanno mostrato un trucco infallibile, per aprire le porte...”
“Sarebbe?”
Vincent attende qualche secondo, creando un po’ di attesa prima di rispondere “Cercare la chiave sotto lo zerbino. E io che credevo fosse solo una leggenda metropolitana...”
Mi lascio sfuggire un sorriso, al suo tono così assurdamente serio nel dire certe cretinate. È ovvio che sta tentando di tirarmi su il morale e, da parte mia, spero vivamente che ci riesca, perché non mi va che quel tizio di ieri mi rovini più di una giornata che, comunque, è anche troppa.
“Partirà tra mezz’ora, con l’autobus per New York.”
E tanti saluti al sorriso che era riuscito a strapparmi...
“E allora?” la mia voce è più fredda e distaccata del solito, nel tentativo di chiudere quell’odioso argomento.
“Indipendentemente da ciò che tu possa avere intenzione di fare, io andrò a salutarlo. Dopotutto, probabilmente sarà l’ultima volta che tornerà qui. Quando ha visto la tua reazione, ieri, ha deciso che era meglio sparire per sempre e lasciarti vivere in pace la tua vita.”
L’ha detto lui questo? Perché sembra troppo saggio e magnanimo per essere un suo pensiero. Se così fosse, sarebbe la cosa più simile ad un gesto d’amore che abbia mai fatto per me.
“Potresti non rivederlo mai più, Hero...”
“Oh, Vince, mi si sta spezzando il cuore...” Sorrido, scuotendo la testa con gli occhi alzati a guardare il soffitto della mia stanza, quando un’ultima sua frase mi colpisce “Tu non sai cosa non darei, pur di avere ancora l’opportunità che hai ora tu...”
Da quello che so, anche Vincent ha avuto problemi di comunicazione con i suoi, se così si può dire. So che era stato dato in affidamento e che, quando aveva circa la mia età, i suoi veri genitori erano tornati a farsi vivi, cercando di riallacciare i rapporti con lui. Ma Vincent li aveva gelati, nel trovarseli di fronte, in una reazione che era più tipica di me, che sua. Da quel giorno non li aveva mai più rivisti, se non in un articolo di giornale che parlava di un incidente stradale del quale entrambi erano rimasti vittima. Che si fosse pentito di essersi comportato così?
Capisco che cerca di infondermi una lezione di vita, anche se quel commento probabilmente gli è uscito di getto. Mi alzò in piedi di scatto e apro la porta, facendo crollare Vincent all’indietro nel sottrargli il suo appoggio. Sdraiato sul pavimento, mi guarda dal basso, con le sopracciglia alzate e un’espressione che sembra volermi chiedere cos’è successo.
“Andiamo, prima che cambi idea.”
Il capo sorride, rialzandosi da terra con una spinta decisa, annuendo e urlando agli altri due in salotto: “Restate qui voi?”
È Daniel a rispondere, leggero come al solito “Certo, certo. Ci pensiamo noi a tenere d’occhio qui.”
“Oddio, ha intenzione di distruggermi casa?” mi lascio scappare un’espressione accigliata, mentre Vincent mi spinge via a forza. Il capolinea degli autobus è abbastanza lontano e il capo dovrà fare il pazzo più del solito per arrivare in tempo. Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci...
Ma, quando usciamo in strada, non è la sua moto che ci aspetta, ma la macchina metallizzata di Roy.
“E questa?” chiedo, notando Vincent passare dal lato del guidatore. Per tutta risposta, lui sventola un momento le chiavi, con un sorriso a cinquantasei denti, o giù di lì.
“Ogni tanto capita che Roy mi presti la macchina, ma solo con la mia moto in ostaggio...”
Saliamo entrambi e il ghigno che il capo si lascia scappare nell’accendere il motore mi inquieta parecchio. Povero Roy, non so se rivedrà più la sua cara macchina...
E beh, deve essere un vizio, perché Vincent guida come un pazzo anche su quattro ruote. Mi viene il dubbio che sia così anche in bicicletta ma, in effetti, non voglio scoprirlo. Arriviamo alla rimessa in una ventina di minuti circa e ci tocca correre se vogliamo arrivare in tempo. Al terminale nell’ingresso le scritte di un rosso stinto annunciano l’orario di arrivo e di partenza dei vari pullman, insieme al luogo di destinazione.
“Eccolo, quello per New York!” fa Vincent, senza accorgersi che io sono già scattato via, correndo verso l’autobus numero tredici. La folla mi ostacola il passaggio, ma io continuo a correre, sbattendo contro chiunque mi capiti a tiro e inciampando un paio di volte prima di arrivare. Sinceramente, non ho idea di cosa mia sia preso: voglio solo vederlo un’ultima volta e sostenere il suo sguardo con orgoglio per dimostrargli che sono grande ormai, che non ho più bisogno di lui.
Non come padre, almeno.
Quando giungo davanti all’autobus, scrutando attraverso i finestrini alla ricerca del suo volto conosciuto, Vincent mi raggiunge e la sua mano sulla spalla mi fa sobbalzare d’istinto. Mi volto a guardarlo e lo vedo sorridere, indicando con la mano un punto davanti a noi. Seguendolo, lo vedo, intento a sistemare la sua borsa sopra il sedile, per poi lasciarsi cadere di peso a sedere. Non si è accorto di noi e io non ho la più pallida idea di cosa fare, cosa dire. A un tratto, però, incrocia il mio sguardo e qualcosa per forza devo fare. Mando giù il groppo che mi era salito fino in gola e alzo semplicemente la mano, senza mostrargli il minimo cenno di un sorriso né un briciolo di tristezza a velarmi il viso. Vincent mi passa un braccio intorno alle spalle, sorridendo lievemente nel salutare con un cenno il suo vecchio amico. Da parte sua, Robert se ne sta lì impalato, sorpreso forse più di me nel trovarci lì. Poi, quando il motore dell’autobus viene acceso, finalmente lui si decide a ricambiare con un sorriso imbarazzato e un gesto minimo della mano. Il capo e io restiamo lì così, immobili, fin quando non lo vediamo sparire oltre il parcheggio. Vincent mi batte un paio di pacche sulla spalla, con l’aria soddisfatta, prima di voltarsi e tornare da dove siamo venuti. Mi concedo ancora qualche secondo, poi mi decido a seguirlo.
A mensa, il giorno dopo siamo di nuovo tutti insieme, seduti come sempre al nostro solito tavolo, proprio come se non fosse successo niente. La giornata è stata uno strazio, perché tutti hanno continuato ad osservarci e a parlare di noi a qualunque ora e in qualunque posto, aula o corridoio che fosse. Daniel continua a lamentarsi perché ho rifiutato l’ennesimo appuntamento, Tj ride, gli altri scommettono, scherzano, o semplicemente si fanno i fatti miei, scuotendo la testa in segno di rimprovero. Sinceramente non ho mai capito se sia rivolto a Daniel oppure a me...
La giornata procede come sempre, insomma, ma mentre sto bevendo la mia solita dose di liquidi per sostenere il predicozzo di Daniel, una ragazza bionda coi capelli rasta entra sorridendo in mensa, chiacchierando con qualche ragazza che come lei non ho mai visto da quelle parti.
La sorpresa che ho nel notarla mi lascia con la lattina a mezz’aria e la bocca ancora aperta per bere. Il commento che sussurro mi viene praticamente d’istinto.
“Jenny?”
   
 
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