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Autore: FABRIZX    13/03/2014    3 recensioni
Quelli che leggerete sono ricordi... forse imperfetti, forse immaginari, ma veri come sono vere le storie.
Quelle che leggerete sono poesie, e valgono quel che il vostro cuore le farà valere.
Quelli che leggerete sono i sentimenti di un cuore che ha sognato molto.
Quella che leggerete è una strana storia, come ogni storia che valga la pena di essere raccontata.
A raccontarla sarà Scheggia stesso, il protagonista. Un giovane poeta che, giunto a un momento cruciale della sua vita, rivive il suo viaggio dall'inizio, anima, mente e cuore. Quello che è stato, che ha sentito e vissuto. Forse perchè non ha altra scelta.
O forse, per scegliere una volta per tutte chi è?
(Angolo autore, soprattutto per chi mi ha già letto... è sicuramente la mia introduzione peggiore, e spero di riuscire a cambiarla al più presto, in effetti. Tuttavia, spiegare questa storia con altro che la storia stessa mi risulta incredibilmente difficile, per cui, per adesso, dovrò contare sul fatto che vi fidiate di me. Buona lettura, e perdonatemi ancora se dopo aver finito di scrivere mi mancano le parole per scriverne oltre.)
Genere: Introspettivo, Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'ultima Scheggia

 

Mi chiamano Scheggia, e sto andando in pezzi.
Tuttavia, mi chiamavano così anche prima. Che io mi ricordi, mi ci hanno sempre chiamato. Una volta pensavo che fosse perchè correvo veloce... in realtà, è perchè ogni cosa che faccio, la faccio a pezzi. Non nel senso che la distruggo, nel senso che non la faccio mai per intero, con un inizio, un atto, una fine. E poi ricordo anche a pezzi, ragiono a pezzi, a volte addirittura parlo a pezzi.
C'è un bel venticello, di fuori, e lasciarlo entrare a rinfrescarmi mi ricorda perchè adoro il vento.
... ecco, appunto.
Dov'eravamo? Ah, già, le cose fatte a pezzi...
È proprio per questo che mi risulta difficile raccontare la storia fin qui. Intendiamoci, me la ricordo. Insomma, so cosa è successo, qualcosa del come... il perchè lasciamolo dov'è, ho sentito che non vuole essere disturbato. Solo, dirla, spiegarla, a volte mi è difficile perchè penso solo a quei due, tre, quattro momenti, quanti che siano. E ho come la sensazione che quello che posso riassumere dall'uno all'altro sia un'enorme ed inconsulta pila di noia. Per cui, cominciamo, da dove credo che abbia un minimo di senso cominciare...

 

...nel lento eterno,
l'erbosa reggia
tra le mani del vento
corre la Scheggia.
Chi ride dietro
chi mi dà il nome
guardiamo insieme
un diverso Altrove.
Ma corre il fermo
coi nostri piedi,
l'albero offre
il tesoro che chiedi.”

 

Non so nemmeno che tipo di rime siano queste... sciolte? Chissà, dopotutto non pretendo nemmeno che si capisca di cosa parli, e non sono mai stato molto preciso come poeta, se qualcuno vorrà chiamarmi tale. Il che è un problema, perchè io stesso non so come altro definirmi. È una delle prime poesie che mi sono venute in mente. Non pretendo di dire che la scrissi a otto anni, mentre correvo sul prato verso quella quercia enorme, con qualcuno dietro che gridava “Vai, Scheggia!!”, non sarebbe nè verò nè credibile, e comunque nemmeno ricordo quando l'ho scritta. Però è vero che ce l'avevo in mente, l'immagine, qualche parola, una metafora, a cui chiaramente non pensavo mentre salivo sull'albero, dove una bambina ci aveva sfidato a raccogliere un giocattolo che lei e sua sorella avevano nascosto nel parco sulle colline. Pensavo solo che l'avevo trovato io, io avevo capito la mappa che ci avevano disegnato, io avevo corso più svelto, io avrei vinto... Aspetta, che cos'era che si vinceva? I dolci della loro zia? Il giocattolo stesso? Qualcos'altro? Uno dei miei amici si ricorda che la più grande, mezzo ridendo, aveva promesso un bacio al vincitore, non sapendo nemmeno lei se stesse scherzando, o che cosa veramente aveva promesso. Io mi ricordo che quale che fosse la ricompensa, non fu consegnata tutta. Dietro di me saliva qualcuno, bravo, rapido, agile, di cui ricordo due lucide ginocchiere nere. Aveva un tale furore infantile da farmi essere abbastanza sicuro che la promessa del bacio ci fosse, e che venisse da una fonte per lui non del tutto indifferente. E allora forse a farla sul serio era stata la più piccola, e magari l'aveva detto solo a lui. In ogni caso, finì quasi in rissa. Le mani sul trofeo le avevamo messe in due, nello stesso istante, le spinte e gli strattoni erano passati al primo ceffone, e badavamo poco o nulla al fatto di essere in piedi all'incrocio dei rami di un albero. Dico “quasi” perchè un tuono improvviso ci pietrificò, riportandoci alla realtà della nostra posizione precaria. Poi caddero le prime gocce, mentre il cielo cambiava colore di colpo, e vuoi pure l'epico duello in bilico sull'abisso, e i due guerrieri che si battono per la fanciulla (che nemmeno era la stessa, poi!), ma insomma, giocare sotto la pioggia non ci parve epico nè divertente. E non lo parve nemmeno alle bambine del parco, direi, perchè non si fecero vive nè quel giorno nè i due giorni di pioggia seguenti, e al terzo giorno si doveva ritornare a casa. E lasciammo quel parco senza che nessun torneo fosse stato concluso, nessun cavaliere abbattuto, nessun pegno donato dalle dame. Per anni ho vissuto con la convinzione che quel bambino fiero e spietato mi avrebbe un giorno sbarrato la strada all'alba, con una quercia come vessillo, la felpa come armatura, quelle ginocchiere che portava sempre come schinieri, e avremmo duellato fino al tramonto, e uno di noi avrebbe vinto quel premio, quale che fosse, da qualunque dama venisse. Ora, quel sogno non è più con me. Non tutti i giorni, almeno. A volte si perde lontano, dovunque vadano i sogni quando non è il loro tempo, e vaga di là, per poi tornare a salutarmi dopo mesi, con in dono un sorriso strano che viene da tempi lontani.

 

Andai avanti e lui con me, anche se non so dove. Non lo vidi mai più, almeno non con questi occhi.
Fu in quell'andare avanti che cominciai davvero con le poesie, e ancora non trovavo il coraggio di scrivere quella che avevo pensato per prima. Meglio, quella che avevo vissuto per prima. Per un po', dopo che avevo cominciato, rimase comunque l'unica che avevo vissuto, perchè le altre le scrivevo così, a freddo, per divertirmi con qualche rima, per vedere quanto strano riuscivo a rendere qualcosa di normale, un quadretto che mi capitava sotto gli occhi. Per farmi due risate da solo, perchè un po' mi vergognavo, un po' mi credevo un intellettuale, e quelle poesie non le lesse nessuno. In realtà, non ho mai davvero imparato a mostrarle a qualcuno, nemmeno quelle che ho scritto dopo e che poi qualcuno ha anche letto. Ma le cose le faccio già troppo a pezzi, di questo semmai ne riparlo dopo.
La seconda poesia che ho vissuto davvero, ma la prima che scrissi, di quelle sincere, era una sorta di canzone. L'ho scritta sul bordo in alto di un quaderno scarabocchiato (erano i miei compiti,in realtà, ma ho una grafia veramente orrenda), con una penna blu, e una rigaccia diagonale in mezzo per separare dove non potevo andare a capo. La finestra della classe mi dava ditate di sole caldo, che sapevano un po' dell'azzurro trasparente là fuori. Avevo quattordici anni e un po' di fame. Guardavo tra i banchi, ma vedevo indietro nel tempo, dieci minuti prima, nel cortile, e camminava nella mia mente ma era lo stesso il mio punto fermo.

 

...Diverse and divine
that's how you look to me
look to the sky
there's where I want to be
losing my mind,
dreaming of you and me
lost in the fight...
Diverse and divine!...”

 

In inglese, poi, perchè mi sentivo incapace di fare qualcosa di serio in italiano. In italiano giocavo, parodiavo, mi davo al virtuosismo per il gusto di farlo. Scrivevo le poesie come mi venivano, convinto di ogni parola, come se il cuore parlasse con la mia penna, credevo. Dieci minuti dopo le riguardavo, e facevano tutte schifo. Ma perchè buttavo fuori tutto quello che avevo in testa? Poi, per consolarmi, mi dicevo che era meglio buttarle al vento certe cose, che lasciarle marcire nella mia testa, o avrebbe fatto muffa anche quel che c'era di buono. Ma di questa, per quello che vale, rimango convinto, perchè era per lei. Era per lei e per quei capelli rossi che scorrevano sugli occhi grigi, per i sorrisi che le scappavano come se le avanzassero e qualcuno finiva pure nella mia traiettoria, io lì a sperare che in qualche modo assurdo fosse rivolto a me, ma quando mai? Troppo occupato a scriverci sopra per andarne a caccia, di quei sorrisi, eppure non erano rari, mi pare quasi che abbia passato la sua giovinezza a sorridere, lei. E io? Il mio di sorriso era dentro, in un angolo, mentre mi chiedevo come mai potesse chiamarsi, e facevo qualche ipotesi, ma una in particolare mi tornava sempre d'istinto, mi dicevo che altro non poteva chiamarsi che così. E come posso essermi sentito quando ho scoperto che era vero? Sicuramente meglio che pensando che lei invece non l'ha mai saputo il mio nome, al massimo quelle due volte che qualcuno le avrà parlato di me, avrà avuto un'idea di chi fosse la Scheggia.
E perchè, quelle due o tre volte che le ho parlato io? Col pilota automatico, però, la parte che doveva pensare era troppo occupata a bearsi di star parlando con lei, non lo capiva che poteva essere il momento di parlare davvero, di dire l'unica cosa da dire, e poi che fosse quello che doveva essere.

 

“...e il perdersi in quei specchi sì ridenti,
la vicinanza cui ragion lontana,
beati e maledetti quei momenti!

Quell'estasi a provarsi tanto è strana
che'nvece di riuscire a trarne frutto
indugiarvi rende arida la piana...”

 

Terzine dantesche di endecasillabi, sì. E allora? È l'unico tipo di metrica che capisco, e forse me la cavavo anche. Magra consolazione, per qualcosa che ho scritto per darmi dell'idiota. Io scrivevo e la ragazza di cui sapevo d'istinto il nome continuava sorridere in me e davanti a me (se non altro dovevo chiederle questo: come faceva? Avessi potuto sorridere come lei, quanto lei, forse avrei vissuto di più e scritto di meno. O forse avrei scritto ancora di più, ma con un sorriso. Che non guasta mai). E ora che ci penso, ma il suo nome...?
Ah, già, ora ricordo. Per un attimo, mi era preso un colpo. Ad ogni modo, ho deciso che voi non volete saperlo. Dopotutto, dovrò prendermi licenze poetiche qua e là, no? Stavolta me la prendo su ciò che volete sapere da me.
A furia di sorridere, finì che in un tempo che mi parve ridicolo, rispetto a come dilatavo i miei momenti e contemplavo i suoi sguardi di passaggio, ma che forse era stato abbastanza lungo da darmi occasioni da sprecare fin'oltre la mia idiozia, si ritrovò a danzare e volteggiare non solo nella mia mente, ma in un abbraccio di quelli che qualcuno romanza a tempo perso. Sempre col suo sorriso.
Sempre mentre io...

 

(Illegibile. Tre parole di fila, tutte sbarrate a penna. Poi, una cominciata e lasciata in sospeso, che non decifro granchè e forse altro, con un tratto molto sottile. Il tutto è coperto da una macchia rossastra -ancora parzialmente umida al momento attuale- di materiale apparentemente ematico, per uno spazio corrispondente circa ad alcune righe. In alcuni punti e nel resto del foglio, vi sono dei piccoli grumi dal giallo chiaro al nerastro, e piccole zone semplicemente

bagnate, che tuttavia non impediscono la lettura. Segue qualche segno non riconoscibile come scrittura, e il testo ricomincia come se nel mezzo ci fosse stato scritto qualcosa.)

 

... e forse non è il caso di proseguire direttamente da quest'altro fatto. Fatto sta che fu dopo di ciò che cambiai scuola, ma potete vedere da soli che non è il caso di parlarne troppo. Nei miei giorni di allora, ero un po' più solo del solito, la penna riposava nelle mie mani, e dei capelli rossi danzavano volteggiando nella mia testa. Per un caso malaugurato e benedetto, un giorno d'autunno un po' più giallo degli altri, ci trovammo con un banco in meno in classe. Era rotto, sporco, non c'era proprio? Vattelo a ricordare, ricordo solo il pezzo in cui il banco non c'era più.
E al suo posto c'erano due spazi vuoti: quello che il banco avrebbe dovuto occupare, e quello della sedia vuota accanto a un ragazzo che aveva il posto da quelle parti. L'ho occupato un po' timidamente, ma con un sorriso. Il suo.

 

...senza coscienza del voler cercare
e però sai di aver trovato.
Una frase un giorno, una mano l' altro,
la battuta che gli ho lasciato.
Senza sapere per quale fine,
ed eravamo così diversi
a un certo punto prosegui assieme
senza mai giungere ad un confine.
Senza una meta se non la scegli,
con un amico, pur se non chiami
e lui ti segue ma sei tu sei il primo
al suo fianco nel suo cammino...”

 

Questa non aveva nemmeno una metrica vera e propria, ma da quando un'amicizia nasce in esametri? E poi valla a trovare una logica, in quello che era successo, o anche solo in quello che facevamo. Una frase sensata tra quelle che ci facevano ridere, un pomeriggio serio tra quelli che abbiamo passato, qualcosa che abbiamo fatto in maniera del tutto normale. Ogni tanto lui tirava fuori pezzi delle mie idee, e ne sembrava più convinto di me. Altre volte, io finivo le sue frasi prima che lui sapesse cosa voleva dire. Eravamo tutti e due mezzi artisti, e aspiranti tali, forse io ero un po' più pretenzioso ed elaborato, lui un po' più autentico e grezzo, ma avevamo un mondo pieno di luoghi assurdi, scene surreali e strani personaggi che portavamo avanti e indietro dalla nostra vita di tutti i giorni, e qualche volta qualcuno ci veniva tirato dentro, con o senza il suo parere.
E fu portando finalmente fuori i miei mondi, che io venni fuori con loro.
Raccontavo storie ad altri, le inventavo con loro, il mio amico disegnava quello che ci prendeva di immaginare e io contribuivo lasciando schizzi più o meno goffi sulla mia parte di quaderno, libro, diario, banco, quello che capitava, e qualcosa l'ho pure colorato meglio di lui.
Le poesie di questo periodo erano altalenanti, vissute e non, buone o meno, e non le finivo mai, sia che valessero mezza occhiata, sia che facessero proprio schifo. Ricordo discussioni con quegli amici che stavo imparando a vivere appieno, perchè le poesie che loro amavano di più erano quelle che scrivevo “per finta”, che io chiamavo le più “commerciali”, credendo di sapere che non avrei comunque fatto un soldo neanche con quelle. Ancora non mi ero deciso a scrivere davvero la mia “prima” poesia, la prima che ricordo di aver pensato.
E a proposito di quello che pensavamo, non mi sono mai chiesto se...

 

(Non scritto. Alcune parti del testo precedente sono parzialmente macchiate di nero, ma risultano comunque leggibili o di facile ricostruzione. In questo punto, una macchia con le stesse caratteristiche della prima occupa uno spazio alto poche righe. Tuttavia, in questo caso non sembra coprire scrittura o tentativi di scrittura, e presenta tracce di un coagulo scuro in misura maggiore della precedente. Il testo riprende sul bordo inferiore della macchia, che sembra esservi in parte colata sopra in un secondo momento.)

 

E invece, al contrario di quello che avrei pensato, non era (o non è più?) il momento adatto.
Intanto la nostra giovinezza infiammava, e forse abbiamo bruciato per strada qualcosa che avremmo dovuto conservare, ma tutto ciò che abbiamo tenuto, tutte le scintille che ricordo, valevano la pena di essere ravvivate.
A questo punto della storia, dovrebbe trovarsi il classico groviglio di emozioni di quell'iniziazione, quel passaggio alla vita adulta che il nostro immaginario celebra così tanto, e invece io non posso perdermi in quel mosaico di momenti, scelte, illusioni e colpi di scena. Soprattutto di colpi di scena, per quanto alla fine il vero colpo di scena era che ce ne fosse stato uno. C'è stato qualche attimo, in quegli esami, di goliardia paraeroica, di tensione surreale, di epica minima e massima, sia vera sia generata da paroloni a sproposito come quelli che sto usando adesso. Il punto è che quei momenti non hanno generato altre conseguenze che la loro esistenza, donandomi semmai di raccontarli all'infinito per il racconto in sè, sono stati, insomma, momenti gravidi di sè stessi, e per quanto io stia parlando di pezzi, dovrò pur parlare di pezzi di qualcosa, no? I miei, magari...
Inutile dire che uno stato emotivo per me più frammentato del solito ha impedito sia a me che al mio amico di scrivere allora qualcosa che parlasse di quei momenti, mentre forse è più strano pensare che dopo nessuno dei due ha voluto tornarci. Forse pensavamo che tentare di scrivere a freddo una poesia “vissuta” in qualche modo la sporcasse. La cosa non mi convince nemmeno adesso,in realtà, ma di fatto c'è soltanto un frammento di limerick che ho scritto in quei giorni, e che mi si nasconde nella memoria. Con un po' di impegno, posso riuscire a scorgerlo e a ipotizzare che facesse all'incirca così:

 

(Questa parte del testo è strappata. Intorno allo strappo, si distinguono le impronte digitali. Le dita erano evidentemente state macchiate in precedenza insieme al foglio, poichè le impronte sono impresse in rosso e nerastro.)

 

No, lasciamo stare, mi rifiuto, questa faceva veramente schifo.
Buttarla fuori dalla mia testa non era sufficiente, temo. Ho quasi sentito di dover proteggere il foglio.
Penso che questo basti a darvi un'idea di come ancora mi sento pensando a quei giorni strani, ma appunto, di questi pezzi è inutile occuparsi. È vero, segnano un “prima” e un “dopo”, ma ho passato molto del tempo che ho perso a cercare di focalizzare prima o dopo cosa.
Fuori da quella porta caleidoscopica, c'erano giornate di fine autunno in cui sedevo sbilenco su pile di dubbi, badando di sostituire spesso quelli vecchi con altri nuovi più strani, in aule che ogni tanto mi scappavano davanti e cercavo di seguire da qualche parte (ma ero uscito da un mondo di aule per trovarne un altro più intricato e confuso?). Io e il mio migliore amico, per spirito di avventura o incoscienza che fosse, ci perdevamo quasi apposta, tra gli occhi di alcuni incontri che non avremmo dimenticato. E a perdere la via o trovarla non cambiava nemmeno molto, per cui continuavamo a studiare praticamente a tempo perso, tra un'invenzione e l'altra. Io avevo ricominciato a scrivere qualche poesia più “commerciale”, ma una volta tanto avevo deciso di tentare qualcosa di nuovo: qualcosa di intero. Per una volta, speravo la prima di tante, avrei scritto una poesia che raccontasse un'inizio, una fine, e quello che c'era in mezzo! Ma quell'ardore battagliero, che non sentivo più così intenso dalla sfida sulla quercia contro il bambino con le ginocchiere, che ancora duella col sogno della mia infanzia, dovette combattere la sua sfida più dura contro me stesso, come vuole ogni epica degna di questo nome. La mia piccola Rivoluzione per Intero non voleva lasciarsi creare, fuggiva via svoltando per un aula, saltando dentro un viso, facendosi scudo di un paesagggio. Mi confondeva, lanciandomi addosso frammenti ispirati, spesso anche finti, perdendosi in mezzo alla ridda di incipit, travestendosi da ciascuna di quelle avventure o incontri che decoravano un anno bizzarro, e non c'era verso che riuscissi anche solo a pensarla. La mia prima poesia, che ancora dovevo scrivere, alle volte si avvicinava alla porta della mia mente, chiedendomi se avessi trovato quel che cercavo, e ancora...

 

(Il testo è interrotto da una serie di tre macchie rosse, sovrapposte in parte al testo senza coprirlo, la prima più sporca di grumi neri o giallastri, la terza più grande. Il testo negli spazi fra le tre è leggibile, e lo riporto di seguito, dove l'interruzione puntata indica la contaminazione del foglio.)

 

...volevo dire “e quando”...

...No, stavolta NON voglio interrompermi, questa non è una parte che si possa...

...Ok, dicevo: la mia prima poesia, che ancora dovevo scrivere, alle volte si avvicinava alla porta della mia mente, chiedendomi se avessi trovato quel che cercavo, e quando rispondevo di no e aprivo garbatamente la soglia per accogliere l'ospite comunque gradita, svaniva anch'essa, lasciandomi solo e un po' perso.
Una mattina di giugno, mentre quella stessa storia mi aveva lasciato a pensare a nulla, se non al fatto che avevo fame dentro un aula molto illuminata ma poco nutriente, lasciai vagare lo sguardo in cerca di qualcosa che mi riportasse alla Terra, constatando divertito che una generale aria di devastata stanchezza si era impadronita dell'intero corso, privo al momento di una qualsivoglia forma di figura di autorità insegnantizia (ma esiste una parola del genere? Non suona malaccio)... ogni sorta di personaggi vagavano tra i banchi con un'andatura oscillante tra il pinguino e l'anima in pena, e io stavo frugando a tutta velocità dietro il velo di noia che mi si era incartato sugli occhi per capire dove avessi messo la forza di ridere, cosa che avevo una gran voglia di fare. Nel frattempo, l'ondata di nulla imperante era incredibilmente riuscita a colpire perfino una certa nostra compagna di corso, nota per l'infallibile dedizione e precisione del suo studio, tanto che valutavamo la difficoltà di un test o di un esame usando una scala graduata con i suoi voti. Al punto che lei aveva raggiunto con grazia la fila più esterna, dove la luce affettuosa del sole ci sbeffeggiava da oltre le finestre e con un'eleganza cinematografica, ma al contempo con una superba semplicità, si era semplicemente sdraiata su un banco, abbandonata ad occhi chiusi, con un vago sorriso di sfida e stanchezza sul viso ovale, e lì era rimasta, per il resto dell'ora.
Sul momento me ne accorsi a metà, ma ero rimasto anch'io lì dov'ero.
Lì, nel riflesso del sole da cui la vedevo splendere, lasciai andare la mia caccia alla poesia completa, e mentre mi dimenticavo di inseguirla, ciò che cercavo mi raggiunse.

 

Quiete d'inverno
in un volto d'estate
sole dormiente,
scintille placate.
Chiama da presso, senza preavviso
porta lo sguardo dentro un sorriso
inconsapevole, senza potere.

Eppure schianta,
senza colpire,
eppure è vita,
o è non morire.
Fuori dal tempo, dentro un'istante
svanisce allo sguardo, resta costante
lo scopri guardando, senza vedere.

Ed ecco dileguata in un istante
l'imago celestial sognata prima
carceri aperte son, catene schiante

Chè chi vuol trattenere in una rima
la sola verità che è li davanti
con verghe di cristal l'ingabbia e incrina

Ma i canti già cantati sono tanti
annegati nella fanga di lirismi:
canta il tuo cuore, guarda solo avanti!

Occhi profondi, scuri, che immergono dentro un volto.
Semplice, delicata, li ha chiusi ma io li ascolto.
Una ragazza stanca, viva nel suo profondo,
qualcosa di bello e puro, che forse vale il mio mondo.

...”

 

E via ancora, per forse tre o quattro pagine, cambiando metro, argomento, perfino un paio di lingue, danzando sul sogno di me che sognavo la ragazza sognante (lo ammetto, mi sto divertendo alle vostre spalle) fino a volteggiare gloriosi, sempre più in fretta, sempre più stretti, verso la prima Fine.
Posai la penna e sospirai nella luce... non era un sospiro. Avevo il fiatone. Ero estatico, perso, salvo, fuori dalle finestre c'era il riflesso dei miei occhi, non il contrario. Avevo vinto.
Ha! Davvero volevate sapere come? Volevate conoscere fino in fondo la prima e l'unica Poesia Completa che ho scritto in vita mia? Oh, forse ne avrete modo, un giorno. Ma ora non è tempo, e la scelta sarà di chi la vincerà dopo di me. Perchè è qui con me, adesso, al mio fianco, ma è troppo preziosa per lasciarla andare così. Ed è per questo che chiedo una sfida, e uno scambio. Tuttavia, non posso fare altro che pregare che il mio sfidante sia onesto, perchè non avrò garanzia nè possibilità di controllare... questo è il patto: la Poesia Completa è qui, e sarà di chi saprà trovarvi davvero qualcosa che non ha mai trovato in nessun'altra poesia. Se riuscirò a far nascere in qualcuno, chiunque sia, un sentimento figlio dei miei, allora accetterò lo scambio, e cederò la poesia e ogni diritto su di essa per un trofeo del vincitore. Qualsiasi cosa, che segni chi davvero è la persona che ha saputo lottare per esprimere il sentimento di un'altra. Chi starà alle mie regole, ora?

Quanto vale ciò che forse qualcuno proverà a conquistarsi contro di me? Saperlo mi piacerebbe. In quell'aula, mentre nasceva, non lo sapevo. Quando ebbi finito, magari chissà, spaventando qualcuno di passaggio col mio grido di trionfo a mezza voce, ovviamente ero rimasto l'unico nell'aula. Lei era uscita da un pezzo, eppure solo quando posai la pena, e sospirai quello che in realtà era fiato mozzo, la percepii passarmi accanto ed uscire, dolcemente intontita, dolorosamente bella.

Mentre mi alzavo nell'aula, e in un unico movimento mi armavo di zaino e coraggio, dentro di me invece sedetti a consiglio con me stesso, e ci rimasi per forse mesi. Io e il mio amico continuavamo la nostra avventura, e lui forse sapeva della Poesia Completa, ma non la vide. Durante quasi ogni mia occupazione, vedevo con la coda dell'occhio quella sala buia, con un tavolo spoglio perfettamente illuminato (sì, ho un'immaginazione fin troppo allegorica, a volte. Quindi?) in cui io, col mento appoggiato sul braccio, a tormentarmi quel poco di barba che chissà perchè non si decideva mai a crescere oltre, ero occupato a discutere con me, me stesso, e la mia coscienza. Rimandi, recriminazioni, monologhi, arringhe, sparate. La Poesia Completa, occasionalmente, dormiva sul tavolo, con il volto di lei, finchè qualcuno non tentava di girarsi a guardarla. E allora la mia prima poesia, ancora non scritta, ridacchiava da dietro il cappuccio scuro, e se ne andavano entrambe.
E il verdetto venne, la mattina di una domenica in cui cercavo di ricordare di cosa lei mi avesse parlato l'ultima volta che avevamo conversato, un paio di giorni prima, avvolto in due abbozzi di versi sciolti, che sembravano più un aforisma, in effetti, scritti con lo sguardo su una foglia giallastra che inseguiva svogliatamente una folata di vento...

“...Sai quando tremi in due modi ad un tempo?
Così si è innamorati d'inverno...”

Era ancora autunno, ma chissenefrega? “D'inverno” suonava meglio.
Purtroppo, le cose le faccio un po' a pezzi, come sapete. Per cui, quel giorno capii... ma tra il capire e l'agire lasciai passare del tempo, che si riempì di immagini, silenzi, ricordi sperati, ma mai davvero vissuti. Fino al giorno in cui vinsi la mia terza lotta più ardua, e affrontai per la seconda volta me stesso.
Feci allora la mia mossa, verso la fine di quel capitolo della mia storia. La inseguii nella mia stessa paura, la raggiunsi. Glielo dissi.
E fu allora che fallii... e caddi in un nuovo inizio.
Prima di quel momento, avevo avuto la vaga sensazione di vivere un po' a pezzi. Ero e sono la Scheggia, dopotutto, giusto? Quel giorno, invece, quando quel sorriso che apriva i miei sogni si chiuse al mio cuore, quegli occhi scuri non permisero ai miei di raggiungere l'abisso luminoso che vi risplendeva, seppi di essere in pezzi io stesso. Ero frammenti, schegge di dolore e affetto, frustrazione e comprensione, delusione e speranza, rassegnazione e coraggio, sogni e cicatrici, e ognuno di questi sembrava perdersi in un'effimera vita sua, senza avere che una vaga idea di dove andassero gli altri.

Eppure, non li persi mai di vista, e tra un sogno, un dialogo, un momento di solitudine e uno rubato con lei, li vedevo vivere ancora, cercarsi, scontrarsi, confondersi e confondere tra loro chi fossi io. Sapevo solo sentire un bisogno disperato di non arrendermi, di ripetermi che non avevo ceduto, ma non avevo idea di chi fosse a non doversi arrendere, e in quale battaglia. E le mie schegge vorticavano una nell'altra, incastrando squarci della mia vita, fino a quell'umido sole che tramontava dopo un acquazzone, e bruciava d'oro aranciato nella pozza sotto i nostri piedi, sul ponte alto sopra la stazione, mentre mi chinavo a baciarla e le illusioni e i piani di prima volavano via nel vento, lasciandoci la realtà viva di quel momento, che dimenticava tutto fuorchè se stesso.
Quando ci fermammo, nei nostri sguardi c'era una vita, e i pezzi erano di nuovo tutti insieme, vetro fradicio di gocce di pioggia, che infrangemmo di nuovo per entrare nel nostro futuro.

Ve lo dico subito, non sono stato, nè mai sarò capace di scrivere una qualsiasi poesia su questo momento. Una volta ci ho anche provato... avevo scelto un pessimo momento per farlo, però, stavo facendo qualcosa che richiedeva ascoltare almeno parte di un qualche discorso, e avevo un foglio vuoto davanti. Erano passati due giorni, ma ci vollero appena due secondi, per trovarmi di nuovo sul ponte della stazione... e rimanere rapito dentro il momento che vedevo dentro di me. Non fui capace di fare altro, e quando mi ripresi dal sogno, atterrai di fronte a dieci persone che sembravano pronte ad aprire il mio testamento, tanto pareva che mi avessero perso. Chiaramente, sbottare a ridere con la faccia sul tavolo davanti ai loro sguardi basiti non migliorò la mia posizione.
Non ci riprovai più. Comunque, avevamo entrambi una serie di cose su cui...


(La pagina successiva è quasi completamente bianca, con l'eccezione di due schizzi rosso-nerastri tra il centro e la fine del foglio. Vicino al più grande dei due, che si trova più in alto, si può decifrare da una grafia piuttosto affrettata e violenta la frase “Stupida macchia!!!”. Sotto la più piccola, scritto in maniera più stentata e sottile, si legge “...Posso??”. L'angolo in alto a sinistra del foglio è piegato e accartocciato come se fosse stato stretto violentemente nel pugno. Nell'angolo in basso a destra compare una macchia umida incolore... sembrerebbe che l'autore abbia sputato sul foglio. Il testo riprende normalmente dalla pagina successiva, ma la grafia si fa leggermente più serrata.)

 

Ok, pare che qui vada bene. Nel periodo che seguì, accadde qualcosa di paradossale, perchè non scrissi mai così tanto e al contempo così poco come in quegli anni. Un colpo di fortuna a cui non ho mai risposto altrimenti che con un “grazie” sussurato verso ed oltre le nuvole fece trovare un lavoro ad entrambi in un tempo quasi ridicolmente breve. A pensarci adesso, mi fa un po' ridere. In proporzione, forse non lo fu affatto. Lei aveva una serie di incarichi e ricerche, uno più interessante dell'altro, fin dove riuscivo a capire, e dall'aria assai mistica e pregna di significati oltre quel punto (sarà stato vero?... Bah!), che le aprirono un mondo di viaggi ed incontri dal semplicemente spossante al surrealmente istruttivo. Io invece, ero riuscito a trovare un editore. Almeno così mi dicevano, perchè pur sapendone il nome, che non mi diceva assolutamente niente, non sono ancora mai riuscito a vederlo in faccia. Ho parlato con una serie infinita di segretari, collaboratrici, para-segretarie e contro-collaboratori, girando da un'ufficio all'altro con una cartella e una pennetta USB, per ogni evenienza e per ogni possibile grado di progresso tecnologico (uno degli uffici che ho visitato aveva solo macchine da scrivere... ancora mi rifiuto di crederci). Fin troppa gente ha esaminato i miei lavori, di qualunque valore fossero per me, con occhio clinico e scrutatore, sezionandoli davanti alla mia ansia crescente. Perchè non volevano avere pietà e cacciarmi semplicemente in un unico colpo, speravo indolore?
E poi un giorno, salendo al mio appartamento con aria annoiata, desideroso di scrostarmi dalla camicia l'ultimo paio di “Le faremo sapere...” che ci era rimasto attaccato, mi ritrovai un bigliettino giallo nella cassetta della posta. La grafia era precisa e spietata (perchè proprio questo aggettivo, in effetti? Non so, ma mi è suonato “giusto”...) e intagliava le lettere con decisione. C'era scritto qualcosa di affascinante e brutale:

Aspetto una raccolta completa e curata, con introduzione di 1000 parole al massimo, entro il tempo limite di 5 settimane. Il primo assegno Le arriverà domani. Posso alzare l'offerta al massimo di una volta e mezza se il Suo tempo di consegna sarà pari o inferiore alle 3 settimane a partire dalla lettura della presente. Se si ritiene in grado di tenere il passo con i tempi che le saranno richiesti d'ora in poi, sospenda pure i contatti con altri editori, e discuteremo al momento opportuno della gestione dell'esclusiva. Se accetta l'offerta, benvenuto fra noi. Se no, auguro al suo talento la miglior fortuna dove Lei vorrà. Le auguro un buon lavoro, perchè ce n'è fin troppo ad attenderLa. Gradirei Sue notizie.Al più presto.

Salve.

 

Al termine di quella sorta di lettera di coscrizione, la firma stilettata dell'editore. Lo rilessi tre volte con gli occhi sgranati. Alla quarta, suonò il campanello. Andai ad aprire mancando un paio di volte la maniglia, e solo lo sguardo penetrante e divertito di lei che varcava la soglia mi salvò dall'ipnosi. Colsi l'occasione per farmelo rileggere almeno altre tre volte da lei, che alla terza mi abbracciò ridendo e andò in un altra stanza scuotendo la testa, senza minimamente smettere di ridere. Metà del mio cervello, finalmente convinta, lanciava per la prima volta al cielo quel “grazie!” di cui vi ho accennato, mentre l'altra alzava la cornetta e chiamava la casa editrice, bombardando di domande una povera segretaria incolpevole con paranoia quasi sovietica, finchè non mi fu passata al telefono un'altra donna, un po' più giovane, per cui mia coetanea. Al suono della voce di quest'ultima, fui accoltellato a tradimento da una strana reminiscenza e l'ombra di un sorriso lampeggiò luminosa nell'aria sempre più elettrica, facendomi quasi attaccare in faccia dopo la mia pausa inquietante di silenzio. Tuttavia, riuscii a mettermi a tacere da solo, e a raccontare di come avessi ricevuto in pratica la grazia più intimidatoria a memoria d'uomo, sulla cui autentica provenienza mi sentivo autorizzato a nutrire un ragionevole dubbio. La donna dall'altra parte della cornetta ascoltò, limitandosi ad annuire ripetutamente, per poi confermarmi con voce laconica: “Sì, è lui. Lo fa ogni volta che legge di persona un autore che ritiene promettente. Fin ora gliel'ho visto fare altre due volte. Sa che le dico? È meglio che si metta al lavoro.” E riattaccò con un sogghigno praticamente udibile. E due...
A quel punto, l'unica cosa in grado di far esplodere ancora più in fretta l'esaltazione adrenalinica e stupefatta che mi aveva conquistato sarebbe stato essere pagato con una cifra assolutamente immeritata in proporzione al mio lavoro...
Cosa che mi accadde puntualmente la mattina dopo, quando mi arrivò l'assegno. Lessi in un foglio a parte che da contratto avrei potuto incassarlo solo dopo aver confermato per telefono all'editore e aver accettato l'incarico. A quel punto, lui avrebbe chiamato la banca, e sistemato quel che mancava. La prima cosa che feci, però, fu chiamare la mia ragazza (mi fa ridere chiamarla così, ma eravamo, e siamo, ancora abbastanza giovani per non renderlo così imbarazzante, e poi tranquilli, non vi dirò come si chiama. Gioco scorretto? Certo, avevate dubbi? E poi, questa scheggia la tengo per me, so che non vi interessa più di tanto.), e potei quasi vedere il lampo di incredulità gioiosa che rimbalzava dal mio sguardo nei suoi occhi scuri. E lì sul momento, mentre con una mano reggevo la nostra eccitata conversazione telefonica, l'altra schizzava ad una penna nera vicino a un foglio di carta gialla, cominciando a scarabocchiare di sbieco...


L'ombra limpida di uno sguardo
una voce che mi sorride,
carezza del suo pensiero
il nuovo giorno che forse arride.

Brilla un occhio di risa chiare
verso un volto di notte calda...”

Lei mi riprese al volo, schiarendosi la voce con quel tono infallibile che aveva quando mirava alla mia mente dispersa tra qualche verso, afferrandola in un laccio di seta. Disse solo: “Beh, al lavoro, no?”.
E tre, ma comunque...
A quel punto, riattaccò senza rispondere altro al mio saluto, ma io sapevo che non era davvero così. In fondo, lei mi aveva dimostrato di avercene qualcuna più strana delle mie. La amo anche per questo.
Una di queste era il suo occhiolino al telefono, prima di attaccare, che non vedeva assolutamente nessuno, se non chi fosse interessato a capire quando esattamente avrebbe abbandonato l'interlocutore per tornare con i presenti. Io, però, sapevo che c'era, e ogni volta che ci salutavamo al telefono, io sorridevo per questo, e sapevo che lei sorrideva perchè sapevo.
Spesso ci divertivamo con poco, insomma. Ma con cos'altro ci si diverte davvero, in fondo?
Mi cadde l'occhio sui sei versi scarabocchiati, anche quelli in una metrica un po' strana, e non seppi cosa pensarne. Mi sembravano a metà strada tra le mie poesie “vissute” e quelle “commerciali” e mi concentrai nel pensiero, giocando col foglietto giallo su cui le avevo scritto, finchè dopo una decina di minuti, lo rigirai tra le mani, pensando forse di trovare chissà cosa sul retro...
Ah, già. Tipo la lettera dell'editore.
Schizzai su in una specie di attacco di panico, e mi lanciai alla ricerca del telefono... per poi tornare a prenderlo con aria imbarazzata, nella camera da cui ero appena uscito. Sbuffai scocciato, pur non sapendo con chi ce l'avessi, anche perchè c'ero solo io in casa, e chiamai l'editore.
Mi rispose una voce secca e dura, in cui serpeggiava una fierezza marziale. Volle sapere con chi parlava, cosa volesse costui, e quanto tempo pensava di impiegarci a dirlo. Qualcosa nel suo tono mi accese, e rivestita la mia voce di un'armatura lucente, mi armai da vero cavaliere contro quel rude avventuriero solitario, e nel mio tono più medievale non mi presentai nemmeno, proclamando metallico: “Accetto l'offerta!”
L'uomo dall'altra parte emise un “Hmpf!” secco e divertito. Poi aggiunse: “...E sia. Attendo impaziente.” E riattaccò.
Mi ripromisi di completare il lavoro entro tre settimane precise. Ero stato pagato in anticipo, lei sarebbe partita quel giorno stesso per uno dei suoi viaggi, avevo semplicemente un sacco di materiale da riorganizzare e mi sentivo come se avessi sfoderato la spada per un duello che attendevo da tanto. Abbassai la celata, e mi misi al lavoro.
Impiegai poco più di due settimane e mezza.
Pubblicai con il nome di Scheggia.

Seguì un'altro periodo...

(Il foglio è particolarmente macchiato di rosso in corrispondenza di questa frase, e in basso a destra rispetto ad essa. Tracce di coaguli rossi e nerastri sono presenti sul resto del testo, ma non impediscono la lettura. In un paio di casi sembra che la scrittura devi per evitarli.)

 

Comincio a stufarmi. Ok, più veloce, allora.
Tra le righe dei messaggi e dei contratti di pubblicazione successivi (che arrivarono, benchè il guadagno fosse lento. A incoraggiare la casa editrice fu il fatto che tuttavia non diminuisse di intensità... apparentemente i miei lettori si passavano parola solo con frasi molto lente a calcolate, e tra non più di due eletti al mese. Mah!) cercavamo di intravedere qualcosa del misterioso uomo dietro gli assegni.
Il fatto che non l'avessi mai incontrato, per qualche mistica concatenazione di suoi impegni e miei, e che nonostante ci fossimo soltanto scagliati qualche scheggia di discorso per iscritto e per telefono, lui continuasse imperterrito a pubblicare, praticamente ordinandomi di avere una qualche ispirazione, lo rendeva per me una sorta di strano ammiratore segreto, di cui tuttavia sapevo il nome, e che per qualche motivo riusciva a comandare la mia poesia con il pugno di ferro.
Dico “cercavamo”, ma il fatto è che lei, per quanto fosse la meno interessata, era sempre quella che riusciva a trovare qualcosa in più, una voce, un pettegolezzo, un indizio, su un editore che scoprimmo non essere elusivo solo verso di me.
Nessuno aveva una sua foto. Le descrizioni non mi facevano capire granchè.
Era sempre sbrigativo e imprevedibile come avevo avuto modo di vedere. Parlava con poche sfumature di voce diverse, tutte in qualche misura minacciose. La maggior parte delle sue frasi erano estremamente precise e asettiche, come se scrivesse costantemente un rapporto di polizia.
Il suo sguardo era sempre stretto e puntato come un'arma contro qualcosa o qualcuno. Spesso sorrideva, ma non era un sorriso che tranquilizzasse. Semmai, un ghigno da spadaccino.
Amava la campagna, e pare lo sport. Ci dissero che si vestiva spesso come se dovesse andare in giro sui pattini (qualcuno giurò di averlo visto passare un'intera mattina girando per l'ufficio coi rollerblade, mantenendo tuttavia la sua compostezza marziale. Mi sogno di notte la scena, da quel momento.), ma non specificarono esattamente in che modo. Era impaziente, e forse irascibile.
Aveva la nostra età... questa fu la parte più difficile da credere. Aveva risollevato la casa editrice degli zii, che gli era stata lasciata sull'orlo della chiusura. La sua segretaria, a voce bassa, sussurrò che anche lui scriveva poesie, che però nessuno aveva mai letto.
Era fidanzato.
Da molto tempo, con una donna dal carattere del tutto diverso, che ogni volta che si riferiva a lui, inspiegabilmente si esprimeva nello stesso modo e con lo stesso sguardo. Nessuno aveva il coraggio di chiedersi se succedesse anche il contrario, e come si parlassero tra loro. Chiunque, in ogni ufficio, era certo che non si sarebbero mai lasciati. Pochi li avevano effettivamente visti insieme.
Mi veniva in mente il tono secco e laconico della donna dai capelli rossi con cui avevo parlato al... aspetta, perchè avevo pensato che avesse i capelli rossi?
Pareva comunque che avessi trovato pane per i miei denti. Lavoravo per qualcuno molto più strano di me.


La maggior parte di questi dettagli ce li raccontò una coppia sposata, in cui la moglie lavorava ai cataloghi della casa editrice. Il marito, invece faceva lo stesso lavoro della mia ragazza, e si erano incontrati in precedenza. Li incontrammo, anzi, li fermò lei e li invitò a cena con noi, in una settimana particolarmente frammentata, che mi ha lasciato quasi solo immagini di edifici piuttosto anonimi, e di sale in cui assistevo, dall'ovatta bluastro della platea in penombra, allo spettacolo per me insolito, affascinante e stranamente struggente di lei che parlava a pletore di estranei da un palco. Era stata sua l'idea, (cosa di cui forse mi sentii in colpa) ma nel momento in cui me lo propose, mi parve di non volere altro che seguirla in uno dei suoi viaggi di lavoro, di dimenticarmi al suo fianco, e osservarla come la vedevano gli altri, beandomi perchè sapevo di poterla vedere come nessuno l'avrebbe mai vista, e perchè sapevo che era così che il suo sguardo passava sulla mia sagoma nella folla, per poi tornare alla sala, seguendo la scia di quel sorriso stanco e dolcissimo, che conoscevo da quella mattina di giugno all'università.
Il secondo giorno, dalla poltrona accanto alla mia dardeggiò un rapido affondo diretto alle mie costole, che mi fece scattare su come se fossi stato pugnalato. Solo quando mi ripresi, percependo fra l'altro gli sguardi ostili di astanti perplessi, mi resi conto che oltre a prendermi di sorpresa la gomitata non mi aveva fatto assolutamente nulla. Mi girai verso destra, pronto a sibilare il mio sdegno contro il maleducato sicario... e mi accolse il sorriso del mio vecchio amico, che sogghignava della mia trance romantica. Non riuscii nemmeno a chiedergli che ci facesse lì, e restammo a sogghignarci nella penombra della sala. Ci divertivamo con poco, no? A quel punto, non avrei più potuto seguire davvero una sola parola della conferenza, e la mia mano scattò alla penna, tormentandola fin quando non fui in un posto illuminato e con qualche pezzo di carta davanti. Per un inconscio senso del teatro, mentre cercavo di riportare l'attenzione su di lei, cominciai a starnutire con un vigore degno di miglior causa. Al primo accenno della terza bordata, il mio amico mi passò un fazzoletto. Lo ringraziai sparendoci dentro in un lampo. Quando ebbi finito, mi parve stranamente scuro. Lo buttai uscendo senza farci troppo caso.
Da quella settimana, ricavai del materiale per un'altra raccolta. A lei, purtroppo, il lavoro andò male. Il progetto che stava presentando si mise d'impegno per naufragare in svariati modi ad un tempo, alcuni dei quali incomprensibili ai non addetti ai lavori, e un paio quantomeno fantasiosi perfino per lei.
Mi disse scherzando che...

(Gli angoli inferiori del foglio sono accartocciati nello stesso modo notato in precedenza.Il foglio seguente è vuoto e chiazzato in più punti di macchie rosse, che presentano coaguli chiaroscuri, tendenti al nero verso la parte bassa del foglio. Unica eccezione è una frase, tracciata diagonalmente in uno spazio tra le due macchie più grande, che recita in una grafia molto rapida e calcata: “NON ORA!!! TI PREGO, NON ORA!!!” Il testo riprende dalla pagina successiva.)

 

...Sembra che se ne possa parlare, dopotutto.
La convinsi a uscire, e camminammo a lungo, stretti tra le foglie luminose della sera, nella carezza degli alberi che ci accompagnavano lungo quei viali stranieri. Una delle sere più belle che avessi mai visto, e lei stretta al mio braccio, il viso ovale arrossato, quegli occhi scuri e bellissimi che a volte si stringevano mentre tutto il suo volto si contraeva in quella strana maniera felina che aveva quando pensava... o, alle volte, quando cercava di non piangere. Resistetti alla tentazione di buttar giù un appunto, almeno mentale, per comporre qualcosa, e dovetti lottare, finchè non scacciai quasi con risentimento il poeta, tacciandolo di un'egocentrismo che in fin dei conti era tutt'altro che un'esclusiva di quella parte di me.
Lei aveva bisogno di amore in quel momento, non di rime. In quel momento mi disprezzai in un modo che non avevo mai sperimentato prima. Libero dalla patina di autocommiserazione che avevo avvolto intorno agli altri errori che mi riconoscevo, e per un istante mi odiai così tanto, così furiosamente, da rifiutare di ammettere che quello a cui stavo pensando fossi io... capendo così qualcosa di me.
Nello stesso momento mi resi conto che avevo voluto scacciare il poeta egocentrico per rimanere a congetturare su quanto fossi egocentrico io. Sorrisi sarcastico, e richiamai indietro il poeta. Era lei l'importante. Volevo esserci per lei, con lei, in quel momento... da quel momento in avanti. Le mie beghe con me stesso erano idiozie. Non ero un poeta, non ero un egocentrico, non ero chicchessia. Ero la Scheggia, e la amavo. La abbracciai ancora più stretta, passai una mano nei suoi capelli e le sorrisi. Lei mi strinse, e mi chiese se mi era venuta in mente qualche poesia. Risi, e componendo per metà sul momento, recitai:

...”

Tutto sommato, questa era nostra, e non la darò via così... spero possiate capirmi.
La sera finì, dapprima tramontando rossa sul nostro abbraccio, e poi vorticando lattea di stelle scagliate invano contro le luci della città, che noi non riuscivamo a vedere, eppure sprizzavano di una luce lancinante le nostre ombre calde.
I giorni che vennero in seguito li vissi come vedendoli gradualmente attraverso l'alba che seguì il mio risveglio da quei momenti, riacquistando coscienza completa solo per gradi. Forse furono i giorni che vissi di più come schegge. E tuttavia, quei frammenti si rincorrevano e riflettevano gli uni negli altri, sempre più vicini a dare alla mia memoria una forma... sempre più prossimi a convergere verso la fine della storia.
Cominciarono quando quella coppia sposata di cui vi avevo accenato offrì alla mia... ah, non ci riesco, insomma a lei, un'opportunità insperata, per una spinta di quel sangue d'angelo che scorre negli sguardi e nelle parole di alcune persone... quella strana forza che più viene impiegata e donata, più si rafforza. Tornando prosaici, ci ospitarono per una vacanza in una località di campagna, dal nome che mi faceva uno strano effetto, dove avevano affittato per un certo periodo una casa con spazio per quattro o cinque persone, pur essendo solo in due. Nello stesso momento, si offrirono di aiutarla a scrivere un saggio completo ed esaustivo sul progetto da lei proposto a quell'ultima deludente conferenza e farlo pubblicare dal mio misterioso editore... così da trovare terreno più fertile e aperto di mente, e restituire il prestigio alla sua carriera nascente.
Mentre l'auto dei nostri generosi amici rivoltava con strana dolcezza la polvere dello sterrato, io mi perdevo tra il cielo azzuro e sereno del paesaggio, e quello nocciola scuro e luminoso, che splendeva di dubbi e speranza negli occhi di lei, dandomi con bonaria e un po' assurda disapprovazione dello stupido per non avere avuto io un'idea del genere.
Tuttavia, man mano che ci avvicinavamo alle colline che ospitavano la nostra destinazione, il profilo dei boschi cominciò ad ammicarmi malizioso. I pendii erbosi mi coglievano di sorpresa, ridendo con un beffardo affetto dei miei occhi che si sgranavano sempre di più, e più ci avvicinavamo, più il nome di quel luogo lampeggiava nella mia memoria, risorgendo dai luoghi in cui la mia infanzia aveva relegato nomi, strade, paesaggi, e tutto quello che non giudicava un'esperienza divertente o eccitante... senza mai dimenticarlo, però. E quando svoltando all'ultimo tornante prima della casa, mentre il sole cominciava la sua picchiata rossa trasformandosi in un occhio di fiamme ridenti, vidi il prato, il pendio, e quella quercia immensa...

Tocco d'antica intesa
dell'occhio che il ciel declina,
Tramonto sulla contesa,
ritorno sulla collina.

Forse non sono io,
non sono più che torno
Ridona al mio cuore, o Dio,
il cuore ch'ebbi quel giorno...”

Chiusi gli occhi, mentre quasi ansimavo di eccitazione, e composi sussurrando impercettibilmente, sul momento. Non smisi di mormorarla sottovoce o di ripeterla nella mia testa, finchè non ebbi trovato una penna e qualcosa su cui buttarla giù, inchiodare il mio trofeo prima che mi sfuggisse. Penso di averla scritta sul retro di uno scontrino che trovai nel mio portafogli, la prima volta. Ero conscio che la mia reazione era stata forse eccessivamente vistosa. Lei sfoderò un sorrisetto di sbieco, e mi riprese al volo con un lampo degli occhi, invitandomi con un cenno a bere la tisana che mi offriva (ma quando l'aveva preparata? Eravamo praticamente appena entrati... come sapeva dov'era tutto quanto...? Bah... ci rinuncio). Accolsi con uno sbuffo divertito il suo invito implicito ad andare a dormire presto. Quando me lo suggerì con un bacio, tuttavia, lo presi tremendamente sul serio.
Disteso nella mia stanzetta al piano di sopra, con il cielo fresco che mi osservava dalla finestra, mi chiedevo come avessi potuto dimenticare il nome di quel luogo... il luogo in cui era nata la mia prima poesia. In cui avevo ricevuto il nome che ancora adesso credo sia il mio vero nome. Il luogo della mia prima sfida, del duello, quando avevo affrontato lo sguardo spietato del bambino con le ginocchiere nella scazzottata sopra la quercia. Mi risposi che forse era quella la ragione... di quei giorni, non ricordavo nemmeno un nome, e tuttavia i frammenti di immagini, la memoria dei momenti era vivissima. I nomi, i ricordi precisi, i numeri e le parole... tutto questo era sparito, nascosto ed inciso negli occhi grigioverdi del mio antico rivale.
Sorrisi, rigirandomi nel letto un po' stretto, mentre pensavo a quanto quei momenti fossero stati ridipinti e ingigantiti dalle mie emozioni, quanto fossero in realtà scene semplici, piccole e povere, e quanto quella purezza semplice, quella povertà luminosa, quell'odore di terra, sudore e pioggia fossero la loro vera bellezza, la loro epica. Sorrisi, e tutt'a un tratto un sorriso bianchissimo, timido e sopreso, ma curiosamente fiero ricambiava il mio.
Più colpito che addormentato (dopotutto, era tutt'altro che tardi), rimasi per un po' intontito, mentre la figurina sulla porta assumeva un'aria imbarazzata. Ripresomi, la mia mano corse all'interruttore che avevo sul comodino, e illuminò la bambina perplessa che mi fissava sulla soglia. Toccò a me assumere un'aria allibita. Dopo ancora un paio di istanti, sorrisi e la salutai. Lei, il cui sorriso stava vacillando, tornò raggiante, e rispose con un grazioso gesto della mano, e una voce cristallina.
Sempre perplesso, stavo per parlare, quando d'un tratto mi venne in mente che i nostri ospiti avevano accennato anche a questo: in quegli stessi giorni avrebbero ospitato la figlia di alcuni loro cari amici di famiglia, che avrebbero dovuto essere lì al nostro posto, ma non riuscendoci per imprevisti lavorativi non avevano voluto rinunciare a mandare la bambina in vacanza in quei luoghi che, se erano ancora come li avevo vissuti, sarebbero forse rimasti nella sua memoria per sempre.
Confesso che me ne ero completamente scordato, finchè la bambina in questione, accompagnata dai suoi dopo la mia ritirata post-tisana, non era venuta a cercare la sua stanza al piano di sopra, trovando invece la mia. Le chiesi come si chiamava, e mentre mi rispondeva, raccontandomi quello che avevo appena ricordato, ancora un po' timidamente, riuscii a guardarla un po' meglio.
Era senza dubbio la bambina più bella che avessi mai visto.
Abbastanza alta per la sua età, la pelle color cioccolato e un sorriso luccicante sul visetto sveglio e tenero, incorniciato da treccine di un nero corvino, una posa a un tempo timida e altera e una scintilla scura e ridente negli occhi, che mi ricordavano così tanto quelli della donna che amo, teneva le mani giunte dietro la schiena, dondolando sul posto. Mi chiese chi fossi io, e volle a tutti i costi rimanere lì a chiaccerare... ( “Che la cerco a fare la mia stanza, se ho trovato un posto dove mi annoio di meno?”).
La cosa mi divertiva, e così chiaccherai, per assecondarla. Dopo qualche minuto, inciampammo nell'argomento “poesie” (lei stava iniziando a studiarne a scuola, pare), e mi lasciai sfuggire che ne scrivevo anch'io. Dopotutto, chiaccheravamo per gioco, e quello mi era parso un bel tiro.
Fu allora che lei strinse gli occhi e assunse un'aria pensosa. Ricominciò a dondolare sul posto, mentre io mi chiedevo se non avessi detto qualcosa di noioso o avventato che mi era sfuggito. La bambina si fermò, piantò il viso scuro nel mio, e cinguettò con tono serio: “Me ne fai leggere qualcuna?”
La vidi deglutire, e mi accorsi che ero rimasto a bocca aperta, e con gli occhi sgranati, e l'avevo spaventata. Sentendomi in colpa, tornai a sorridere, ma mi resi conto che ero addirittura arrossito... Come ho già detto, non ho mai davvero imparato a mostrare le mie poesie. Nemmeno agli editori che avevo contattato agli inizi, mi presentavo solo a quelli a cui avevo già inviato il materiale, e raramente ero presente mentre lo leggevano per la prima volta. Nemmeno a Lei (perchè in questa storia le “lei” sono appena diventate due) facevo vedere spesso qualcosa... mi limitavo a lasciare tutto in posti dove Lei l'avrebbe di sicuro trovato, con un sorriso indulgente, per poi venire, se voleva, a dirmi che ne pensava. O semplicemente a sorridermi di nuovo, con una dolcezza diversa, che aveva un messaggio per me.
Non ci riuscivo, e forse non ho mai voluto riuscirci. Ma la bambina continuò a fissarmi, tormentandosi una treccina con le mani, e il suo sorriso lampeggiò esitante nel visetto color gianduia, mentre sospirava: “Per favore...”
La guardai negli occhi, e in lei splendette qualcosa.
Feci un profondo respiro, e sorrisi, avvicinandole una sedia. “Aspetta un secondo.” le dissi, e mi sedetti sul letto, spalancando la valigia che non avevo ancora disfatto. Avevo le prime due raccolte che avevo pubblicato a portata di mano. Allungai la mano, e guardai ancora la bambina. Si era seduta e attendeva concentrata. Mi fermai, e scostai i due libri, e il cambio che avevo sotto, fino a giungere alla grossa cartella di pelle, che Lei mi aveva regalato un po' di tempo prima, dove tenevo praticamente tutti i manoscritti originali più importanti e quelli ancora inediti. La presi e la aprii, estraendo i fogli più preziosi, che tenevo in mano solo io. C'era il quaderno con la mia prima poesia “vissuta” e perfino la poesia scarabocchiata sulla prima lettera del mio editore misterioso. Misi una mano in tasca, ed estrassi anche lo scontrino su cui avevo scritto all'arrivo.
Avevo in mano quelli che forse erano gli oggetti concreti più preziosi della mia vita.
Diedi tutto alla bambina, senza la minima esitazione.
Lei ricevette il mucchio di fogli dalle mie mani, e se lo pose sulle ginocchia con una delicatezza incredibile, per poi cominciare a sfogliarlo con espressione assorta e serissima, mentre io sedevo sul letto in attesa del verdetto più importante della mia carriera.
Leggeva con espressioni di eloquenza impenetrabile, lampeggiando di tanto in tanto con gli occhi, o aprendosi in scintille di sorrisi candidi, a volte sgranando un po' gli occhi, e rimanendo per istanti tortuosi a fissare perplessa il soffitto, dondolando sulla sedia. Ogni tanto si mordicchiava un labbro, e tornava indietro di una pagina, poi avanti di tre, chiudeva e riapriva a caso, rideva, bisbigliava, silenzio.
È strano pensare che la lettura più emozionante della mia vita in effetti fu letta da qualcun altro.
Ad un tratto, accese un ultimo sorriso timido e si alzò, cullando delicatamente la pila di fogli e me la porse di nuovo. Sorridendo anch'io, sussurrai: “Cosa ne pensi?”. In quell'istante, mi sentii legato e in bilico sull'orlo di un baratro. Ma la bambina mi tese la mano, con uno sguardo amichevole e pensoso: “Sai, non le ho capite molto... ma quello che ho capito era molto bello.” Lo disse tutto d'un fiato, e sempre sorridendo corse alla porta. Dopotutto era tardi e doveva pur trovarla la sua stanza, anche se era noiosa, no? Sulla soglia, si fermò con una mano appoggiata allo stipite, e voltandosi chiese: “Mi puoi insegnare a scriverne qualcuna, domani?”
Beh, quello fu davvero... inaspettato. Miliardi di risposte mi vennero in mente ad un tempo, per esempio che non sapevo se si potesse insegnare qualcosa del genere. Ci misi un po' per far quiete nei miei pensieri, un po' di tempo in cui immagino di aver avuto un'espressione piuttosto ebete, tra l'altro.
Alla fine, le risposi: “Posso aiutarti a farle uscire fuori. Ma devi prima trovarle dentro di te. Dormici su, a domani.”
Lei annuì, e sparì al trotto, cinguettando: “A domani! Buonanotte, Signor Biondino!!”.
Tra il perplesso e l'offeso, mi passai una mano nei capelli chiari (Signor Biondino?) e ridacchiai, prima di mettermi a dormire. Tossii un paio di volte, a bocca chiusa, e mi addormentai senza altri problemi.
Al mattino, avevo un sapore un po' strano in bocca, e nessuna idea di cosa aspettarmi dalla giornata.

Subito dopo colazione, la bambina praticamente mi trascinò fuori con la scusa che ero l'unico ad essere già stato lì, e il migliore, quindi, per mostrarle il posto. I nostri ospiti ci guardarono uscire sorridendo di cuore, insieme a Lei, nel cui sguardo percepivo qualcos'altro, di impenetrabile e dolce. Salutai con sorrisetto, e accompagnai la mia piccola rapitrice fino alla quercia. Era un'ottima camminatrice, e scoprii che se la cavava anche ad arrampicarsi. Guardando il paesaggio dal suo seggio di rami, mi sfidò a salire. Risi, e scherzai sul fatto che ero troppo vecchio per quel tipo di cose. Lei mi rispose che allora ero troppo vecchio anche per le poesie. Sogghignai e afferrai un ramo, issandomi in pochi istanti fino a dove si trovava la bambina. A quel punto, per pura vanteria, mi sedetti anche un pochino più in alto, e la osservai estrarre carta e penna da non so bene dove... aveva davvero pensato a tutto, quindi. Risi ancora di più.
E allora cominciammo a scrivere. Lei osservava quello che aveva davanti, qualunque cosa fosse (il primo tentativo fu su un cervo volante... surreale ma bello) oppure iniziava a raccontare una storia, e si fermava appena vedeva o diceva qualcosa che le sembrasse d'ispirazione. A quel punto, provavamo un verso ciascuno, e ci scambiavamo qualche opinione. Era brava, sapete? Per la sua età, aveva un talento. Non posso dire “più brava di me allora”, perchè alla sua età ancora non avevo scritto nulla, ma tuttavia...
Ad un tratto, mentre eravamo presi ad inventare similitudini improbabili riguardo una nuvola di passaggio, avvertii un tremore caldo attraversarmi il collo e la spalla. Preso di sorpresa, mi girai di scatto, per ritrovarmi negli occhi di Lei, seduta accanto a noi in quel largo nido fra i rami. La sua mano ancora indugiava sulla mia schiena, lasciandovi quella sensazione fantastica, e stava salutando la bambina con un sorriso delicato. Quest'ultima ricambiò il sorriso, e si lasciò scompigliare affettuosamente le treccine, ma non volle dirle cosa stessimo facendo di bello. Io stetti al gioco e mantenni il segreto. Non avrei parlato comunque. Vederle entrambe, Lei e la bambina, sedute tra le schegge di sole, nelle braccia forti dell'albero secolare, mentre un vento verde smeraldo odorava di vita, mischiato all'aroma dell'erba, nel bacio del sole mattutino, era e sarà l'istante per cui rivivrei la mia vita, così come l'ho vissuta fin'ora.
Per poterle vedere ancora così... chi avrà bisogno di rime, di palazzi dorati, di terre lontane, se potrà dire di aver visto questo? Di aver visto chiara di fronte a lui, la prova di aver amato e vissuto?
Un paio di voci allegre trillarono dai piedi dell'albero. I nostri ospiti volevano sapere se la bambina avrebbe gradito una un po' di crostata alle fragole appena sfornata. Lei sgranò gli occhi, pigolò un saluto verso di noi, e si fiondò giù dall'albero, facendoci quasi prendere un colpo, per poi correre a casa per la meritata merenda.
Rimanemmo solo io e Lei, seduti sulla quercia. Le porsi la mano. Lei la strinse, e restammo così per un po', a contemplare il vento. Nei suoi occhi, vidi la stessa strana emozione di quando ero uscito quella mattina. Le sfiorai il viso con delicatezza, chiedendole a cosa pensasse. Lei posò un bacio sulle mie labbra, e si appoggiò a me, sorridendo. Chiuse gli occhi, e dopo un po' mi rispose, mentre anch'io mi appoggiavo a lei: “Mi stavo chiedendo come saresti come padre...”
Accarezzandole i capelli, replicai: “Pensavo la stessa cosa.”
La chioma della quercia danzava ancora su di noi, spargendo foglie di cielo azzurro sui nostri visi, quando qualcosa mi colpì, come una morsa allo stomaco. Mi sentii contrarre e tremare, e fui scosso da un accesso di tosse più forte di quelli che avevo avuto in quei giorni. Starnutii violentemente una, due, tre volte, e Lei sussultò, voltandosi preoccupata e afferrandomi per un braccio. Un calore umidiccio strisciò giù per i miei polsi, e quando scostai le mani da davanti alla bocca, le trovai chiazzate di rosso, zuppe di un odore ferroso. In mezzo al sangue, alcune tracce di qualcosa di nero...
Rimasi lì, col fiato spezzato, gli occhi sbarrati e le braccia che tremavano. Respiravo a singhiozzi, a metà tra il terrore e l'angoscia, e sentivo di non avere controllo su me stesso, ma non potevo farci nulla, assolutamente nulla...
Cominciai a piegarmi all'indietro, rischiando di perdere l'equilibrio e cadere, schiantandomi ai piedi della quercia. Non avevo paura. Solo quella certezza. E invece, Lei mi prese al volo, corpo ed anima, con la forza di quelle braccia che sembravano esili, col suono della sua voce rotta che tentava di rassicurarmi, col suo tocco caldo e tremante che mi stringeva a sè. Riuscì a salvarmi, come solo Lei aveva il potere di fare, e ripresi coscienza, abbracciandola con tutta la forza che avevo. Mentre Lei ricambiava la stretta, mi sentii in colpa per averla spaventata, per come avevo rovinato quel momento, perfino per il sangue che le avevo inevitabilmente lasciato addosso... per ogni cosa.
Accarezzai le sue lacrime, e la baciai, chiedendole senza una ragione di perdonarmi, stringendola e consolandola per restare lucido in quella pozza viscosa e crudele di sangue e paura. E d'un tratto fu lei a chiedermi scusa, dicendo che avrebbe dovuto sostenermi, invece di lasciarsi andare in quel modo.
Le risposi che nulla avrebbe mai potuto sostenermi di più. Piangere è amare, ed amare da più forza di ogni altra cosa. Ci baciammo ancora, piangendo entrambi.
Scendemmo dalla quercia appoggiandoci l'uno all'altra, e tornammo alla casa ai piedi della collina, nascondendo accuratamente i vestiti sporchi di sangue.
Quella sera, parlammo con i nostri ospiti, restando molto sul vago su cosa esattamente fosse successo. Capirono più di quanto sperassimo. La sera stessa, chiamarono un medico di loro fiducia, che sarebbe venuto a trovarci la mattina dopo. La mattina, dissero alla bambina che noi due avevamo da fare dei lavori noiosi per sistemare la casa, e loro invece avevano pensato di fare una piccola gita al grande lago lì vicino. Era un lago calmo, accogliente e fresco, nato da un antico cratere. Un posto fantastico, in cui erano sicuri che lei si sarebbe divertita. La bambina accettò subito con piacere, ma non volle partire prima di avermi fatto promettere che avremmo scritto un po' al suo ritorno. Accettai di buon grado, e la salutai con un abbraccio, e un buffetto alle guance scure.

(Fatta eccezione per alcune spiegazzature, le ultime cinque pagine sono quelle nello stato complessivamente migliore, e con la maggiore continuità. Sembrerebbe che nella stesura di questa parte l'autore abbia lottato per trattenersi. Deduco che le maggior parte delle chiazze di sangue lasciate sul resto della scrivania risalgano al momento della composizione di questa frazione di testo. È stata necessaria una ricerca breve ma accurata per individuare il proseguimento del testo tra i fogli successivi, disposti quasi in ordine sparso. Alcuni di essi presentavano solamente le chiazze rosso-nerastre presenti sui precedenti, senza tuttavia segni di scrittura o di tentativi in tal senso. Tuttavia, è possibile ricomporre il testo rimanente. Lo stesso si può dire più avanti, ragion per cui non ho ripetuto questa annotazione.)

 

A questo punto, vi sarà chiaro che quella visita del medico nella mia stanzetta al piano di sopra è il motivo per cui ora, due giorni dopo, mi trovo qui, a ricomporre i pezzi della mia storia. O a lasciare che siano loro a ricomporsi da soli, forse.
Fu sintetico, onesto, e il più umano possibile, ma non c'era compassione in quello che aveva da dirmi.
Passò praticamente tutta la mattina tra un controllo e l'altro, e alla fine assunse un'espressione impassibile, come in attesa di reagire alla mia. Non ebbi un'espressione particolare, temo. Al limite, mi sentii svuotato, quando ebbe finito.
Non ricordo nemmeno come si chiami la malattia.
So solo che provoca una degenerazione rapidissima dei tessuti polmonari (ecco cos'era il nero, allora), e la lacerazione dei tessuti circolatori e mucosi (ed ecco cos'era il giallastro). So che è congenita, e che può restare latente ed attivarsi nel giro di di un mese, ma è estremamente rara (scoprimmo quella mattina che nella mia famiglia, in cinque generazioni, c'era stato un unico altro caso). So che il gene responsabile non può più essere trasmesso una volta che la fase acuta è cominciata, e che ancora nessuno sa il perchè di questa particolarità.
So, grazie a Dio, che non è contagiosa.
So che può essere rallentata di molto, e forse, con la ricerca degli ultimi anni, addirittura sconfitta se diagnosticata ed aggredita nella fase iniziale.

So di aver superato quella fase da almeno due settimane.

E ricordo che quando ci lasciò, non sapendo bene che cosa dire o fare, c'era una lacrima, una sola, perfino negli occhi del medico.
Ricordo che quella mattina non lasciai mai la mano di Lei. Che i suoi occhi scuri trafissero i miei, bruciando il suo pianto, promettendo con il suo sussurro di non abbandonarmi mai. Che non facemmo altro che stringerci sempre più forte, più intensamente, più disperatamente, finchè non sapemmo più dove finiva l'uno e cominciava l'altra.
Quando ci svegliammo, nel pomeriggio, passammo per il soggiorno, e tanto per fare accendemmo il vecchio televisore, che avevamo ignorato nei due giorni precedenti. Vorrei non lo avessimo fatto. La prima cosa che vedemmo fu un servizio straordinario del telegiornale, che avvertiva di un disastroso incidente d'auto sulla strada del ritorno del lago. Non si sapeva quante persone ed auto fossero coinvolte, quanti morti o feriti, e tuttavia l'orario in cui era avvenuto l'incidente era proprio quello durante il quale avrebbero dovuto essere sulla via del ritorno e...
Pallido, sconvolto, e sentendomi estraniato da tutto il resto afferrai il primo pezzo di carta che mi trovai sottomano ed estrassi la penna come un pugnale...

Lampo di voci sorde
eco che muore altrove,
Un istante, ti prego, un istante
da dolore a dolore.

Tremo, rinvengo, cado
su una polvere di terrore
Chiamate, parlatemi, un grido
sfiorate il mio cuore.

Memoria che teme il pianto,
coraggio che piange al sole
Quel volto ritorni al giorno,
nel buio il mio nome.

Prego Dio che il mio mondo menta
e abbia ragione il mio cuore...”

Mi fermai con una sorta di rabbia sorda, fissando il foglio con vergogna sconvolta. Mi accusai ferocemente, profittatore e avvoltoio, maledetto ipocrita!! Ero sereno, per quanto potesse essere assurdo, e mi odiavo per questo. Mi odiavo perchè scrivere mi aveva calmato... perchè i nostri ospiti potevano essere feriti o morti, la bambina ferita o morta!!! E io mi ero curato soltanto di me, di calmare le mie piccole e grette angosce costruendogli in anticipo una tomba in versi!!! Gridai, ma non mi permisi di pensare che volevo morire, o idiozie simili. Odio anche solo pensare di arrendermi o di desiderare scappatoie. Inoltre, pareva che non dovessi nemmeno occuparmene io...
Ero sul punto di disintegrare il foglio che ancora vedevo come un abominio, quando la mano di Lei mi serrò la spalla in una morsa, e vidi i suoi occhi, arrossati ma duri, e in quell'acciaio nocciola tornai di nuovo me stesso. Ancora una volta mi aveva salvato, permettendomi di perdonarmi. Le dissi quello che avevo pensato della poesia. Lei la lesse e scossa la testa forzando un sorriso. “Tienila e prega.” mi disse. Lo facemmo, insieme.
Quella sera, tardi, sotto un cielo freddo ma compassionevole, un rombo di ruote sullo sterrato di fronte alla casetta in collina ci riscosse dall'attesa sofferta e assonata, e la porta si spalancò sulla notte stellata, mentre i nostri due ospiti rientravano stanchi e nervosi, tenendo in braccio una speranza dormiente color cioccolata, abbandonata con le braccia al collo della moglie, un mezzo sorriso sognante sul piccolo viso dolce.
L'avevano vista brutta, evitando di poco l'incidente principale, senza tuttavia riuscire a schivare del tutto il tamponamento conseguente. La macchina se l'era cavata con due consistenti ammaccature, la piccola con un grosso spavento. Il più difficile era stato sbrigare tutte le procedure, i controlli, e trovare una strada per il ritorno che non creasse loro problemi, a causa della chiusura della via più breve e di alcune altre. Erano più stremati e storditi che altro, ma ancora molto scossi e preoccupati per la bambina. Io e Lei ci guardammo, e pensammo la stessa cosa. Quando ci chiesero cosa avesse detto il medico rispondemmo che l'aria di campagna e il riposo mi avrebbero fatto bene.
Sembrarono guardarci attraverso, ma tacquero, e ci augurarono la buonanotte. Io stesso portai la bambina nella sua stanza, e la misi a letto. Non si svegliò lungo il tragitto. Le diedi un rapido bacio sulla fronte, e sussurai: “Dormi bene.”

 

 

La mattina dopo, fu Lei a svegliarci tutti quanti di buon mattino, trascinandomi a preparare la colazione. Da qualche angolo del suo cuore, aveva fatto sgorgare una sorgente inesauribile di luminosa energia vitale, che esplodeva dal suo sorriso e dalla luce fiera di quegli occhi così profondi, come se l'avesse tenuta in serbo per questo... per me.
Sotto quel tocco, sotto il calore della sua mano che stringeva la mia precipitandoci giù per le scale, sentii di poter bruciare senza esaurirmi mai. Sentii che avremmo potuto schiantare ogni tenebra, insieme. Mi passò la sua forza, e le spire dell'abisso che mi braccava furono ceneri sotto i miei piedi.
Mentre apparecchiavamo fischiettando per tutti, il motivo singhiozzò e inciampò su se stesso, ed io avvertii una fitta al petto, mentre un accesso di tosse tentava di cogliermi di sorpresa. Appoggiato al tavolo, lottavo furiosamente contro il leggero tremore che mi percorreva, ed ero sul punto di tossire il rifiuto avvelenato che mi soffocava. Portai la mano alla bocca di scatto... ma Lei fu più rapida. Fu sulla sua mano che tossii con violenza, dopo che mi aveva raggiunto e afferrato per aiutarmi. Rimasi in silenzio per qualche istante, col fiatone, e la mano delicata di Lei ancora premuta sulle mie labbra, mentre mi abbracciava con l'altra, tenendomi forte. Fui sul punto di singhiozzare, ma sentii che la sua stretta tremava. Percepii che la luce nel suo sguardo si era offuscata, che il suo stesso respiro lottava contro la disperazione. Senza la sua forza, non avrei mai potuto resistere.
Così, fui io stesso a restituirgliela. Ricacciai le lacrime, costrinsi il mio respiro a tornare normale, riaccesi il mio sguardo, forgiai di nuovo un sorriso, e mi voltai verso di Lei sussurandole che stavo bene, ora. Insieme, guardammo la sua mano. Era intatta e pulita, fresca come lo era sempre stata. Lei sorrise con gli occhi lucidi, e mi baciò, sussurrando di non aver mai amato così tanto gli starnuti e i cari, soliti raffredori. Io ricambiai il sorriso, ma prima di ricambiare il bacio fui rapido a deglutire, inghiottendo il sangue che avevo lottato così tanto per trattenere. Vidi la luce tornare in Lei, e ringraziai la verità per la sua discrezione.
Quando finalmente furono tutti a tavola, ebbi due sorprese: per prima cosa, Lei e la bambina avevano deciso che avremmo fatto un'altra passeggiata fino alla quercia, e soprattutto, che quella mattina volevamo scrivere qualcosa tutti e tre insieme. Molto divertito dallo scoprire che cosa pensavo di fare, accettai con un ghigno.
A quel punto, toccò ai nostri ospiti raccontarci l'ultima notizia. Lui raccontò che quella stessa mattina, sua moglie aveva contattato l'editore, per informarlo della proposta riguardo al saggio che avevano proposto a Lei di scrivere. Lui era sembrato interessato, il che equivale a dire che aveva dato una risposta verbale molto simile al biglietto che aveva inviato a me tempo addietro. Lampeggiai uno sguardo di trionfo verso di Lei, che ricambiò con un occhiolino e ringraziò per la buona notizia. A quel punto la moglie sogghignò e aggiunse che aveva chiesto quanto sarebbe durata ancora la loro vacanza. Sentendosi rispondere che saremmo rimasti lì ancora un giorno, aveva commentato con il solito, marziale e beffardo “Hmpf!”.
Quando invece la donna aveva accennato alla mia presenza, a risponderle erano stati alcuni densi attimi di silenzio, seguiti da una frase secca e metallica: “...Domani sarò lì.”
A quel punto, aveva riattaccato di scatto, senza la minima possibilità di replica. La donna rise al pensiero, mentre io e Lei assorbivamo la notizia. Rintronato da un'eccitazione che sapeva di epica, mi alzai, di colpo fautore principale dell'idea di recarci alla quercia, e spronai ridendo le mie due accompagnatrici, mentre correvamo fuori, praticamente inseguiti dal saluto dei nostri ospiti.
Dopotutto, quale modo migliore di affrontare finalmente l'uomo misterioso, fiero e spietato per cui lavoravo, se non con qualcosa di nuovo e pronto a riceverlo? Sorrisi all'idea, e cercai l'ombra della sua voce dura all'orizzonte. Il mio nuovo grande momento stava arrivando.
Saliti sulla quercia, impiegammo un po' di tempo per trovare ciascuno il modo di sdraiarci su qualche ramo. Quando ci fummo sistemati, iniziammo a chiaccherare tra noi, e con il sussurro delle foglie, per trovare qualche cosa su cui comporre. Io cercavo un'ispirazione nel paesaggio familiare, accompagnando idee che non ci convincevano mai del tutto a commenti sui miei ricordi di quel posto. Ad un certo punto, la bambina si mise a sedere e mi chiese di raccontare della prima volta che ero stato qui. Sorrisi, e chiusi gli occhi, prendendo un po' di tempo. Corsi nella mia memoria, giù, verso le radici, e poi di colpo su, su un pendio di ricordi, tra fili di pensieri che ondeggiavano al vento, sotto un cielo color del tempo, mentre voci passate mi incitavano gridando “Vai, Scheggia!”, al punto fermo, al pilastro, al vero inizio. La quercia. La raggiunsi, ansimante e afferrai il tronco, iniziando a scalare l'albero, sempre più alto, sempre più immenso, che fuggiva nei cieli al mio tocco. Ma io lo inseguivo, aggrappandomi a un nodo dopo l'altro, saltando di ramo in ramo, più alto, più forte man mano che salivo, e ad ogni passo verso la chioma crescevo. Tra le fronde, mi passò accanto, sorridendo come sempre, una nuvola di capelli rossi, poi un ragazzo che sorrideva indicandomi un posto accanto a lui, fogli e poesie che ingiallivano, cadevano e volavano nella tempesta, raggi del sole di giugno, e una ragazza sdraiata sul banco di un'aula universitaria, appoggiato fra i rami forti, il ponte sulla stazione, un biglietto vergato con poche parole perentorie, alti fogli e altri libri che pendevano come ghiande, il fazzoletto scuro e umido di quella conferenza, ora che sapevo perchè, che sapevo che il mio amico era stato lì per salvarmi, che avrei dovuto cogliere quel segnale, che... le mie mani scivolarono, rischiando la presa, ed erano umide di sangue, e coperte di materia nera e giallastra... no! Resistetti, mi fermai, per un istante, e dopo aver respirato ripresi a salire, mentre le chiazze scivolavano via, perdendosi nell'abisso, e alla fine, l'ultimo ramo, l'ultimo incrocio... il nodo che non riuscivo a scalare. Mi allungai per raggiungerlo, ma era inutile. Feci un respiro profondo, puntai i piedi, e dalla mia posizione precaria saltai... mancando il bersaglio. Un senso di vuoto mi colpì al petto, e la vertigine della caduta allungò una mano artigliata e biancastra di nebbia abissale, per afferrarmi e trascinarmi giù... E d'improvviso, Lei stringeva il mio polso, da sopra di me, e la forza bruciante dei suoi occhi colpì la mano mostruosa, che si ritirò contorcendosi, e stridendo ferocemente. Tentò di di issarmi verso la salvezza, mentre io protendevo anche l'altro braccio, tentando di afferrare le sue mani, sospeso nel vuoto. Ma neanche la sua forza sembrava bastare. Il braccio stretto dal suo stava cedendo, e l'altro non riusciva a raggiungerla. L'orribile mano di nebbia si riprese gorgogliando e scattò ancora su, quando piccole dita scure serrarono la mia mano ancora vuota e vidi la bambina, sorridente e decisa, tirare con decisione. La mano scheletrica fu colpita a morte, e cominciò a tremare, infrangersi e sfaldarsi, pugnalata da fendenti di sole. Ancora non riuscivano ad issarmi, mentre l'abominio cadeva in pezzi nel vuoto da cui era uscito, e fu allora che una forza nuova eruppe da dentro di Lei. Piccola, fievole, ma inesorabile, suonava di un battito ritmato e luminoso attraverso il suo volto, ma non era Lei... quando anche quella forza si unì a loro, il mattino irruppe definitivamente nella chioma, rintoccando di gioia, e con ultimo strattone mi tirarono su, di nuovo sui rami accoglienti della quercia di quella mattina.

 

Riaprii gli occhi, ancora scosso da ciò che avevo visto (immaginato? Sognato?) e ripresi fiato. La bambina aspettava impaziente, con l'aria di star pensando a come punirmi per il mio increscioso ritardo. Sospirai, e mi sedetti anch'io, e mentre loro si facevano attente, cominciai a raccontare.
L'idea venne alla bambina, mentre arrivavo alla parte della gara di corsa fino alla quercia. Con un lampo negli occhi esclamò: “Perchè non scriviamo qualcosa su questo?”.
Mentre mi giravo con un'occhiata stupita, Lei aggiunse: “Sarebbe l'inizio migliore, in effetti.”
Le guardai entrambe commosso, e loro seppero di essere riuscite a leggermi nel pensiero, e di aver parlato con la voce dei miei stessi sentimenti. Estrassi carta e penna.
Ci volle un po', e riscrivemmo più volte, correggendo, cambiando parole, invertendo versi, ricominciando da capo, tornando all'originale, così tante volte, così insieme che ora non so più cosa fosse di chi... posso dire solo che la poesia che scrivemmo quel giorno fu del tutto mia e del tutto nostra:

...nel lento eterno,
l'erbosa reggia
tra le mani del vento
corre la Scheggia.
Chi ride dietro
chi mi dà il nome
guardiamo insieme
un diverso Altrove.
Ma corre il fermo
coi nostri piedi,
l'albero offre
il tesoro che chiedi.”

Alla fine, ridemmo insieme, perplessi e orgogliosi dal nostro lavoro, e scendemmo canticchiando dall'albero. Nella casa dei nostri ospiti, ci aspettava dell'ottima crostata.
Era ieri mattina.

 

(L'ultima parte di testo è particolarmente macchiata e scritta incredibilmente di fretta, di difficile lettura. Tuttavia, credo di averla ricostruita con la massima accuratezza possibile.)

 

Ebbene, sì. Questa è la verità. L'inizio di tutto, la mia prima poesia, è stata scritta per ultima, qui alla fine della storia, nel luogo stesso dove era nata venti anni fa. Qui e ora, le schegge si sono ricomposte, ora che so chi mi ha dato la vita, e a chi ho dato la mia. Ho amato e vissuto, e so chi sono: un uomo, la Scheggia, e non solo una scheggia di una coscienza scagliata nel vuoto. Mai come ora, mentre il mio corpo crolla, e la mia mente trema, mi sono sentito completo. Ora, mentre ricompongo i frammenti della fine e dell'inizio, qui nello studio della casa dei miei ospiti, mentre affronto il mio ultimo nemico, l'ultima crisi, la più forte, quella che so che non potrò abbattere. Quella che mi ha svegliato nel mezzo della notte, rivoltandomi nel lenzuolo inzuppato di sangue macchiato di nero. Quella a cui so di non potermi arrendere. Ho lottato per arrivare alla piccola scrivania. Ho lottato per prendere i fogli, sto lottando per scrivere, per non rovinarli, e non ci sto riuscendo del tutto. Ma sono riuscito a raccontare tutta la storia. Tutto ciò che è importante. Il veleno che mi sta finendo non avrà i miei ricordi. Non cancellerà i miei sentimenti e non abbatterà la mia anima. A poco tempo dal colpo di grazia, so di aver vinto, che non sarò abbattuto senza rialzarmi, nelle persone che ho conosciuto, in Lei, nella bambina, in voi che leggete.
Ho cercato di fare meno rumore possibile, anche se non posso trattenere la tosse. Sono ore che scrivo. Sono ore che lotto in silenzio. Sono sicuro che Lei potrebbe sentirmi. Non voglio morire da solo. Ma ho troppa paura che Lei mi veda morire. Non so se posso farle anche questo, o se sia peggio invece lasciarla di nascosto. Ma ora ho finito, sto per finire io stesso, e ancora sembra ignara di tutto. Ho avuto paura di non farcela, quando l'ultimo accesso di tosse, troppo forte, troppo rumoroso, mi ha bloccato per parecchi secondi. Allora, sentivo solo il mio respiro e il mio cuore. Ora, qualcosa batte sempre di più, con la stessa urgenza, ancora più forte. Passi, sulle scale, sempre più svelti...
Grazie a Dio, è ancora una volta più avanti di me. Grazie a Dio sarà qui, e miei dubbi svaniscono nelle lacrime. Prego di non lasciarla mai davvero, dopo che le avrò detto addio. Più forte che mai, e per l'ultima volta, so chi sono e so di amarla.
Mi chiamano Scheggia, e sto andando in pezzi. Ma forse, uno dei pezzi di questa storia ancora manca all'appello...

 

 

La lacrima sul fondo dell'ultimo foglio scritto, in effetti, appartiene al sottoscritto. Ho ritenuto necessario specificarlo, per accuratezza. Seguono alcuni altri fogli bianchi macchiati sempre di più, accartocciati e in parte scarabocchiati, decisamente più neri dei precedenti. Non c'è altro materiale. La copia annotata che ho finito di redarre è destinata all'eventuale consultazione. L'originale, che ho provveduto a sistemare in modo da non modificare o contaminare, prevenendo tuttavia un ulteriore decomposizione del materiale, verrà conservato in un luogo sicuro noto esclusivamente alla donna che l'autore chiama “Lei” e alla bambina ospitata dalla mia collaboratrice e da suo marito, e disposto a loro esclusiva discrezione. Rispettando la volontà dell'autore, ringrazio senza nominarla “Lei” per avermi concesso di salvare almeno una copia delle ultime parole di Scheggia al resto del mondo, e di avermi autorizzato, eventualmente, alla pubblicazione sotto forma di postfazione nella sua ultima raccolta. Preciso che non si è trattato di una mia richiesta, e che non so se questo materiale verrà effettivamente mai pubblicato.

(23 Aprile)

...

 

 

Adesso basta. Non vedo alcuna necessità di costringermi oltre a proseguire in questo modo. Mi sono limitato ad un'annotazione scrupolosa, fin dove era filologicamente necessario. Tuttavia, sono anch'io un essere umano, per quanto “sbrigativo e imprevedile”, “impaziente, forse irascibile” e con un “ghigno da spadaccino”, come sembrano sostenere alcuni dei mie collaboratori. Idem per le mie frasi “asettiche e precise, come se stesse sempre scrivendo un rapporto di polizia”.

Mi riconosco il vizio di un carattere difficile, ma non credo di essere “fiero e spietato”. Tutt'altro, la mia mancanza apparente di commento o emozione deriva dalla convinzione di non essere in grado di esprimermi con la forza che sento di provare. Per questo non faccio mai vedere i miei tentativi poetici. In poche parole, fanno schifo. Ed è anche per questo che a malapena ho pronunciato una parola quando, entrando nella stanzetta al piano di sopra della casa della mia collaboratrice, ho visto una donna seduta in terra con in braccio il corpo esanime e insanguinato di Scheggia, morto tra le sue braccia, e una bambina che sembrava paralizzata sulla soglia, in una morsa di pianto. Non ce la faccio ad esprimermi, semplicemente, e ne chiedo perdono. Mi ha richiesto una forza immensa fare quello che ho appena finito di fare, ma sento che è stata la cosa più giusta. Nelle ultime parole di Scheggia, che per me era solo un poeta in cui avevo voluto credere, ho visto emergere sprazzi della mia storia. Dalle immagini di questo posto, tra le colline, in cui io stesso ho lasciato i migliori ricordi della mia infanzia, ai capelli rossi della mia “Lei”, che brillavano nel suo sorriso... Ho sgranato gli occhi quando l'ho riconosciuta e l'ho vista sorridermi dalla poesia scritta su quel vecchio quaderno, che adesso è vicino a me. Ho sorriso commosso del suo stupore, quando gli è sembrato di essersela immaginata così mentre le riparlava al telefono dopo tanti anni, mentre invece era proprio colei per cui aveva scritto per la prima volta quella che chiama “poesia vissuta”. Colei per cui vorrei saperla scrivere io. Non sapevo parlasse “come me” quando parlava di me. Davvero, dopo tutti questi anni che stiamo insieme, non me ne ero accorto? Divertente, direi.

Ora, invece, penso di dover dire due parole direttamente a te, Scheggia, da dovunque tu possa leggermi o sentirmi, sulle tue condizioni riguardo la Poesia Completa.

Ho vinto la sfida.

Ho sempre letto ogni poesia, comprese le mie, andando all'attacco. Cercando qualcosa che potesse colpire, e darle valore o per cui potessi scartarla. Stavolta, non è stato così. Tra le righe che non hai scritto in questo messaggio, ho trovato qualcosa che sentivo davvero dentro me stesso, e che io stesso non avrei mai potuto esprimere meglio. Ho trovato quel sentimento, ed è stato così forte, così chiaro in me, così imperioso che ti chiedo di cuore di perdonarmi. Ho contaminato il tuo tesoro più prezioso. Sul retro dell'ultimo dei fogli che contenevano la tua Poesia Completa,gli unici quattro in tutta la stanza a non essere stati toccati nemmeno da una goccia di sangue, ho annotato in fretta e furia sette versi sciolti, nati all'istante. Gli unici, tra tutti quelli che ho scritto finora, che posso guardare più di due volte senza vergogna... cos'è la poesia, Scheggia? Me lo sono sempre chiesto. In quel momento, lo sapevo. E così, alle tue condizioni, ho vinto la tua poesia. Non credo che la pubblicherò, per ora. Probabilmente, sarà di nuovo il premio di una sfida, contro qualcuno che la meriti più di me. Magari, e lo spero, qualcuno come te. Come l'amico che ho trascurato di conoscere.

Sospiro, ripensando al momento in cui sono finalmente uscito da quella stanza, per mettermi a scrivere, mentre la tua “Lei” mi osservava con gli occhi rossi e straziati, ma vivi. So che non l'hai lasciata.

E so che la mia speranza su chi possa vincermi la tua poesia è tutt'altro che infondata. Concluso il mio lavoro, mi sono alzato per dirigermi alla porta. La bambina era lì, con ancora qualche lacrima sul viso. Le ho chiesto il suo nome. Ha scosso la testa, dicendo che non voleva che io ricordassi quel nome. Le ho chiesto come dovevo chiamarla, allora.

Dopo un respiro profondo, ha inchiodato gli occhi nei miei, nocciola scuro nel grigioverde, e ha sorriso, decisa: “Scheggia.”

Ho ricambiato il sorriso, e dopo essere rimasto qualche istante a guardarla, le ho scompigliato ridendo i capelli, e sono andato a sedermi un po' in cima alla quercia, respirando l'aria pulita, da solo. Prima di tornare al mondo, prima di lasciarti al tuo riposo. Prima di tornare da Lei...

 

A proposito: “Lei”, quella che tu ami... al momento in cui scrivo questa seconda nota, mi ha comunicato di essere incinta di due mesi.

Sembra che questa Scheggia abbia acceso almeno due scintille.

Nel frattempo, io sto per sposarmi. Spero non sia troppo lontano il giorno in cui i nostri figli giocheranno insieme... o quello in cui incontreranno una ragazza “color cioccolato”, come dici tu, che gli insegnerà a giocare con la poesia, e a far vivere i lori cuori. Non credo che abbiamo altro da dirci.

Fino a quel giorno, amico, dovremmo salutarci.

 

Ah, già. Immagino ci sia un'ultima cosa da chiarire, anche se credo tu lo sappia già. Il tuo premio nella nostra sfida. Non ho affatto ignorato quella condizione, e in cambio della tua poesia ti ho lasciato, anzi, ho affidato a “Lei” qualcosa che mi ha sempre detto chi ero. È sembrata stupita quanto lo saresti stato tu, ma ha accettato, e per quanto ne so, ti ha lasciato il mio trofeo nel luogo in cui è iniziato tutto, per tutti e due. Ora le mie ginocchiere riposano sotto la vecchia quercia. Ci ero affezionato, essendoci cresciuto dentro aggiustandole ogni volta da me, da quando avevo otto anni, ma è giusto così. Il nostro duello di vent'anni fa è finito, e abbiamo vinto entrambi. Riposa in pace, Scheggia. Ora tutti i pezzi sono al loro posto.
(27 Giugno)

   
 
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