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Autore: Lumos and Nox    13/03/2014    3 recensioni
Un piccolo cambiamento: Belle e Tremotino non si sono semplicemente baciati quella sera.
A causa di ciò, esattamente nove mesi dalla sua cacciata dal Castello Oscuro, Belle partorisce una bambina, Etol.
Tredici anni dopo, Belle è ormai scomparsa alla ricerca di un'avventura e Etol è una ragazzina sola, che oltre ad aver perso la madre non conosce l'identità del padre. A causa dei debiti e delle tasse (e forse anche per lo zampino di una Regina a noi già nota) si ritrova a dover vendere dei fiammiferi per sopravvivere, viaggiando di villaggio in villaggio.
Ma si sa, le bufere di neve (specie quelle provocate dalla magia) sono sempre in agguato, come anche un certo Oscuro Signore nel proprio castello..
NOT MARY-SUE!
[Edit del luglio 2015: storia interrotta, probabilmente per sempre]
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Belle, Nuovo personaggio, Regina Mills, Signor Gold/Tremotino
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo uno
Flower's Borough



Molti dicono che per raccontare una storia è bene iniziare dall’inizio.
Iniziamo così la nostra storia sorvolando splendidi boschi, tanto fitti da non riuscire a distinguerne la fine, misteriosi manieri appollaiati su arcigne montagne e, non meno importanti ma decisamente più umili, piccoli villaggi.
E’ proprio in uno dei tanti villaggi, in una fresca mattina di fine autunno, che inizia la nostra storia.
Era un paesello di modeste dimensioni, né troppo piccolo, né troppo grande, ma sicuramente molto povero. Le case erano costruite con vecchie tavole marce sconnesse e mattoni d’argilla ormai diventati grigi a causa dell’umidità; le strade, poi, erano più che altro dei corridoi di fango e pozzanghere, dove scorrazzavano più galline che uomini. Pochi erano gli elementi del villaggio che si sarebbero anche solo potuti lontanamente definire eleganti. Uno era un vecchio cartello di marmo all’entrata principale, poco più avanti del bosco, le cui lettere recitavano quasi solenni: "Flower’s Borough*"(nome non proprio azzecato per il paesello). L’altro era invece un grosso, tozzo, edificio di argilla rossa, che tutti nel villaggio odiavano ma allo stesso tempo frequentavano. Si trattava del banco dei prestiti di Messer  Gudfinn, l’uomo più ricco e detestato nei dintorni, che teneva in pugno Flower’s Borough grazie ai suoi mille prestiti. Tutti gli abitanti del villaggio, dai mendicanti ai più agiati fornai, dai contadini agli osti, si recavano da lui, chi una sola volta all’anno, chi anche più volte al giorno. E più ci si indebitava, più gli interessi degli altri debiti crescevano. Così almeno funzionava secondo Gudfinn.
Già alle prime ore di quel mattino d’autunno, nel banco dell’uomo vi era una piccola folla, costituita perlopiù da contadini che cercavano di accordarsi con Gudfinn, talmente grasso che il suo corpo fuoriusciva dai bordi della sua sedia, collocata in fondo al magazzino. Tra la massa si poteva però notare una figura più minuta.
Era una ragazzina che non poteva avere più di tredici anni. Era di statura media, magra, molto magra, vestita con un po’ di stracci rattoppati tra loro alla bell’e meglio, su cui comunque, nonostante la sporcizia, risaltava la carnagione pallida. I capelli, biondo stoppa, erano raccolti con una fascia rossa, da cui sfuggivano ugualmente alcune ciocche che ricadevano qua e là sul suo viso ovale e scarno. Le sopracciglia erano lievemente corrucciate, mentre le labbra screpolate erano serrate in quella che sembrava una morsa d’acciaio. Gli occhi della bambina erano talmente scuri e profondi che spesso la gente li paragonava a due pozzi bui. Sarebbe potuta sembrare carina se non fosse stata così magra e non avesse avuto il naso così a punta.
Ad un tratto la ragazzina fu riscossa da una voce.
«Etol!» la salutò un’altra ragazzina, venendole incontro con corsetta.
Lei sorrise e abbracciò la sua amica. «Ciao Gerda! Come stai?»
Gerda era una bambina della stessa età di Etol, ma era completamente diversa da lei, sia nell’aspetto che nel carattere. Aveva lunghi capelli castani e un paio di teneri occhi color caramello risaltavano sul suo viso roseo e paffutto-i suoi genitori guadagnavano molto più della famiglia di Etol- dalle piccole labbra carnose. Aveva l'aspetto di una piccola bambola di ceramica e in pratica lo era anche nel carattere: altruista, carina con tutti, quasi incapace di dire una malignità sul conto altrui, anche se eccessivamente sensibile. Aveva il pianto piuttosto facile. Viveva con i genitori e la nonna in una casupola vicino alla capanna di Etol, e l due erano riuscite a stringere una forte amicizia.
«Bene, grazie» rispose Gerda. «E tu? Come mai sei qui?»
Etol si strinse nelle spalle. «Devo chiedere un prestito per comperare il pane. I prezzi stanno salendo sempre di più..»
Gerda annuì. «Ho sentito dire che è a causa dell’aumento delle tasse..»
«Ehilà, ragazze!» Quasi dal nulla era comparso un altro bambino, che si era avvicinato alle due amiche.
«Buongiorno, Kay!» esclamò Gerda, arrossendo. Etol si limitò a sorridergli e a fargli un cenno con la mano.
Kay era un bambino dai folti capelli neri, spesso coperti da un vecchio cappello da pescatore, grandi mani e un lungo naso. Era di corporatura magra, come alla fine lo erano tutti gli abitanti di Flower’s Borough (eccezion fatta per Gudfinn), abbastanza alta ed era famoso in tutto il villaggio per la sua gentilezza.
I tre erano inseparabili sin dalla tenera età. Non si divertivano però come gli altri bambini, rincorrendosi o giocando con le spade di legno, ma preferivano costruirsi un mondo tutto loro, un mondo perfetto, in cui tutti vivevano in un grande palazzo di ghiaccio dai mille colori, dove non esistevano né la povertà, né la tristezza.
Etol adorava disegnare le loro avventure nelle vecchie pergamene che le aveva lasciato sua madre. Bastava un tocco di un carboncino e...lei e i suoi amici si ritrovavano tra le onde di un gigantesco mare, ad esplorare isole sconosciute; oppure dentro una misteriosa biblioteca, a rinvenire un'antica mappa di un castello segreto. Riuscivano a vivere mille avventure con un pò di fantasia.
«Sei emozionata, Etol?» domandò Gerda all'improvviso con un sorriso.
Etol si mordicchiò le labbra, confusa. «E per cosa?»
«Ma come, per cosa!» esclamò Kay ridacchiando.
«Domani è il tuo tredicesimo compleanno» le ricordò Gerda.
Etol alzò le spalle. Non riteneva granché importanti i suoi compleanni, dopotutto erano giorni come tanti altri. Tuttavia, tredici anni non si compievano mica tutti i giorni.
«Sono solo curiosa di vedere dove viaggeremo domani» disse, sorridendo.
Con ancora nelle orecchie le avventure che stavano progettando Kay e Gerda (un giardino incantato e una nave volante) Etol riuscì timidamente ad avvicinarsi a uno dei collaboratori di Gudfinn e ad ottenere tre soldi per il pane in cambio di un nuovo mantello rosso e di un rammendo ad un paio di braghe.  I tre amici si diressero quindi dal fornaio, un uomo mingherlino sempre sporco di farina nei punti più improbabili, e comprarono due pagnotte di pane semplice, cucinato con gli avanzi del grano del mese precedente. Etol non era molto soddisfatta. Non le andava di indebitarsi così solo per ricavare quel pane così duro da dover essere immerso nell'acqua calda per tre ore prima di poter anche solo pensare di diventarlo. Le tasse, come aveva detto Gerda, erano si aumentate, ma con loro erano aumentati anche i soldi dovuti a Gudfinn. Era tutto un procedimento a catena: i pochi soldi guadagnati, a cui andavano sottratti quelli per pagare una minima parte dei debiti, bastavano soltanto per il minimo indispensabile. Allora per pagare le tasse si doveva ricorrere a Gudfinn e a un altro prestito e in cambio di questo nuovo prestito, oltre ai soldi, bisognava eseguire dei lavori totalmente gratis.
In poche parole, la situazione stava diventando ingestibile.
I debiti e le tasse soffocavano chiunque, e Etol si sentiva pian piano privata della sua libertà: perfino nelle sue avventure immaginarie i debiti e i soldi avevano iniziato a ricorrere un ruolo importante; senza che lei se ne rendesse conto, in ogni suo gioco era ricchissima e potente.
Non sopportava che i suoi problemi potessero influire così tanto sui suoi mondi.
«Bè, ora devo andare» fece Kay dopo un pò. «Devo aiutare mia madre a finire le scarpe per quello sporco Gudfinn.»
Gerda gli scoccò un'occhiata severa. «Ci vediamo dopo, allora».
I tre amici si salutarono, promettendosi di rivedersi nel pomeriggio, e corsero alle proprie occupazioni.
In breve, passando per le strade fangose che stavano ormai iniziando a animarsi con il resto di Flower's Borough, Etol giunse a casa.
Era una capanna come le altre, costruita con materiali di scarto, di appena due stanze. Una fungeva da cucina e da camera, l'altra da bottega. Appesa alla porta della casa, infatti, si trovava un'insegna sgangherata a forma di forbice, che la indicava come sartoria.
Etol aprì la porta e balzarono subito a suoi occhi si immersero nelle numerose stoffe che pendevano dal soffitto, dalle sedie e dal tavolo a lato della stanza. Nella semi-oscurità della bottega, illuminata soltanto dalla fioca luce di una candela, una vecchia stava rammendando quella che sembrava una camicia. Definirla vecchia era probabilmente un'imprecisione: pareva quasi la vecchiaia stessa. Il suo corpo era solcato da profonde rughe, mentre il viso, tanto era increspato, sembrava essere sempre distorto in una smorfia. La bocca era storta e vi si vedevano fuoriuscire i denti giallognoli, il naso invece era grosso e bitorzoluto. Gli occhi erano resi piccoli dalle grandi occhiaie nere. I capelli erano ormai ridotti a poche ciocche bianche e stoppare, nascoste sotto un cappellaccio costituito da avanzi di stoffe scolorite.
«Chi è?» domandò la vecchia sbattendo più volte le palpebre a causa della luce improvvisa.
«Sono io, Madame Shenna» disse Etol chiudendo la porta. Posò il pane sul tavolo e si avvicinò, suo malgrado, alla vecchia. Etol era stata cresciuta per sei anni dall'anziana sarta, da quando sua madre era scomparsa. Shenna era un disastro e Etol non la sopportava: lavorava abbastanza, considerato che i cento anni non erano più molto lontani, ma si faceva truffare facilmente da Gudfinn o dagli altri suoi compari e aveva sperperato tutti i soldi che la madre di Etol aveva lasciato nei liquori. Non era quella che si poteva dire una tipa responsabile, e così Etol si ritrovava a dover badare a lei.
«Hai comprato il pane?» chiese ancora la sarta, ruminando qualcosa (Etol preferì non sapere che cosa) in bocca.
«Si, ora devo sistemare i pantaloni di Messer Gudfinn» disse seccata.
«Ti ha chiesto solo questo?»
«No, anche un mantello rosso nuovo». Gli occhi di Madame Shenna scintillarono e la vecchia si portò le mani al volto.
Etol la osservò mentre, seduta su uno sgabello, applicava una bella toppa verde fosforescente (la più evidente che aveva trovato) al retro dei pantaloni. Non era la prima volta che Shenna reagiva così vedendo i debiti che si accumulavano, ma Etol spalancò la bocca quando vide le lacrime scorrere lungo il grugno della vecchia.
Madame Shenna che piangeva? Che maledizione le avevano lanciato addosso? L'unica volta in cui Etol l'aveva vista in quelle condizioni era stato..era stato molto tempo prima. Forse quando ancora c'era sua madre.
«Madame?» Etol si portò davanti alle vecchia, evitando però di posarle le mani sulle spalle o di toccarla. «Madame? Che..che succede?»
«Non abbiamo stof-fe a suf-ficienza» mormorò con voce rauca la vecchia.
Etol si accigliò e volse lo sguardo su tutte le stoffe (almeno dieci) ammucchiate nella bottega. Si accorse solo in quel momento che erano meno del solito, ma comunque c'erano.
«Si che ne abbiamo!»
«No..a causa delle tasse quei bastardi  me ne hanno fatto cedere metà..»
Etol sentì un tuffo al cuore. Metà delle loro stoffe..erano con quelle che riuscivano a mantenersi!
«Abbiamo il restante, no?» tentò di rincuorarsi.
Madame Shenna le rivolse uno sguardo atterrito attraverso gli spiragli delle dita. Si sporse di scatto verso un'anfora davanti a lei e ne tracannò metà del contenuto.
«Mentre tu non c'eri» continuò poi lentamente «sono venuti alcuni lecchini di Gudfinn lo strozzino..e hanno deciso che porteranno via le stoffe rimanenti entro mezzogiorno»
Etol si accasciò sullo sgabello. Con che cosa si sarebbero guadagnate la giornata adesso? Come avrebbero potuto pagare gli altri debiti?
La aspettava proprio un bel compleanno...
Ancora sconvolta, afferrò i pantaloni di Gudfinn e continuò a rammendarli. Lavorare la aiutava a non pensare.
Gli uomini di Gudfinn passarono poco prima di pranzo a portare via, tra gli sghignazzi e le offese, tutte le stoffe rimaste. Etol rimase lì a guardare, impotente, mentre lacrime di rabbia minacciavano di solcarle le guance. Non riuscì né a confezionare un abbozzo del mantello di Gudfinn né a giocare con Kay e Gerda. Lei e Shenna trascorsero tutto il tempo a rammendare i loro ultimi vestiti, con cui riuscirono a ricavare il sufficiente per l'indomani.
Prima di andare a dormire Etol era riuscita a recuperare qualche pianta commestibile nei campi vicini, nessun frutto nei boschi però, i cui alberi più vicini al villaggio erano stati già saccheggiati a dovere dagli altri affamati.
Il sole era calato già da un bel pezzo quando Etol iniziò a sentire le gambe e la borsa che si era portata appresso farsi pesanti.
Si avviò verso casa, facendo attenzione a non dimenticare nessuna radice o fiore mangerecco. Con il ricavato di quella sera, forse, avrebbero potuto resistere un altro giorno.
L'indomani sarebbe andata ancora a caccia, magari inoltrandosi un pò di più nel bosco...senza però allontanarsi troppo. Aveva sentito brutte storie al riguardo e non ci teneva ad entrare a far parte di quei racconti.
Con questi pensieri e gli occhi fissi sul terreno, giunse finalmente alla sua capanna.
Entrò nella camera-cucina, dove Shenna stava ammucchiando in un angolo il poco cibo rimasto, e, dopo aver messo via la borsa con le erbe, si preparò per dormire. Dopo aver indossato la sua solita vecchia camiciola bianca, si mise sotto le coperte della sua paglia e stava quasi per decidersi e chiudere gli occhi quando la vecchia sarta parlò nuovamente.
«Credo che..» disse a fatica, quasi rantolando mentre beveva ancora del liquore «presto venderò la bottega, prima che lo faccia Gudfinn il bastardo. Non so se ci lasceranno vivere ancora qui»
La sagoma di Shenna era davanti al fuoco e perciò Etol non riuscì a vederne il volto, faticando soltanto a mettere a fuoco i suoi contorni.
Immaginò che la sarta stesse piangendo. Dopotutto quel negozio era stato costruito da Shenna e da suo marito, prima che questo morisse..e poi venderlo significava diventare a tutti gli effetti dei veri mendicanti... Come se non ce ne fossero già abbastanza a Flower's Borough.
Etol preferì abbandonarsi ai suoi sogni, dove tutti erano ricchi e non c'era la povertà, per non tormentarsi anche nel sonno.
Buttò un "mm-mm" a Shenna per dirle che aveva capito e poi chiuse definitivamente gli occhi, girandosi dall'altra parte.
Dopotutto, il giorno dopo avrebbe compiuto undici anni- e undici anni non si compievano mica tutti i giorni.
Fu il suo ultimo pensiero lucido.
***
Era da poco sorta l'alba nel villaggio di Flower's Borough. Le strade erano deserte e perfino i contadini più attingere se ne stavano ancora nelle proprie case.
L'unica anima viva, eccezion fatta per qualche gallina vagante che razzolava ai confini del villaggio, era un giovane uomo, un falegname, in procinto di recarsi nel bosco.
Lo chiamavano John il Positivo.
Era florido, considerando gli standard del villaggio, con una rada barba che si congiungeva ai capelli castani e un bel sorriso sempre sulle labbra.
D'altronde era facile essere così ottimisti se il proprio lavoro permetteva di non avere quasi nessun debito.
E così John il Positivo si ritrovava felice a Flower's Borough. Non c'era niente e nessuno che dovesse temere, se non sua moglie alcune volte, e aveva una vita tranquilla e quasi dignitosa. Certo, un pò di miseria l'aveva patita anche lui, ma tutto era cambiato da quando Gudfinn l'aveva scelto come suo falegname personale: certo, il suo capo non aveva proprio una fedina penale pulita e un comportamento..bè..corretto, ma almeno pagava. Tutto quanto! E a caval donato non si guarda in bocca, giusto?
Continuò a camminare fischiettando, l'ascia in una mano, il seghetto nell'altra.
Era di ottimo umore quella mattina, anche più del solito. Dovevano essere i raggi del sole. Si, si prospettava una splendida giornata.
Giunse ai limitari del villaggio, ed era talmente assorto nei pensieri dei nuovi mobili che Gudfinn gli aveva ordinato che quasi non si accorse del costante scalpiccio che si udiva in lontananza.
Diventò così costante da impedirgli quasi di continuare a fischiettare.
Perplesso, tese l'orecchio.
«Clop, clop!»
Sembrava il genere di rumore tipico dei cavalli al trotto.
John aggrottò la fronte. Solo Gudfinn aveva un cavallo, e al momento era nella stalla, l'aveva visto mentre usciva da casa. Nessun altro poteva permettersi un simile lusso, già scarseggiavano i buoi!
Forse era di qualche nobile locale..
Ma l'unico barone che viveva nelle vicinanze si limitava a spremere Flower's Borough come un limone, badando a starci ben alla larga, per non inzozzare i suoi pregiati stivaletti.
John ne era quasi sicuro che lui non sarebbe mai arrivato così dal nulla al villaggio.
E allora chi poteva essere tanto coraggioso da raggiungere Flower's Borough, il villaggio più rintanato nei boschi di tutto il regno?
John si grattò il mento, pensieroso.
Poi, con una scrollata di spalle, decise che non erano affari suoi. I mobili nuovi di Gudfinn lo stavano aspettando.
Sempre accompagnato da quell'insolito rumore, John scelse un albero promettente (era quasi sicuro che fosse un noce) alle soglie del bosco. Poteva vedere il vecchio cartello di marmo da lì. Poggiò il seghetto per terra, prese l'ascia con entrambe le mani, si mise in posizione e «Clack!» cominciò a tagliare.
«Clack!»
«Clop! Clop!»
«Clack!»
«Clop! Clop!»
«Clack!»
«...»
«Clack!»
«...»
«Clack!»
Concentrato com'era nell'abbattere il noce, solo una piccola parte del cervello di John il Positivo si accorse che lo zoccolio tanto insistente era cessato.
Anche quella piccola parte non diede importanza all'avvenimento. L'albero ormai stava per cadere.
John portò indietro la scure per scagliare il colpo decisivo, pregustando già l'attaccapanni che ne sarebbe venuto fuori, quando, all'improvviso, l'ascia gli scivolò all'indietro.
Perplesso, quasi seccato (che fosse uno scherzo stupido di un bambino? L'aveva sentito benissimo che la scure gli era stata TOLTA dalle mani), John si voltò.
Era sempre stato convinto di non dover temere nulla e nessuno da quando Gudfinn lo aveva preso sotto la sua ala.
Tuttavia, emise un mezzo urlo soffocato a quella vista.
Davanti ai suoi occhi si trovava una grande carrozza nera, completa di cavalli neri e di tre cavalieri di scorta, neri anch'essi. Quattro cavalieri, contando quello che era smontato da cavallo e che era accanto a lui, con l'ascia in mano.
John deglutì e pregò ogni singola divinità che conosceva che quella sua tanto cara scure non gli finisse in altro posto se non le mani, con la lama ben rivolta verso terra.
Dalla carrozza uscì ad un tratto una dama tanto bella quanto inquietante.
Indossava un abito con un'ampia scollatura, completamente nero, come lo erano i suoi lunghi capelli e il suo trucco a dir poco pesante.
L'unica eccezione a quel colore sembrava essere la pelle della donna, di un bianco mortifero, e le labbra, rosse come il sangue ed inarcate in un sorriso freddo. Era di una bellezza provocante, quasi maligna, ed altera. Sprigionava quasi un'aura maligna.
Il cavaliere che gli era vicino gli tirò un forte calcio e John, preso alla sprovvista, perché lui in realtà non aveva paura di nulla e di nessuno, si riscosse con un sobbalzo.
«Inchinati al cospetto della tua Regina, verme!» gli ordinò.
Spaventato (e si che lui non aveva paura di nulla e di nessuno) e sbigottito, John cadde in ginocchio.
La regina iniziò a girargli intorno, come poteva fare un rapace in volo prima di cadere in picchiata sulla sua preda.
John, il positivo e temerario John che ora stava iniziando quasi a credere di temere anche lui qualcosa e qualcuno, era talmente terrorizzato da non riuscire ad elaborare un pensiero che non includesse la sua ascia in mano alla regina e la sua testa caduta a terra. Sentiva il cuore battere così forte (ma era normale per uno come lui?) che in ogni singola parte del suo corpo sembrava riecheggiare ogni sua singola palpitazione, specie nelle orecchie.
Aveva già sentito parlare della Regina Cattiva, della magia nera che praticava, ma..ma..vedersela capitare davanti in così, quando quella donna era già spaventosa di suo..non che lui potesse essere mai spaventato realmente da una donna!
«Dovrei punirti per non aver accolto subito la tua sovrana come ti si conviene, boscaiolo» disse la regina con voce tagliente.
"Falegname"avrebbe voluto replicare John "Falegname, non boscaiolo".
«Tuttavia» e l'attenzione e il cuore di John salirono nuovamente alle stelle, «Tuttavia, credo di poter tollerare questa tua mancanza, a patto che..»
E qui fissò John dritto negli occhi.
John il positivo (che non aveva paura di nulla e di nessuno) si sentiva morire, ma riuscì in qualche modo a deglutire e a tirare giù un «Che..?» per chiedere alla regina di continuare.
«Che tu mi conduca da una certa sarta del tuo villaggio» concluse la regina con un sorriso suadente.



N.d.A. (note della folle)
Ok..salve a tutti! *saluta la sala vuota*
Io..sono un po'emozionata, è la prima mia fanfiction su questo fandom, che personalmente adoro, e ho provato a dare il meglio, quindi spero soltanto che possa anche solo remotamente piacervi. Ho provato a creare un personaggio che potesse essere 'reale' e spero che non diventi una Mary Sue. Nel caso, siete autorizzati ad uccidermi :)
*= il nome del villaggio significa "Borgo del Fiore" ed è un mio intento ironico per evidenziare ciò che il villaggio non è.
I "quasi" ripetuti nell'ultima parte del capitolo sono delle anafore tipiche del parlare di John il Positivo.
Spero davvero che vi piaccia, siete autorizzati a lanciarmi comunque qualsiasi genere di pomodori, nonne e computer :)
Baci
Nox
  
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