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Autore: Gaea    14/03/2014    1 recensioni
Guglielmo è frustrato: ormai in pensione, non trova un senso nella sua vita. Vorrebbe davvero poter essere altrove, un posto in cui poter essere accettato e amato senza riserve, senza dover sempre tenere alto il ricordo del sé precedente… Un posto dove ricominciare.
Ritrovò il sasso che aveva calciato all’andata, con ben altra disposizione d’animo. Lo colpì, ancora, più per noia che per reale volontà. Lasciò che la malinconia lo invadesse, trascinandolo sempre più giù, portandolo sempre più lontano, come il sasso che prendeva a calci. Sempre dritto. Piccole alterazioni e impercettibili curve, sì, ma trovava sempre poi il suo piede. Un metro più avanti. Quattro. Due. L’ultimo tirò lo spedì un po’ più lontano. Stava svogliatamente per colpirlo di nuovo, quando si fermò. Il sasso non c’era.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo due: Dove si scopre come essere diversi da sé.

 

Il villaggio non era poi molto distante: una manciata di case, decorose, ma spartane, abbarbicate al fianco della collina. Molta gente stava in strada, sorridendo e facendo cenni al suo passaggio. Pareva quasi una festa, ma quando chiese conferma di questa supposizione i bambini negarono, non sapendo nemmeno ben capire cosa fosse una festa

“Siamo vicini al tramonto, fra poco avrà inizio la messa!”.

Guglielmo storse il naso: non era mai stato strettamente praticante. Ma che poteva fare? Avrebbe dovuto capire prima che, in Paradiso, certe prassi non potevano certo essere eluse.

“Dove mi portate? Dal capo villaggio? Devo chiedere a lui…” si fermò, davanti all’espressione schifata che le sue parole avevano suscitato.
Poi, la più grande – di cui ancora non aveva colto il nome, dato che i fratelli non lo pronunciavano mai – sospirò e sembrò raccogliere le energie per fare qualcosa di molto difficoltoso. O raccapricciante.
“Noi non abbiamo… capi – pronunciò la parola con una difficoltà e un disgusto palpabili – noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati” terminò, dando una leggera cadenza cantilenata alle ultime affermazioni.

Guglielmo ristette, stupito: non avevano capi? Nessuno, nemmeno eletto? Altro che democrazia!

“Ma il Dio che pregate non è un capo?” domandò docile, abbassandosi per guardare in faccia i due più piccoli.

“No! Noi sappiamo che Lui c’è – rispose quindi la piccola, che iniziava a ricordargli sua figlia da bambina – ma lui non vuole comandarci. Lui ci ama. Lui vuole che noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme”.

L’uomo si grattò la testa, ma preferì annuire, piuttosto che proseguire con le domande: prima o poi avrebbe potuto parlare con degli adulti e carpire maggiori informazioni.
I suoi tre anfitrioni si fermarono in un’ampia piazza tondeggiante. Molti fiori adornavano i lati e il loro dolce profumo riempiva l’aria. I tre si sedettero per terra, e fecero cenno anche a lui di imitarli. Altre persone arrivarono e tutte, in perfetta armonia, si sedettero a terra, senza parlare, senza litigare per chi dovesse stare davanti e chi dietro, senza spintonarsi o accatastarsi impedendo agli altri di passare: doveva essere un qualcosa di ben progettato e molte volte provato, affinché potesse funzionare in maniera così fluida.

“Cosa sta per suc…”.
“Shhh! – fecero i tre all’unisono, e sempre all’unisono proseguirono – la messa!”.

Le facce adulte attorno a loro sorridevano, bonarie, senza rimproveri o commiserazione negli occhi.

Decise, ancora una volta, di mettere a tacere la sua curiosità e la voglia di sapere come potesse essere possibile una simile organizzazione – il leader in lui invidiava un simile controllo – e di lasciarsi trasportare: non aveva forse desiderato di essere diverso, prima di battere la testa? Forse il suo cervello gli stava regalando un sogno di accettazione e pace, prima di spegnersi per sempre.

 

La piazza andava riempiendosi, sempre con ordine e pace; nessuno parlava, ma invece di essere oppressivo, il silenzio e la quiete aumentavano il senso di calma che traspariva dai volti sereni, in attesa. Poi, come avviene nelle chiese fornite di una congrega ben collaudata, si alzarono tutti in piedi, quasi all’unisono, e un canto riempì la piazza. Benché non conoscesse la melodia e non riuscisse a comprenderne le parole, Guglielmo si sentì colmare dalla bellezza di  quel motivo e strinse con dolcezza le mani dei suoi piccoli amici, che a loro volta afferrarono quelle dei loro vicini, formando un’unica, immensa, interminabile fila di persone, che insieme cantavano e ondeggiavano alla luce morente. C’era tanta gioia, in quelle persone, tanta pace, che dimenticò se stesso e i propri affanni, scordò le offese del figlio e degli attori che tanto l’avevano addolorato e rimosse il senso di inutilità che lo opprimeva da mesi. Si sentì libero e felice. Chiuse gli occhi e si lasciò andare, dondolando sui suoi grossi piedoni – improvvisamente non gli apparivano più così sgraziati! – a ritmo con tutti gli altri. 

 

Fu con suo immenso stupore che si accorse, ad un certo punto, delle stelle che facevano capolino dal cielo cobalto: sembravano passati pochi minuti, ma dovevano essere state ore. Si accorse anche del silenzio e del fatto che le persone, lentamente, si stavano lasciando le mani, per salutarsi e allontanarsi dalla piazza.
“Ti portiamo a casa con noi, se vuoi”.

Annuì, sentendosi affamato; avviandosi verso una delle casette si meravigliò nel notare che nessuno girava da solo, ma che tutti stavano in gruppi minimo di tre, quattro persone.

 

Strano. Avranno paura del buio… ma cosa può esserci di cui avere paura in un luogo del genere?

 

La gente cenava con la porta aperta. Piccole lampade rischiaravano l’esterno delle case, mostrando gente che salutava cordiale al loro passaggio. Sembrava che tutti si conoscessero e che tutti fossero immensamente lieti della sua presenza.

 

Che persone fiduciose. Non ci deve essere criminalità... Beh, dopotutto è il Paradiso.

 

La casa dei tre bambini era abitata da cinque adulti.

 

Allora, probabilmente, sono cugini, non fratelli.

 

Tutti e nove si sedettero ad una tavola già imbandita con pane, frutta e formaggi, mentre una grossa frittata sfrigolava in una pentola appesa sopra al focolare.

 

“Spero tu non rimpianga la carne, non ne mangiamo” gli disse uno degli uomini. Rispondeva a una domanda che Guglielmo ancora non aveva formulato, sebbene dovesse averla stampata in faccia.

“No, cioè… mi piace la carne, ma queste cose vanno benissimo” si affrettò a rispondere per non apparire scortese di fronte alla generosità dei suoi ospiti.
“Domanda pure – proseguì mite l’uomo – se possiamo esserti di qualche utilità, saremo lieti di aiutarti. Non stupirti, hai la curiosità dipinta sul viso! È così diversa la tua terra, da questa?”.

“Per la verità… sì. Molto diversa. Per esempio so di essere risultato molto maleducato: sono qui, seduto alla vostra tavola, e nemmeno mi sono presentato al padrone di casa… - si alzò dalla sedia, allungando una mano – molto lieto, sono Guglielmo Giuse…”. Si interruppe vedendo che tutti si erano istintivamente ritratti dalla tavola. L’uomo di fronte a lui lo osservava torvo.

“Noi non abbiamo capi – riprese a parlare lentamente, con fare guardingo – nessun umano comanda altri umani. Noi siamo tutti uguali, siamo noi, siamo insieme e insieme decidiamo. Posso capire che essendo tu straniero non volessi offenderci col tuo comportamento, ma l’hai fatto. La parola che tu hai usato… risulta una bestemmia, alle nostre orecchie. I figli la evitano, come le menzogne e gli insulti. Non potremo tollerare che sotto il mio tetto vengano usate parole simili, e ne sono addolorato perché la tua visita allieta i nostri cuori. Ma se ci darai la tua parola che tale comportamento non si ripeterà, potremo dimenticare e perdonare il tuo innocente errore”.

Guglielmo stava a bocca aperta, tentando di assimilare la notizia.

 

Nessun capo? Nessuna direzione? Nemmeno all’interno della famiglia? E chi decide?

 

“Perdona la franchezza, dato che l’argomento è uscito vorrei abusare della tua comprensione ancora un poco… ma se nessuno… dice ad altri cosa fare – cercò di girarci intorno – come crescete i vostri figli? Come insegnate ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Come apprendete i mestieri, come regolate le mansioni…”.

“Calma, amico – l’uomo lo interruppe – adesso è tardi e dobbiamo riposare. Domani cercheremo di spiegarti le nostre usanze e, speriamo, tu vorrai raccontarci delle tue e allietare così il momento della messa”.

“Certo, certo, ti ringrazio… scusa, non ho capito il tuo nome”.

Un certo disagio percorse ancora le figure sedute a tavola, ma non l’uomo che, invece, sospirò.

“Noi non abbiamo nomi. Noi siamo noi. Che funzione potrebbe avere un nome, nel nostro modo di vivere? Nessuna. Vai a dormire, amico. Domani ti sarà tutto più chiaro”.

Muovendosi con grazia, gli otto abitanti della casa sparecchiarono la tavola e rassettarono la casa; infine, dopo aver mostrato a Guglielmo in quale letto poteva dormire all’interno della stanza comune che fungeva da camera, si coricarono.

Nonostante l’atmosfera distesa e il leggero rumore dei loro respiri, faticò a prendere sonno.
Una parte di lui era ancora convinta che fosse tutto un sogno e, perciò, l’addormentarsi l’avrebbe interrotto e fatto sparire; la parte più razionale continuava a credere di essere davvero morto o, per lo meno, in coma – e il pensiero gli procurava ben poco dolore… Infine, una piccolissima frazione della sua coscienza iniziava a pensare che il suo sogno si fosse realizzato… che fosse davvero finito in un’altra realtà. Un nuovo mondo, una nuova vita, dove essere davvero se stesso… una terra dove non era vecchio e inutile, o rompicoglioni, e dove non era costretto a rincorrere senza successo l’eco della persona energica e dura che era stato, legato a una famiglia che non lo amava e a un’esistenza che lo opprimeva. Fu cullandosi in questo pensiero che, senza nemmeno accorgersene, scivolò nel sonno.

 

Il mattino fu sorpreso di essere l’ultimo a levarsi: in casa sua era considerato un gran mattiniero.
Rimase nel letto a pensare, quando il padrone di casa – devo smetterla di pensarlo così, o mi scapperà detto di nuovo! – si affacciò alla finestra.

“Straniero, vogliamo mostrarti delle cose, seguici!”.

Lui rotolò frettolosamente giù dal materasso, infilò i jeans che aveva abbandonato sul pavimento e uscì. L’uomo, insieme ai due bambini più piccoli, lo attendeva all’esterno, del pane e una mela in mano.
“Tieni, puoi mangiare mentre cammini” lo esortò gentilmente, porgendoglieli.

“Secondo i racconti, una volta eravamo divisi – iniziò a raccontare, oltrepassando altri capannelli di gente che li salutò cortese al loro passaggio – il senso di comunità non era percepito come importante; questo condusse a litigi, discordia e guerra – il suo tono si rattristì – tutti erano concentrati non sul bene comune, ma sul proprio. E questo è male. Poi, un giorno, i nostri antenati scoprirono che la base di questo era dovuta alla famiglia: se due esseri ne generano un terzo e lo crescono, ameranno questo sopra ogni cosa, non credi? Venne allora deciso che da quel momento i piccoli – accarezzò la bambina che trotterellava al suo fianco – non sarebbero stati con delle persone fisse ma sarebbero stati liberi e che tutti ne sarebbero stati responsabili fino alla muta”.

“La muta?” domandò Guglielmo, non riuscendo a capire.

I tre sorrisero. “Vieni – lo tirò per la manica il bimbo – guarda”.

Si trovava davanti a quella che sembrava una serra. All’interno, giganteschi boccioli purpurei di una specie che non aveva mai visto prima.

“Cosa sono?”.

“Noi li chiamiamo ùdaram*, sono stati creati dai nostri avi, e per questo noi sempre li ricordiamo e onoriamo durante la messa”.

“I vostri avi hanno creato queste piante?”.

Altri sorrisi.

“Gli ùdaram e la Parola sono il lascito del passato per costruire un migliore futuro. Sono ciò che ci rendono noi, e noi siamo noi, siamo tutti, siamo insieme e insieme decidiamo. Tutti sono importanti, tutti sono utili, tutti sono amati, grazie a questo” e, nel dirlo, si scostò. Quello che Guglielmo vide fu la cosa più disgustosa, per un certo verso, più innaturale… eppure anche la più bella che mai aveva visto. Uno dei giganteschi boccioli si aprì leggermente, ma nel lato inferiore: un uomo si avvicinò e, con estrema delicatezza, ne estrasse un neonato perfettamente formato e urlante.

“Sono incubatrici! – balbettò, sconvolto – sono uteri artificiali!”.
La bambina annuì, ma lui non riusciva a credere che una creaturina così giovane potesse capire davvero simili concetti, già sconcertanti per lui. Si rivolse allora all’adulto, chiedendo maggiori spiegazioni.

“Te l’ho già detto: i nostri avi hanno ideato il metodo degli ùdaram per fa sì che tutti fossimo amati e tutti ci amassimo allo stesso modo. Alla nascita vengono prelevati i gameti e vengono poi casualmente incrociati per generare nuove vite quando il numero della comunità cala. Ogni villaggio ha i suoi ùdaram, questo garantisce che non vi siano sovrappopolazioni – compitò con difficoltà, come se fosse una parola conosciuta solo nella sua forma, ma non nel contenuto – che potrebbero condurre a migrazioni o conflitti” terminò, similmente.

“Questo non è il Paradiso”… mormorò Guglielmo, affascinato, però, dalla stranezza e dalla bellezza del ragionamento.

“Non capiamo cosa tu intenda con queste parole, spero che ciò che ti abbiamo mostrato ti abbia aiutato a capire, ma che non ti abbia spaventato”.
“No, no, anzi, ti ringrazio per questo… ho capito il perché non ci sono… persone di grado più alto delle altre, partite tutti uguali, è così? Ma i bambini non sono sottoposti a nessuna autorità? Chi insegna loro?”.

“Non abbiamo niente da imparare: abbiamo nella mente tutto ciò che gli altri hanno. Condividiamo opinioni, pensieri, emozioni. Questo per far sì che non vi possa essere screzio o disaccordo. Per garantire l’armonia e l’amore. Il bambino è tale solo nel corpo: man mano che questo si sviluppa, gli vengono commissionati compiti sempre più simili a quelli di tutti gli altri”.
“E questo non genera rivalità?”.

“E perché dovrebbe? Tutti siamo stati bambini, tutti saremo vecchi. Non c’è nulla di speciale, né nulla di diverso”.

“Perdonami… continuiamo a parlare e io ancora non ho capito i vostri nomi”.
“Noi non abbiamo nomi, perché averne? Il singolo non ha valore, né nessuno di noi vorrebbe stare da solo… non veniamo amati da nessuno, se siamo soli – rabbrividì l’uomo – siamo umani. Tanto ci basta, non ci servono altre definizioni”.

“Ma allora come vi rapportate fra di voi?” chiese, sempre più allibito, ma anche stranamente confortato.

“Non servono i nomi per stare insieme. Quando conosci qualcuno intimamente, lo chiami per nome? Quando siete insieme, non siete forse un “noi”? È la stessa cosa, straniero: noi non abbiamo nulla che ci divida, viviamo insieme. Quello che, da dove vieni, è importante, il nome… qui non ha senso. Dai forse tu un nome ad ogni singolo filo d’erba, o a ogni bestia che rumini al pascolo? Eppure non ami e ringrazi allo stesso modo ogni spiga che ti fornisce sostentamento e ogni capo macellato?”.

“Ce…certo” balbettò lui, colpito dalla logica dell’altro.

Restarono insieme in silenzio, osservando quella serra, che serra non era.
“E gli anziani? Non ho visto persone anziane, da quando sono arrivato”.
“Così come ai piccoli vengono affidati oneri via via più pesanti crescendo, così agli anziani gli stessi vengono via via levati. Tutti fanno la loro parte, sia essa piccola o grande, fino alla fine”.

“E hanno un loro valore, vengono apprezzati?”.

Per la prima volta da qualche tempo, l’uomo e i bambini lo fissarono sorpresi “Uno dei compiti degli anziani è quello di far sì che la piazza sia sempre ordinata per la messa, un momento importantissimo, per noi: non so se è questo che intendevi”.

Tanto gli bastava: l’amore dell’intera comunità, una funzione importante e riconosciuta. Nessun bisogno di essere sempre all’altezza del prima, nemmeno nessun ricordo di ricordarlo, il prima.

“Vi prego, torniamo a casa – disse, la voce rotta dalla commozione – cercherò di fare la mia parte per aiutarvi, se mi accetterete. E spiegatemi bene cosa avviene in questa messa, ho sentito una straordinaria sensazione di pace l’altra sera”.

“È perché in quel momento l’armonia che regna fra noi tocca il suo picco, e quindi anche se ancora…”.

Si allontanarono parlando.

 

Nascosto nell’erba, stava un piccolo quadrato di pelle marrone: un portafoglio. Era semiaperto e, facendo attenzione, era possibile scorgere, anche senza toccarlo, il volto di una bambina sorridente, congelato in una fotografia. Una delle nutrici si allontanò dalla serra e lo calpestò, senza nemmeno accorgersene, facendolo affondare nel fango scuro.

   
 
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