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Autore: Drama Queen    15/03/2014    2 recensioni
"Sono seduta nello scompartimento di un treno, ma non ricordo come ci sono salita. Anche riflettendoci bene, non riesco a trovare nella mia memoria delle informazioni che mi dicano che cosa mi ha portata qui. Mi ci sono semplicemente… ritrovata.
Mi rendo improvvisamente conto che non so dove mi stia portando questo treno."
Questa storia è ispirata ad "Alice nel paese delle meraviglie" di Lewis Carroll solo per il nome della protagonista ed il genere "nonsense", non ha altre caratteristiche o personaggi in comune con il libro o i film che ne sono stati tratti.
Genere: Introspettivo, Mistero, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Act I – Alice on a broken train
 
“Took a right, to the end of the line
Where no one ever goes.
Ended up on a broken train
With nobody I know.”
 
                                    Mika, “Relax, take it easy”
 
Fuori dal finestrino scorre un panorama che non conosco. Distese di alberi, montagne, case che non avevo mai visto prima. Anche il cielo mi sembra estraneo, nonostante sia azzurro e punteggiato di nuvole, esattamente come quello che ho sempre conosciuto.
Sono seduta nello scompartimento di un treno, ma non ricordo come ci sono salita. Anche riflettendoci bene, non riesco a trovare nella mia memoria delle informazioni che mi dicano che cosa mi ha portata qui. Mi ci sono semplicemente… ritrovata.
Mi rendo improvvisamente conto che non so dove mi stia portando questo treno. Mi guardo intorno, ma il resto dello scompartimento è deserto. Non c’è nessuno a cui posso chiedere.
Certo, chiunque mi prenderebbe per pazza sentendosi porre una  domanda del genere: chi mai salirebbe su un qualunque mezzo di trasporto senza sapere dov’è diretto? Però ora non mi importa di ciò che potrebbero pensare. Mi basta sapere dove sto andando.
Apro la porta che divide il mio vagone da quello successivo, osservo bene, ma anche quello è completamente vuoto. Lo stesso vale per lo scompartimento precedente. È davvero possibile che io sia la sola passeggera?
Mi accascio di nuovo sul mio sedile. Forse sono veramente pazza. Non so dove sono, dove sono diretta né da dove è iniziato il viaggio. Non ricordo nemmeno di essere partita dalla stazione. Com’è possibile che io abbia dimenticato tutto?
“No, devo calmarmi” mi dico.
Per non pensare alle mie domande senza risposta e, soprattutto, per non farmi prendere dal panico, riprendo a guardare fuori dal finestrino.
Gli alberi hanno le foglie ingiallite.
Ma fino a pochi minuti fa erano verdi!
Non può essere già arrivato l’autunno. È giugno, ne sono sicura. Indosso una maglietta leggera dei pantaloncini corti e non ricordo di aver avuto freddo, vestita così. Non è possibile che sia arrivato ottobre, tutto d’un tratto.
Eppure, il paesaggio là fuori sembra pensarla diversamente, infatti, dopo pochi minuti, inizia addirittura a nevicare.
Ma quanto tempo è passato?
“Respira, Alice, respira profondamente. Di sicuro c’è una spiegazione.”
Sì, la spiegazione è che sono diventata pazza, come dimostra il fatto che sto parlando da sola.
Quando il cielo fuori dal finestrino inizia a tingersi di giallo e le foglie degli alberi si colorano di blu e di viola, mi arrendo all’evidenza: la sanità mentale mi ha definitivamente abbandonata. Decido, quindi, che la cosa migliore da fare è restare seduta a godermi lo spettacolo delle mie allucinazioni. Tentare di costruire un ragionamento sensato, ormai, non sarebbe più possibile.
Improvvisamente, la porta dello scompartimento si apre di scatto ed entra un omino dall’aspetto alquanto buffo. La sua statura è veramente ridicola: probabilmente non arriverebbe più in alto della spalla neanche a me, che sono sempre stata piccolina. In compenso, la circonferenza del suo ventre è decisamente notevole. Nel complesso, la forma della sua figura si potrebbe definire… tonda.
Il suo abbigliamento, poi non contribuisce ad ispirare rispetto: è vestito con un curioso panciotto viola e porta una cravatta a pallini verdi e rossi.
“Signorina, il biglietto” mi chiede con voce lievemente nasale.
Osservando meglio, noto un cartellino distintivo sopra la tasca del suo panciotto.
La comparsa di un controllore dall’aspetto così bizzarro, mentre mi trovo in una situazione di per sé assurda, mi lascia spiazzata, tanto che rimango a fissarlo, incredula, per alcuni secondi.
Solo dopo mi rendo conto che non ho nessun biglietto.
“Signore, io… Non so… Insomma, io non ho…” balbetto. Forse, se gli spiegassi che mi sono ritrovata qui per sbaglio, sarebbe un po’ più indulgente nei miei confronti.
“Non ha il biglietto?” domanda, invece, per nulla comprensivo.
Mortificata, faccio segno di no con la testa.
“Ne è sicura? Provi a guardare nella sua tasca…” mi risponde, questa volta facendomi l’occhiolino.
Seguo il suggerimento e, frugando nelle tasche dei jeans, inaspettatamente, trovo un biglietto, valido dalla stazione di Padova a quella di… “Sogni Centrale”.
Che stazione sarà mai?
Alquanto perplessa, lo porgo al controllore, che dà un’occhiata compiaciuta e lo convalida. Evidentemente, il biglietto è valido, anche se non sapevo che esistesse una stazione con quel nome né in Italia né in un altro paese del mondo.
“Grazie, signorina.”
L’omino mi saluta con un cenno e fa per andarsene, ma io lo richiamo.
“Aspetti signore, aspetti! Mi può dire dove porta questo treno?”
Lui mi scruta con sorpresa, come se tra i due la persona strana fossi io.
“Non ha letto la destinazione sul suo biglietto, signorina?” mi chiede. “Deve scendere alla stazione di Sogni Centrale. È la prossima fermata, quindi si prepari e prenda i suoi bagagli.”
“Ma io non ho nessun bagaglio!” esclamo.
Il controllore mi rivolge uno sguardo ancora più perplesso.
“Se non è sua, di chi è quella valigia?” mi domanda, indicando qualcosa sopra il mio sedile. “Non c’è nessun altro in questo scompartimento.”
In alto, sopra la mia testa vedo il mio borsone rosso da viaggio. Perché non l’avevo notato prima? È stato sempre lì oppure è comparso adesso?
Ormai mi sto abituando agli eventi inspiegabili, che sembrano essere all’ordine del giorno in questo viaggio, perciò non mi preoccupo nemmeno di dare risposta a queste domande.
Dopo aver tirato giù la valigia, saluto il controllore e lo ringrazio per le informazioni che mi ha dato. L’omino mi augura un buon viaggio e si allontana, canticchiando una strana canzoncina che ho l’impressione di aver già sentito da qualche parte, anche se non ricordo dove.
Osservando il borsone, devo riconoscere che è proprio il mio: ha lo stesso portachiavi a forma di batuffolo appeso alla cerniera e le firme di alcuni miei compagni del liceo scritte con il pennarello indelebile su un lato. Il contenuto, però, non mi appartiene, anzi non ricordo di averlo mai visto.
Dentro ci sono solo pochi oggetti: un libro dalla pesante copertina nera, che però scopro avere tutte le pagine bianche; un vestito da sera, di un brillante color rosso fuoco, ripiegato con cura; un compasso e un album da disegno; una foto di gruppo, in cui non riconosco nessuna delle persone rappresentate.
Richiudo la borsa, con un sospiro.
Non perderò nemmeno tempo a chiedermi come sono finiti questi oggetti nella mia borsa, perché so che finirei per scervellarmi per nulla. Decido semplicemente di portarmeli dietro: forse prima o poi scoprirò che c’è un motivo se li ho avuti io.
Il paesaggio che vedo dal finestrino sta cominciando a cambiare di nuovo. Gli alberi sono sempre blu ed il cielo è di uno strano color giallo sfumato sul verde chiaro, ma iniziano a comparire delle costruzioni dalle forme curiose. Altissimi grattacieli a punta, case cilindriche tutte dipinte di bianco e anche qualche edificio sferico. Mi sto avvicinando ad una città.
Sento che il treno inizia a rallentare e, come mi ha consigliato il controllore, mi preparo a scendere.
Dopo qualche minuto, il treno si ferma, con uno scossone, e le porte si aprono. Davanti a me, il cartello appeso sopra i binari recita “Sogni Centrale”.
Per lo meno, so che sono scesa alla stazione giusta. Ma giusta per che cosa?
Che cosa ci faccio qui? Non so nemmeno in che paese mi trovo. Spero di trovare un treno che porti a Padova, o a Venezia, o una qualsiasi destinazione vicina a casa mia.
Ora che osservo meglio, non c’è nessun altro treno sui binari. L’unico era quello da cui sono appena scesa, che ormai è ripartito per una destinazione ignota. Non ci sono altre persone sulla banchina. Sono sola di nuovo.
Il tabellone degli orari, come c’era da aspettarsi, non è in funzione.
Mi metto a tracolla il borsone ed esco dalla stazione, sperando di incontrare qualcuno che mi possa aiutare, ma non incontro anima viva. Mi trovo davanti un grande piazzale, lastricato con ciottoli bianchi e grigi, deserto. Non ci sono negozi aperti, né passanti per la strada. In che posto sono capitata? E, soprattutto, come posso fare per tornare a casa?
Noto che, da un lato del piazzale, c’è uno spiazzo d’erba blu-violacea con un piccolo parco giochi per bambini. Decido di fermarmi lì per un po’. Appoggiato il borsone per terra, mi siedo su un’altalena. Sono assolutamente disperata.
Un’ondata di emozioni mi travolge ed io non ho la forza di fermarla. Lascio che le lacrime scendano liberamente bagnandomi la guance. In ogni caso, anche se piango, non c’è nessuno che mi più vedere. Sono sola, in una città sconosciuta è deserta.
  
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