Come carta gettata in un fuoco, con tanto di piccole scintille intorno. Fissava assente il soffitto del bagno, con gli occhi rossi e le guance lucide di lacrime. A che serviva, a che cosa serviva piangere se le lacrime che gli morivano fra le labbra avevano il sapore del cianuro?

Chissà, forse l'avrebbero trovato divertente. Un ragazzino che sgomitava furioso in mezzo alla calca di anime della fila veloce, dritto verso l'Elisio e con gli occhi pieni di rabbia. Ché la morte non l'aveva mai desiderata, pur invocandola ventiquattro ore al giorno. Un timido alone, una carezza nella sua anima. Poi più nulla.

Done. Fatto, finito. C'era una tale completezza in quelle parole che quasi gli pareva estranea. Lui non aveva compiuto nulla, nulla. Allora perché quel senso di fine imminente gli incombeva sul collo?

Guardò la foto sul comodino, attraverso la porta aperta, lui accanto a Percy in uno scatto un po' troppo verde per i suoi gusti. Si vedeva sorridere, eppure ben ricordava che in quel momento stava morendo. Era sempre stato così bravo a fingere? Dei, dei immortali, il vostro senso di giustizia non ha eguali. Davvero.

Quindici anni. Il tempo come un flash, una barra fra il '34 e il 2014. Aveva troppi anni sulle spalle. Quindici, cinque, settanta precisi, chiari e tondi in quello slash, sbavo d'inchiostro sulla carta bianca. Eppure i mesi erano solo otto, otto i mesi da quando Percy e Annabeth se n'erano andati lasciandoli soli. Gli occhi di Nico, affamati e appannati come quelli di un gattino orfano, guizzavano da una parte all'altra di quelle tombe gemelle.

Non Elisio, ma rinascita. La promessa di incontrarsi nuovamente nella prossima vita.

Solo per sempre. Si era scorticato le dita a furia di accarezzare quella lapide, perché ora poteva toccarla senza essere respinto. Non era Percy. Non era la sua pelle e non era calda. Ma chiudendo gli occhi, poteva diventarlo.

E quasi la prendeva per una magia. Parlare sottovoce, per ore, con quel pezzo di marmo era l'unica cosa che riempiva le sue giornate.

Probabilmente, quella sua routine non serviva a niente. Lo faceva sentire meglio per mezz'ora, un'ora al massimo, poi il dolore tornava. Tornava sempre. Era come curare un cancro con l'aspirina.

Mosse una gamba, osservando le lampadine che pendevano dal soffitto. L'acqua calda sembrò lamentarsi, ma non gli importava.

Chissà che rumore avrebbero fatto, cadendo.

Sulla sua testa.

Sulla sua testa.

Via tutti i pensieri.

 

Crash.

 

Sbattè le palpebre, mosse l'altra gamba.

Non era cambiato nulla.

I numi stavano a guardare, gelidi, impassibili.

Come l'etere nutriva le stelle. E se anche lui fosse stato l'etere, ormai non importava più.

Le stelle si spegnevano, a mille anni luce, e nessuno l'avrebbe saputo mai.