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Autore: Quintessence    17/03/2014    8 recensioni
« Non è una gara. Usagi cresce, e cresce, e cresce ancora. Poi è cresciuta. E solo allora, all'improvviso, tutti cominciano ad accorgersene. »
-Non importa chi si trasforma prima. C'è un mazzo di rose davanti alla porta.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima serie
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Allora, si tratta di una storia sulla prima stagione scritta per un vecchio contest (5 sensi -> gusto) e poi revisionata. E' una storia scritta soprattutto nel manga!verse ma anche un po' anime... diventando perciò una storia che racconta una versione a sé di un momento specifico della vita di Usagi. Metto una nota perché magari non è immediato, ma tutti i sapori sono Serenity. Nella storia dopo un po' si capisce che il sapore in realtà è lei che "vuole uscire", ma magari all'inizio può risultare oscuro... Non ho avuto molto tempo per le revisioni e mi dispiace, lo metto qui in nota anche per non allungare il brodo, sono già tante parole. Usagi/Mamoru. Con amore.

•••

...E qualcosa è cambiato.

Sua madre è china sul lavandino, l'acqua scorre veloce e ogni volta che finisce di lavare un piatto, quello schiocca contro il precedente con un suono particolare -duro abbastanza da sembrare una rottura, ma non duro abbastanza da esserlo davvero. Usagi, invece, se ne sta in silenzio; forse troppo in silenzio. Seduta al tavolo della cucina studia sua madre, e studia le sue mani, e studia il modo in cui sembrano lavorare con precisione millimetrica sott'acqua. Sono mani attente, pensa. È una cosa strana da notare, il fatto che le mani di sua madre le sembrino attente con qualcosa di così poco importante come i piatti. Poi Ikuko tossicchia, e il suono riempie la cucina. Usagi si domanda se si sia accorta che è ancora seduta lì, da quando hanno finito di mangiare.

«Mamma,» comincia piano, mentre le mani di sua madre sono ancora sott'acqua. «Mamma,» ripete. «Ho mai desiderato di essere una principessa?»
Ikuko ride, ma non si volta. Resta china. «Da dove t'è uscita questa domanda, tesoro?»

«Non lo so,» risponde Usagi. La sua espressione si attorciglia in una smorfia un po' piccata per la risata, che sa di presa in giro. «Ma non è quello che tutte le bambine vorrebbero? Essere principesse?»

«Tu sei ancora una bambina, Usa-chan.» Dice sua madre, ed è allora che finalmente si volta, lo sguardo tenero e amorevole. Nella gola di Usagi si forma una specie di grumo, e si rende conto di non riuscire a distogliere gli occhi da quelli di sua mamma, dal modo in cui i suoi occhi formano rughe tutto intorno alle palpebre quando sorride. C'è qualcosa di antico che la lega ai suoi occhi, e non è la prima volta che lo nota, il modo in cui gli occhi di sua madre esprimono tutto con quel grigio spento... E invece Usagi sa fin troppo bene che i suoi, di occhi, sono troppo, troppo blu.

Riesce a scuotere la testa cautamente. «Lo so.»

Sono tranquille, tutte e due, e Usagi teme quasi di aver detto più del necessario, d'essersi scoperta, anche se la domanda sembrerebbe solo un'innocua domanda, semplice e pulita. Si sente colpevole di tradimento quando sua madre la guarda ancora, si schiarisce la gola e all'improvviso non c'è più il rumore dell'acqua perché l'ha chiusa, c'è il sottofondo della televisione dall'altra stanza, le voci di Shingo e di suo padre che si confondono in una risata impastata, sempre più alta. Sua madre si volta e fissa la porta per un secondo.

«No,» dice. «Non sei mai stata una di quelle bambine.»

La parte più difficile, per tutte loro, è ascoltare tutto quello che Luna dice e poi accettarlo. Erano altre persone, un tempo; l'idea di anime reincarnate non ha mai fatto impazzire Rei, Usagi lo vede, lei soffre particolarmente all'idea che qualcuno o qualcosa le impedisca di essere completa o anche solo completamente libera. E poi c'è la questione della principessa, e il fatto che tutte si aspettano che lei faccia funzionare le cose. Usagi, più di tutte, non riesce a trovare il suo posto; tutte le altre sono radicate nei ricordi di Luna, ma lei no.

Sabato vengono tutte svegliate all'improvviso, e buttate giù dal letto da un attacco vicino al tempio: è Makoto che organizza il tutto, le fa sgattaiolare fuori senza rumori e percorre i vicoli con maestria, perfettamente in silenzio. «Certe vecchie abitudini torneranno sempre utili,» ridacchia, e Rei si diverte, mentre Ami e Usagi arrancano nel tentativo di raggiungerle, perché corrono troppo veloci.

Non possono trasformarsi. È tardi, è vero, ma non tardi abbastanza perché tutti dormano, devono trovare un posto adeguato, e appena cominciano a camminare sui marciapiedi e non nei vicoli, il panico della gente è abbastanza solo per permettere loro di mimetizzare la camminata verso il mostro, e non verso una fuga sicura.

È Usagi che le guida tutte in un vicolo cieco poco prima del posto segnalato da Luna; sono tutte paralizzate dai ruggiti dello youma che possono solo immaginare, e il grido di una donna vicino non fa che alimentare il panico. Makoto si trasforma per prima. Poi lo fa Rei, e poi Usagi -Ami è già sparita dietro l'angolo per preparare il terreno.

«Non esagerare» dice all'improvviso Rei a Makoto. «Sei troppo forte per un posto come questo. Rischi.»

Rei è fredda, ha l'aria di chi sa quello che fa e gli occhi che bruciano ogni volta che sentono un altro grido. Usagi è silenziosa. Guardano Makoto sparire dietro l'angolo mentre non c'è nemmeno traccia di Luna, sono troppo veloci per lei. Usagi si forza a deglutire di nuovo, dopo un altro grido. Le dita si serrano quasi in automatico sul polso di Rei.

«Anche tu,» dice. La ragazza dai capelli corvini la guarda sorpresa. «I tuoi attacchi sono anche più veloci di quelli di Makochan. L'ultima volta, ti sei fatta male.»

Cerca di addolcire lo sguardo. I capelli le si attorcigliano sulla gola, e le sembra che solo allora la trasformazione sia completa, la pesantezza dei guanti che le scava nella pelle. Se la sente addosso, quella fuku. Rei di solito la capisce al volo, la legge fino in fondo, ma non c'è tempo abbastanza adesso, perciò può solo offrirle un sorriso veloce, un vano tentativo di rassicurarla, affrettandosi al fianco di Makoto per aiutarla. E così resta solo Usagi a indugiare, solo Usagi a giacere con la schiena sul muro, solo Usagi a prendere quell'ultimo, profondo respiro.

Finisce tutto con lei, in un modo o nell'altro.

Il suo segreto più grande è che ha cominciato a sognare molto prima di tutta quella storia, molto prima che ci fosse bisogno di una distinzione fra un ricordo che fosse un ricordo vero e le cose che invece erano solo frutto della sua immaginazione, solo foto nella sua testa.

Non lo dice a nessuno, ovviamente. A volte Luna la sente, o la vede, nel mezzo di un sogno -o di un incubo, i nomi che le si affollano sulle labbra e che scavano nella sua gola, mentre cerca di gridarli per sbarazzarsene. Una volta, l'unica parola che usciva era mamma. Adesso è diverso, è cresciuta, e non è più come una volta. Non può più aprire gli occhi e precipitarsi giù per il corridoio, infilarsi fra i genitori nel letto grande e poi richiuderli, fingendo che non esista più niente. Ricorda un sacco di cose. Suoni, e sensazioni. Ricorda la sensazione di una mano di donna calda sulla guancia, di come le prendeva il viso fra le mani a coppa, di come le sue labbra fossero calde sulla sua fronte. E più di tutto, di quanto tristi possano essere davvero le parole mi dispiace.

Ricorda anche i giardini, e i piatti delle feste. I sapori sono quelli che restano di più, quando si sveglia. La dolcezza di alcuni piatti -e non dovrebbe ricordarne il sapore, perché non li ha mai assaggiati. Invece si sveglia con il palato infiammato di piccante, o impastato di dolcezza. Ricorda qualche piatto preferito, a volte chiede alla mamma di prepararglielo per curiosità, per vedere se per davvero hanno lo stesso sapore che ricorda. Più di tutte le altre cose, tre la tormentano continuamente. Sapore di menta, fragranza di biscotti alla cannella e sapore di gelato alla vaniglia. Voglie di cibo la dominano incontrastate, tanto che lunedì ne ha comprato un barattolino e l'ha finito da sola, di nascosto, in bagno, il gelato. Tutta la notte è stata male, sia nel corpo che nello spirito, con la sensazione di essere qualcun altro, fuori e dentro dai suoi sogni, e ne viene corrosa, logorata, contratta, e aspetta che qualcuno arrivi e semplicemente, finalmente...

Capisca.

C'è una cosa, comunque, che alla fine in qualche modo si è fatta strada nella sua testa. Che in qualche modo ha scoperto. Una verità che la tortura. Non dovrebbe -né sarebbe mai dovuta esistere- una Senshi della Luna.



«Moon!» grida Rei, mentre la schiena di Usagi colpisce il muro con violenza, la gamba sinistra si
piega innaturalmente e il braccio dello youma le si avvinghia sul petto. Getta la testa all'indietro, e il sangue comincia a segnarle la bocca, mentre il respiro caldo e bavoso dello youma le scende nella gola. E sembra impossibile, ma in quel momento ha ancora la saliva impastata del sogno della sera prima. Cannella. Non combatte -no, non ancora, c'è una specie di piano a cui deve essere fedele. Ricorda a se stessa che questo mostro è una persona. Che ci sono i cristalli; i cristalli sono la cosa più difficile da dimenticare.

Quando comincia a ridere, solleticandole il collo, Usagi gira la testa e la spinge contro la sua stessa mano, a sufficienza da poter afferrare la tiara e togliersela dalla testa. Viene via con uno schiocco secco, e lei la infila con tutta la forza che ha in corpo nel collo dello youma. Quello incespica all'indietro con un alto e orribile grido, che le dilania le orecchie, e il vomito le sale immediatamente dal fondo dello stomaco perché ha respirato profondamente e l'aroma di quei raffinatissimi biscotti mangiati in sogno le ha bucato la lingua. Inciampa, disorientata, si piega sulle ginocchia e le sente cedere, la polvere e la sporcizia del pavimento le graffiano la pelle e la punta di menta che contenevano le graffia la gola. Brucia. Se l'afferra, mentre una lacrima chiama cento altre e Rei -no, Ami forse- grida, grida che qualcuno faccia qualcosa. Usagi non sa nulla.

Le orecchie le fischiano fortissimo.

Il suo braccio trova il suo posto attorno ai suoi fianchi, esattamente nel momento in cui Makoto finisce di pronunciare il suo attacco contro lo youma. È strano stare a guardarlo; la luce esplode di colpo, e colpisce il lato di un edificio, scorticando il fianco del mostro e forzando almeno uno dei muri portanti a crollare sulla strada.

«Stai bene,» le sussurra lui all'orecchio, ed è difficile sentire qualsiasi altra cosa a quel punto, a parte il bruciante gusto che quella mattina nemmeno il dentifricio è riuscito a mandare via -Tuxedo Mask è Tuxedo Mask, e non c'è tempo di capire altro, oltre a questo. Lui si spinge su, fino a un tetto in alto abbastanza perché lei possa riprendersi, riprendere fiato. Usagi sente Rei sferrare un'altro attacco alle sue spalle; la scena sotto di loro si dipana velocemente verso il caos. Ami grida subito dopo, e qualcosa si spezza, ed è terribile così come sembra, forse sono ossa anche se non sembra... Forse qualcosa di più vicino al vetro. Ma Usagi è annebbiata. Pensa alle finestre e alla cannella. Alla menta. Anche un po' alla vaniglia. Non capisce. La testa le vortica. Si volta verso Tuxedo Mask.

«Sei davvero perfetto, a fare questo lavoro, lo sai?» mormora e ridacchia, ed è la migliore delle scuse che le venga in mente in quel momento. «Perdonami.» sospira poi, e si seppellisce nel suo petto.

Lui ride, ma lei non lo vede, non capisce se sta sorridendo o se lo fa per farla sentire meglio. Allora si stacca dal suo abbraccio, e si tira in piedi appoggiandosi su un pezzo di muro. Si sporge. Rei e Makoto attaccano insieme, questa volta, gli attacchi si allacciano velocemente e con padronanza mentre Ami tiene su a malapena una debole nebbia. Sono tutte stanche, si vede. Gli attacchi sono oramai troppo frequenti.

«Moon,» la chiama Tuxedo Mask. I denti le si incastrano nella bocca e sente il sapore del sangue. Sta per vomitare, lo sente, insieme alla menta e ai biscotti che non ha mangiato, tutta quella poltiglia. «Moon.»

Lei si prende la pancia con le mani e mugugna «Solo un attimo,» e quando gli attacchi colpiscono lo youma, quello cade di nuovo sullo stesso edificio, schiacciandolo. Usagi vede la rosa infilata dentro alla sua spalla, e si mette le mani sui fianchi, prima di prendere di nuovo la tiara.


E c'è poco da dire e c'è poco da fare. La scaglia con tutta la forza che ha dentro il corpo.

Le ragazze se ne sono andate da un bel pezzo. In poco tempo, le seguirà anche lei. Lo youma di questa notte era un uomo anziano, confuso e piuttosto acciaccato mentre Makoto lo conduceva via dalla scena del delitto. Usagi rimane sul davanzale solo perché Tuxedo Mask è ancora lì, ancora aspetta, e lei è l'unica che possa proteggere le identità delle altre, trattenendolo. Resta tremante con la schiena appoggiata al muro producendo saliva al profumo di cannella e si forza a incrociare le labbra sul petto.

«Non ti chiederò nulla,» dice lui.

«Bene,» risponde lei. Entrambi sanno bene che è una bugia. Lui chiederà. E chiederà dei cristalli. Le linee della sua bocca si rilassano un pochino. «Hai combattuto bene, stanotte.» dice, «In realtà, tutte voi avete combattuto bene. State diventando un portento, a lavorare insieme.»

«Sì, beh, è che...» mormora. Le guance le si arrossano. Non riesce a decidere cosa dire, non riesce a decidere se sia qualcosa che le piace o non le piace sentire. La verità è -ed è lì in mezzo a loro- che lui indugia sempre e sempre di più, mentre lei invece si sta aprendo piano a... qualcosa. Si strofina gli occhi, e lo guarda stancamente. «Voglio dire, lo apprezzo, insomma...»

«Voglio parlare dei cristalli.»

Ed ecco, eccolo. Non lo sputa fuori, non ha mai parlato d'impulso, semplicemente la mette lì, ferma, come una frase qualsiasi. E questo è il punto, la linea che continua a separarli, lui e lei, la linea che costringe Luna ad esitare sempre un po' troppo, tutte le volte che Usagi chiede di restare indietro. Le altre ragazze si fidano di lei, certo, ma Usagi non sa per quanto tempo può reggere questo gioco. Si allontana da lui, mentre lui invece scivola in avanti, guardandola mentre lei annaspa con le mani, intrappolata nell'uniforme. Sente i capelli annodarsi sulla gola, per colpa del vento leggero, e si volta, solo abbastanza per non guardarlo e per prendere un profondo respiro. Perché davvero, quel sapore sta per farla vomitare.

«Conosci bene la mia risposta,» dice. La voce le si spegne in gola, e si sente all'improvviso a disagio. «E io conosco la tua. Per quanto mi piacerebbe... andare d'accordo su qualcosa, immagino che tu voglia solo una cosa. E premerai sempre per quella.»

«Sei preoccupata.»

I suoi occhi roteano. È irritante quando fa così. «E perché non dovrei esserlo?»

«Io-» si passa una mano fra i capelli. La maschera si abbassa un poco, sul suo naso, e Usagi si contrae tutta, piano, la bocca ridotta ad una fessura. «Non cambierà niente fra di noi, i nostri obiettivi si sovrappongono, e finché voi non-»

«Ti daremo i cristalli, eh?» fa un passo indietro. «Non dovrei parlare con te.» dice. «Dovrei andare. E non dovrei nemmeno ripetere la stessa cosa mille volte, sul fatto che non ti daremo i cristalli. Io pensavo solo che... pensavo che parlare con te... Tu non vedi quello che vedo io, vero? Non senti questa nausea costante. Sei solo focalizzato su questa principessa e questa missione, e ti sei dimenticato che ci sono altre persone che combattono la tua stessa guerra. E tu dici che non cambierà niente. E se sarà lo stesso, allora non ti darò i nostri cristalli.»

Tutto il discorso sembra finalmente liberarla da quella sensazione fastidiosa di dolce in bocca, e chiude gli occhi. Non ha mai ammesso niente di tutto quello che ha detto ad alta voce, a nessuno -a Luna, alle ragazze- e fa male. Gli occhi le bruciano terribilmente, e sente che lui sta facendo un passo avanti.
La sua mano le accarezza la guancia, e Usagi a malapena riesce a respirare. Non lo guarderà, anche mentre le sue mani si fanno strada fra i suoi capelli, fra gli odango e poi
ancora indietro, fino alla linea della mascella. Pensa che lui stia cercando di rassicurarla, o di farla sentire a suo agio, o qualcosa del genere. La voce di Luna se ne sta cheta nella sua testa da qualche parte e le dice che no, non può fidarsi di lui.

«Mi dispiace.» le dice allora lui. «Perché sai che allora me li prenderò.»

E tutto è pesante. Tutto è troppo pesante. È diverso, questa volta. Suona differente e perfino il gusto è differente. Il cuore comincia a battere forte, e s'attorciglia su se stesso, e la colpisce ancora, la differenza fra l'essere Usagi e Sailormoon. Non può parlare con nessuno, ed è tutto un fare piani, e tenere tutto sotto controllo per trovare questa stupida principessa. Non le interessa. Non vuole che le interessi.

«Vattene.» Dice piano.

Ci vuole poco meno di un minuto. Lui resta nascosto, ad ascoltarla piangere.

Le ragazze non le chiedono nulla riguardo alla loro conversazione; è una regola tacita. Usagi è l'ultima a lasciare il tempio la mattina, impacciata com'è con la borsa finché Rei l'aiuta a caricarsela sulle spalle.

«Assicurati di metterci del ghiaccio, su quel livido.» dice con gentilezza. «Sicura di non voler restare? Il nonno non tornerà fino a stasera.»

Usagi scuote la testa. «Voglio andare a casa.» Si sorridono a vicenda. Rei è un po' brusca, e un po' tirata, e preoccupata, e Usagi è appena cosciente. Si trascina comunque giù per le scale, e poi sul marciapiede, dove la folla comincia a chiacchierare del weekend. Non vuole davvero andare a casa. Le scuse cominciano a sembrarle sempre le stesse; quante volte potrà ancora dire sono caduta prima che sua madre la guardi e capisca? Quante potrà chiudersi di nascosto in bagno a masticare cicche alla menta con furia? E comunque, non le piace essere una bugiarda. L'Arcade le compare davanti senza che quasi lo veda, e con un sospiro Usagi segue i suoi piedi sulla strada. Le dita serrano la borsa e quasi le fanno male, mentre Motoki, che sta pulendo i vetri, la vede e le sorride gentile.

«Allora, serata solo ragazze ieri?»

Usagi cambia subito il suo sorriso da malinconico a divertito. «Assolutamente sì,» dice. Poi ridacchia. «Il weekend è sempre divertente finché non finisce.»

Lui la fa entrare, la convince a prendersi un milkshake. Usagi annuisce e prende uno degli sgabelli nell'angolo, senza cerimonie mollando la borsa sul pavimento. È solo una breve chiacchierata, in fondo. Motoki le chiede delle ragazze, anche se sa bene che nel pomeriggio saranno tutte lì. È strano in effetti, come certi schemi sembrino ripetersi continuamente. Gli attacchi degli youma diventano più lunghi, e più faticosi, e l'unico posto in cui riescono a pensare davvero è il piccolo angolo che offre l'Arcade. Quando Motoki torna, le mette il milkshake davanti. Usagi non ha esattamente fame, ha ancora un po' di quell'aroma di vaniglia in bocca, anche se le andrebbe proprio di provare a cancellarlo con il cioccolato; in realtà, non ci spera. Comincia ad abituarcisi. Dietro di lei, tre ragazzini entrano urlando qualcosa sul gioco di Sailor V, e Motoki la fissa aspettando la sua reazione.

«Oh, scusa, sono ancora addormentata,» si giustifica lei arrossendo.

«Ovviamente,» dice una terza voce, Motoki ride, e lei si sistema sulla sedia, gli occhi che si stringono appena Mamoru prende posto accanto a lei. Si stiracchia, le lunghe gambe colpiscono in pieno la borsa per terra. Poggia i libri sul bancone. Sono sistemati in una pila ordinata uno sopra l'altro, nessuno spigolo fuori posto, e tutto quello che Usagi riesce a fare è scuotere la testa.

«Ovviamente.» Mamoru ride divertito e Motoki sparisce da qualche parte a prendere il suo caffè. Nero, pensa lei. Lui prende sempre il caffè nero. Il giovedì, quando le lezioni sono appena finite,
mette anche lo zucchero, ma pochissimo. Mamoru non ama nulla che sia troppo dolce, e non ha bisogno di sapere che lei lo sa; in realtà, invece, lei sta imparando ad affrontare tutta la gamma dei suoi umori in base a quello che beve, e non dal peso delle sue battute. Quelle variano indipendentemente.

«Un po' presto per un milkshake,» commenta.

«Devo chiederti il permesso per ordinarlo la prossima volta?» gli tira lei di rimando, la voce leggermente tagliente. «Io non ti rimprovero perché bevi troppo caffè.»

«Due tazze,» dice lui.

«Tre.» Lui la fissa, sorpreso. Usagi si morde l'interno della guancia, mentre le sale il sapore della notte prima. Vaniglia, di nuovo. Cerca di nascondere l'arrossamento delle guance. «Almeno,» aggiunge, «ultimamente ne bevi tre.» Poi emette un verso strano, chiedendosi perché non riesca a dire bugie nemmeno sulle cose più semplici e piccole. Le dita si avvinghiano alla cannuccia, e comincia a spingere la panna montata dentro il bicchiere, come se stesse martellando un chiodo. «In ogni caso,» cambia discorso. «Non ti giudico, perciò...!»

«Buono a sapersi.»

Lei coglie solo la coda del suo sorriso, strano così come se l'immaginava, facilmente distratta da Motoki che torna a parlare di qualche party da qualche parte, con tante amiche femmine. Usagi non dice più niente, ruota la testa e poggia lo sguardo su quel gruppetto di bambini che prima avevano starnazzato a voce così alta del gioco di Sailor V. Sospira. Oggi è solo stanca.

La spalla comincia a farle male nel momento in cui decide di andare via. La borsa comincia a farle soffrire le pene dell'inferno, il dolore che scava fino all'osso, dalla scapola, e fino al collo.

«Usa-chan?» Motoki la prende per un braccio, guardandola preoccupato. Lei tende un sorriso nervoso, di un secondo. «Hai bisogno di aiuto?» chiede poi.

«No, no,» risponde lei. Riesce ad agitare la mano e a cavarsela sgattaiolando via con un a presto o qualcosa del genere biascicato. Le dita mantengono la borsa staccata dalla spalla, per miracolo ha qualche momento di sollievo, mentre si avvia sul marciapiede. Potrebbe tornare da Rei, pensa. Sa che i suoi genitori non si arrabbierebbero. Da qualche parte, ricorda qualcosa, di Shingo che blatera di una partita di softball e di una cena con gli amici.

«Dammi qua.» La mano di lui è sulla sua, e poi sul manico della borsa prima che Usagi si accorga che è Mamoru che se ne sta lì fermo, accanto a lei, guardandola con un misto di preoccupazione e sì, di qualcos'altro, qualcosa che non riesce nemmeno lei a piazzare da qualche parte. Si sente le guance calde, e si ritira quasi per lasciargli prendere la borsa, incapace di portare al suo cervello qualsiasi argomentazione che non sia la parola che esce dalle sue labbra subito dopo.

«Grazie.»

«Dove stavi andando?» chiede lui.

«Io - » dovrebbe rispondere che sta andando a casa di Rei, pensa. Dovrebbe. Ma la bocca le si apre, e si chiude, quasi senza volontà. «Non voglio andare a casa.»

Lui la guarda un po' di traverso. Usagi non riesce a guardarlo davvero, e non capisce il tenue, turbante sentimento di panico e speranza che le si allaccia alla gola. Sono una coppia strana, e non ha mai avuto davvero il tempo di pensare a Mamoru oltre alle litigate che fanno di continuo, su ogni argomento; m
a sente all'improvviso le lacrime che s'affrettano una dopo l'altra, gli occhi che bruciano, mentre si forza a prendere un respiro profondo e poi un altro e un altro. Senza accorgersene, si sta mordendo il labbro e dentro il sangue che ne esce sta sentendo ancora il sapore della vaniglia e della menta. La lingua lo lecca via, e forse, forse...

Forse finalmente tutto le sta cadendo addosso, forse tutto la sta schiacciando. La mano di Mamoru sfiora la sua.

«Andiamo,» le dice.

La memoria di solito è ingannevole, i ricordi troppo semplici; una volta ogni tanto litigano, e poi lei pensa con un po' di imbarazzo a quanto vigore ha messo nelle braccia quando ha lanciato via il suo compito da 30, e come quel test ha segnato tutto. È stupido, sciocco, infantile, e c'è una parte di lei che sa che dovrà smettere di aggrapparsi a quella costante sensazione che qualcosa è cominciato, qualcosa che sembra troppo normale. Non è una questione di non voler crescere.

Ci sono altri ricordi, ovviamente, ricordi di quanto facile fosse per le sue amiche beccarla a fissarlo, a chiedersi cose su di lui, a sapere ogni piccolo particolare senza realizzarlo davvero. Ogni tanto si trova anche da sola a sorridergli senza un motivo. A volte lui dice qualcosa quando ci sono anche le altre, e allora Usagi deve addirittura nascondere quanto la lasci... senza fiato. È un battito. Un'eccitazione. Un semplice trambusto. Un'inquietudine. E poi alcune volte è molto più serio, serio in una maniera di cui non è sicura davvero che dovrebbe essere, ed è destabilizzante che non ne sia nemmeno sorpresa perché neppure se ne accorge e – Lui le fa tutto questo.

Accade un po' troppo spesso, comunque, quando pensa a Mamoru.

Usagi lascia appena che la sua mente registri l'accaduto: è nel suo appartamento. Non se ne accorge appieno finché non si siede sul suo divano, le gambe incrociate sotto di lei mentre prende il bicchier d'acqua che lui le offre, prima di accomodarsi accanto a lei. «Allora, che è successo?» chiede lui gentilmente, mentre lei prova a memorizzare ogni particolare che la circonda. I muri blu chiarissimo, le foto che li adornano, un quadro di qualche artista sconosciuto e le pulite, pulitissime statuette soprammobili sul cassettone, ordinate così perfettamente che davvero... Sono uguali a lui. Ci sono libri dappertutto, e dischi, e Usagi si sente sommersa da tutta quella roba, come se Mamoru si fosse esposto davanti a lei in un modo nuovo, diverso.

Ma le dita si serrano sul bicchiere fino a diventare bianche. «Non posso dirtelo,» sussurra.

«Usagi.»

Lei vorrebbe ridere. È la prima volta che è così onesta con qualcuno. Sente il peso di tutta quell'onestà nella voce, nel modo in cui le parole sembrano indugiare dentro la bocca, ne percepisce il sapore di vaniglia e di un pizzico di menta. Si sente troppo vecchia, e senza aver fatto niente per crescere: è questa la parte più spaventosa per lei, che è sempre voluta essere solo una bambina.

«Qualcuno ti ha fatto del male?» chiede lui, e il suo sguardo si solleva. La bocca si inclina in un corruccio, mentre la studia. «So che sei sbadata,» la sfotte con un sorriso, ma poi lo lascia sparire. «Ma con me puoi parlare. A volte è meglio parlare con qualcuno che non ti sia troppo vicino, per sfogarsi appieno.»

Lei scuote la testa. «Nessuno mi ha fatto del male,» dice, e la voce si rompe. «Vorrei potertelo dire, vorrei poterlo dire!» Dice poi, e all'improvviso sta parlando senza filtri, non sta davvero pensando a quello che dice, lo lascia solo uscire, il vomito della vaniglia ancora accennato dentro la gola. «Vorrei che fosse facile, così come la fai tu, vorrei che qualcuno mi dicesse solo puoi parlarne con me e che io potessi, sì, che potessi davvero, ma non è facile... E tu non sei solo qualcuno, Mamoru-kun. Tu sei tu, e io sono io e io... sono stanca.»

Passa un attimo, e finché lei non si mette le mani sulla faccia lui non si accorge che sta piangendo, in silenzio. Allora la mano di lui si avvolge prima nei suoi capelli, e poi percorre la linea della mascella, e delle labbra, e le attorciglia le dita sul mento per farla voltare, e la bocca di lei si schiude leggermente quando i loro occhi si incontrano. Mamoru si scuote brevemente, e lei si asciuga le guance umide. Beve, e beve, vuole lavare via quel sapore, quello schifoso sapore che non è suo e non sa da dove venga, perché la perseguiti.

«Non voglio proprio piangere di fronte a te.» mugugna voltandosi di nuovo. La bocca di lui si incurva.

«Non lo diremo a nessuno.» dice, e poi la tira su da quella posizione accovacciata, prendendole il bicchiere dalle mani. Lo mette sul tavolo, da qualche parte dietro di loro, e poi Usagi lo sente attirarla a sé, premerla sul suo petto. Chiude gli occhi stretti, e all'improvviso le mani di Mamoru sono intrecciate ai suoi capelli, e tutto si ferma. Nessuno dei due si muove. Sembrano solo aspettare, aspettare, e aspettare ancora, finché il suo pollice comincia a disegnarle cerchi sulla testa.

Non c'è assolutamente niente di rassicurante, in quel momento. Usagi esplode. Prima un singhiozzo, poi un singulto, e poi un pianto disperato, che capitombola fuori dalla sua bocca, perché non riesce a lavarlo nemmeno con l'acqua quel sapore, mentre ricorda lo youma della notte prima, e la devozione di Tuxedo Mask ad una causa che lei dovrebbe semplicemente accettare. Vuole essere disperatamente arrabbiata con lui, perché sembra sempre non rispondere a nessuna delle sue domande, e lei riesce a malapena a tenere i pezzi insieme, figurarsi come potrebbe reagire in qualsiasi altro modo che non sia una depressa confusione. È triste perché alla fine del giorno lei e le ragazze sono davvero solo ragazze e in qualche modo tutto questo se la sta portando via, la loro giovinezza.

«Non mi piace vederti triste sul serio,» mormora lui. La sua bocca accarezza per un attimo i suoi capelli, e Usagi apre gli occhi lentamente. «Ti ho vista camminare verso l'Arcade, e si vedeva di già. Lo so che sono l'ultima persona che vorresti accanto per aggiustare le cose, ma non mi piace vederti triste sul serio.»

«Mamoru,» respira lei, piano, e poi si ferma quando alza la testa. Incontra i suoi occhi blu come l'oceano, e incredibilmente lui è serio, serissimo. Troppo serio. Non sa cosa fare, davvero, quando si comporta così. Non è per niente brava con questa roba. «Io non- » Ma lui si china e la bacia.

Succede e basta, più o meno; la mente di Usagi rivede lo stronzo che la fissa dall'alto della postura che somiglia da morire a quella di sua madre, ricorda tutte le prese in giro, e poi ricorda altro. Il suo sapore di cannella e di menta e di vaniglia, ricorda il modo in cui la sua mano si incastra alla base del collo, il modo in cui le apre le labbra sulle sue, e sospira e basta sulla sua bocca. Sente le sue mani sollevarsi e aggrapparsi alla sua maglietta, e la posizione diventa improvvisamente scomoda e strana, e il ginocchio di lui le preme sulla gamba, e da' fastidio. E non importa.

Poi, lei emette un suono soffice. Il sapore comincia a piacerle all'improvviso. Le entra nel naso e nella bocca, c'è la cannella e la vaniglia, e una punta di menta. La sua bocca si apre di più, per assaggiarne ancora, la lingua preme piano sul suo labbro inferiore, mentre lui fa una specie di... fusa. Lui è avido, e lei è dipendente da quella cosa, e c'è qualcos'altro dentro a quel bacio che è troppo eccitante, e troppo disperato, e completamente diverso da qualsiasi fantasia che Usagi avesse mai provato a produrre. Si dipana piano nella sua testa, nei suoi pensieri, e da qualche parte la sensazione di essere bloccata fra se stessa e qualcun altro comincia ad emergere. Si sente come se fosse già stata lì, in quel posto, come se avesse sempre e solo aspettato quel momento.

Ed è quello che la fa rinsavire, e che le fa spingere via Mamoru per sollevarsi sulle ginocchia; ma il suo braccio le si avviluppa sulla vita e la costringe a ricadere sulle sue gambe. Senza accorgersene, si trova a cavalcioni su di lui, la gonna che fluttua sopra le loro gambe, e le sue mani affondano nei suoi capelli. Lo bacia più appassionatamente, i denti infilati nelle labbra, facendolo sospirare sulla sua bocca. Squisito. Vorrebbe mangiarselo e lo fa, lo fa, lo morde, lo succhia piano. L'ho già fatto, pensa. L'ha fatto. E c'è una certa reverenza in quel pensiero, una sorta di rassegnazione, e allora lui pronuncia il suo nome sopra la sua bocca. «Usagi.»

Sì, Usagi. Non è proprio sicura di essere lei. Le dita di lui accarezzano il locket che porta al collo. E a quel punto, il comunicatore comincia a suonare.

Si fissano l'un l'altra. Usagi non sa per quanto tempo ha lasciato che il comunicatore andasse prima che la voce di Makoto rompesse il silenzio, pregna di panico e senza respiro, finché non si ritrova con la spilla fra le mani e scatta indietro, le ginocchia che le fanno male, e le labbra screpolate e umide. Il locket che porta appeso al collo si rivela per ciò che è; dondola e colpisce il centro della sua blusa, aperto e ciondolante fra loro due. Gli occhi di Mamoru sono scuri. Si alza lentamente.

«Usagi!»

Le sue dita si avvolgono sul locket che ha al collo. Non riesce a staccare lo sguardo da Mamoru. E lui sembra aspettare. Lo stomaco di lei comincia ad annodarsi, si restringe lentamente mentre quella familiare, orribile sensazione di sapere comincia a prendersela. È lì, è ancora lì e se la prende. «Dovresti saperlo,» dice lui piano, e lei si sente annuire. Gli occhi non le bruciano. Non piange. Non chiede. Da qualche parte fra la parola parco e Rei che afferra il comunicatore per gridare arrabbiata, Mamoru si avvicina a lei. Usagi si scrolla via le sue mani dalle spalle, ignorando il dolore sordo che si sta prendendo piano tutto il suo corpo.

Ed è allora che la colpiscono, tutte le piccole cose, tutti i milioni di piccole cose che ha visto, e che ha notato di lui, e che s'è detta essere completamente impazzita per aver anche solo pensato che quelle somiglianze non fossero solo coincidenze. Ma non è più solo lei, ci sono anche le ragazze, e i commenti che hanno fatto su Tuxedo, e come tutto converga su Mamoru. Non dice le parole giuste. Non dice niente. Non dice il suo nome. Riesce a restare ferma, e alta, e calma, anche se comincia a sciogliersi dentro, pezzo per pezzo. Può ancora sentire il suo sapore in bocca, e le sue labbra sono ancora molto calde, e al posto di sentirti completamente terrorizzata, si ritrova ad essere rassegnata in un modo in cui non lo è mai stata prima. E lui lo sa.

«Tu lo sai,» lo accusa. La bocca di lui si incurva.

«Anche tu sapevi,» dice. «Aspettavo che lo capissi.»

Lei trasalisce. «Allora questo era solo - » le dita si chiudono sul locket. «Stavi solo cercando di... Non so nemmeno cosa dire.»

«Niente,» le risponde lui. Niente.

Non importa chi si trasforma prima. C'è un mazzo di rose davanti alla porta.

Il parco è buio. C'è un leggero strato di nebbia, e Usagi è indecisa fra il pensiero di gridare Ami e il silenzio nel repentino cambio del tempo. Il cuore accelera fino all'indefinito, mentre corre, e combatte, e alla fine cade, ginocchia nel terreno, nel bel mezzo di un combattimento testa a testa fra Rei e lo youma. L'uniforme di Rei è lacerata completamente sul fronte, e lei trema, mugolando qualcosa di Makoto e dell'altro lato.

«Non attaccano mai su due fronti!» grida disperata, e tutto quello che Usagi riesce a fare è vedere con la coda dell'occhio l'ultimo attacco, e spingere via l'altra ragazza con forza, lontano. Atterrano tutte e due nell'erba, e le ginocchia si screpolano completamente, nella terra, nella sporcizia, nella polvere. C'è il leggero rumore di un taglio, nell'aria, e allora lo youma ulula di dolore. Usagi guarda in alto abbastanza velocemente da vedere la rosa.

«Non me!!!» ringhia allora. Non riesce a pensarci. Non vuole nemmeno pensarci. Sta sbraitando. «Vai da Makoto! Aiuta lei! Non me!» sta gridando con tutta la forza che ha, e ignora lo sguardo di Rei mentre l'aiuta a rimettersi in piedi.

Posso farcela, pensa. Posso. Vogliono un leader. Devo darglielo. Continua a gridare. La bocca quasi le prende fuoco.

Non le viene nemmeno in mente che lui possa averla ascoltata finché Makoto non arriva sfrecciando, con un attacco potente, afferrandola per la vita e scostandola dalla traiettoria delle due dita di Rei, che spara una delle sue sfere infuocate. Sanguinano tutte e due, e la sua amica le sorride leggermente di gratitudine; Usagi rotola via dalla sua stretta, per finire di nuovo. Si muovono tutte insieme -lei, Makoto, Rei, Ami- e al punto in cui le cose stanno si muovono soprattutto con l'istinto. A un certo punto parleranno anche di leaders, e tutto il resto, ma adesso, adesso Usagi non può pensare che a fare del suo meglio.

Vede il cristallo prima di chiunque altro. Quando tutto è cominciato, non era altro che un piccolo bagliore, sotto un milione di livelli di cattiveria, il bagliore della persona che il Dark Kingdom ha seppellito in fondo allo youma. È proprio lì che deve andare. Ami grida di attaccare ancora, di ricominciare.
Non sa come sappia di sapere, o come le venga in mente quel piano, ma Usagi si tira leggermente indietro, e sa che Tuxedo Mask è lì, e aspetta. E adesso c'è un'altra e nuova battaglia da combattere. Allora deve pensare in fretta. «Mars,» dice piano.

Sono ancora vicine abbastanza perché solo Rei possa sentirla, mentre Makoto si occupa di attaccare ed Ami procura loro del tempo con un po' della sua nebbia. Rei la guarda, sa che Usagi non può intervenire finché non c'è una vera apertura, una spaccatura seria, o non serviranno a nulla i suoi attacchi. La fissa. «Ho bisogno di te.» dice Usagi, e fissa il cristallo. Se ne sta lì, davanti a loro, attaccato al cuore dell'umano, o dello youma, qualunque cosa sia. Le braccia sono troppo lunghe per un umano, e i denti troppo pronunciati, e Usagi potrebbe giurarlo, giurare che è perché il Dark Kingdom quei mostri li tira fuori dai suoi stessi incubi. «Ho bisogno che mi procuri un po' di tempo» dice.

«Usa- »

Lei scuote subito la testa. «No. C'è un cristallo.» Gli occhi di Rei brillano di comprensione, la bocca si mette in assetto. L'assetto della determinazione. Entrambe attingono dall'energia dell'altra; Rei le da' un buffetto sul braccio. «Stai diventando davvero forte,» dice.

Ci vuole tutta la forza del mondo per non scoppiare a piangere. Parole del genere sembrano sempre diverse dette da Rei; e invece in quel caso sembrano senza forma, vuote. Perché Usagi non si sente forte. Il breve, ruvido tocco della sua bocca, e l'immagine di quanto stupido sia stato quel bacio, di quanto abbia rischiato di distruggere tutto in un attimo e soprattutto il suo sapore... La colpisce. Non importa come, ma lui sapeva. E lei non voleva sapere, invece. Non è forte, è debole. E quelle parole di Rei non dovrebbero farle così male, invece Usagi forza un sorriso e si tira indietro, per seguire il piano.

Il pensiero e le parole sono forti abbastanza da ricordarle che sì, è ancora lì.

Il trambusto le permette di arrivare per prima al cristallo, e il suono e il dolore della ghiaia contro la pelle e contro le ginocchia le ricordano velocemente che è ancora molto, molto viva, e molto, molto umana. Non si guarda indietro per vedere lo youma cadere, o per vedere come la tiara trova la sua mano tesa, tornando indietro.

Ma lui è lì, oh sì che è lì, e appena il suo braccio le prende la vita e la strattona su non senza una familiare incertezza su un edificio vicino, non ha bisogno nemmeno di guardare per sapere che è lui. Il grido di Rei è quello più forte, appena succede, e Usagi non può fare altro che serrare le dita sul cristallo più forte che può. Quando lui la mette giù, lei rotola sulle ginocchia che non la reggono, e malamente caracolla all'indietro, strisciando e trascinandosi sui gomiti, portandosi la piccola pietra al petto, e guardandolo con tutta la cattiveria che riesce a raccogliere.

Non è la prima volta che ha pensato a Tuxedo Mask e a Mamoru vicini – e quei pensieri sono sempre stati talmente piccoli da essere appunto solo pensieri, troppo sciocchi e pigri per diventare vere preoccupazioni. Non l'ha mai detto nemmeno alle ragazze o a Luna e forse, forse è sempre stato istinto di protezione dopotutto.

Si rigira, per mettersi seduta meglio, senza che le ginocchia le facciano male, e lui è troppo alto in quel momento, troppo grande. Si toglie la maschera, e gli occhi sono scuri, proprio com'erano nel suo appartamento poco prima, e Usagi non può che fare una smorfia contrariata ricordandone il gusto. Un gusto che non le appartiene.

«E così era questo il tuo piano?» si sente chiedergli.

«No.» risponde lui. Il cristallo nelle sue mani comincia a brillare. Lei apre il pugno per guardarlo. Lo sguardo stupito, quasi vorrebbe tenderglielo, regalarglielo, completamente sprezzante delle raccomandazioni e di tutto quello che li ha spinti in quel posto, in quel momento.

«Non ti chiederò nulla,» mormora. «Non voglio sapere come lo sapevi, o per quanto tempo l'hai saputo. Tu hai la tua missione, e io ho le mie amiche e la mia famiglia da proteggere.»

«Ti capisco,» dice lui, piatto.

Lei fa una risatina. «Davvero?» si spinge verso l'alto per alzarsi, e ogni osso nel suo corpo grida di dolore; srotola le gambe e le braccia, e lo sguardo verso di lui, mentre lo guarda. «Perché tu credi che io ti darò il cristallo, e tutto andrà a posto no? Ora che so che sei Mamoru, e che tu sai chi sono io.» Solleva il cristallo e glielo mostra. «Questo,» dice, «Anche questo serve a proteggere la mia famiglia e i miei amici.»

«Non siamo diversi, e lo sai,» mormora lui.

Il cuore le sale improvvisamente in gola, e guarda da un'altra parte, toccandosi la bocca per un attimo. Accade lentamente, il ricordo di quel bacio la trascina come in una vita passata. Sente il profumo delle sue rose, rivede il suo sogno, e lo odia tremendamente. Si sente sola, e triste, e vuole andare da qualche parte, qualsiasi posto che sembri almeno per un secondo qualcosa di simile a una casa. Ma niente la fa sentire a casa, ormai. «Non voglio combattere contro di te, Usagi,» aggiunge lui. Lei lo ascolta, lo guarda fare un passo avanti, poi un'altro; si ferma di fronte a lei, troppo vicino, le dita le si avvolgono sulla vita. «Non vorrei mai, mai dover combattere contro di te, Usagi. Ma è qualcosa che devo fare e basta.»

«Vorrei avere la tua stessa passione nel credere in qualcosa, lo sai?» dice lei. «Vorrei credere nella mia causa così come fai tu nella tua.»

Lui lascia andare una breve e piccola risata. Il suono è duro, ruvido, e gli somiglia. Lei sente le sue dita intrecciarsi alle sue, e una per una, arrivano al cristallo. È un tocco gentile, forse troppo gentile, e il cristallo comincia a scivolarle via dalla mano. Non saprà mai come è davvero -è caldo, freddo, oppure duro, o morbido?- perché l'ha sempre toccato solo con i guanti.

«Credimi, non vuoi essere come me,» mormora lui, e il cristallo gli cade nel palmo. Lei lo
guarda, studiandolo. Sembra così triste, quando lo dice. Come se fosse rassegnato. Sembra sempre rassegnato. Sa che Luna si arrabbierà. Lo farà di sicuro. Sa che le ragazze invece saranno soddisfatte abbastanza se dirà loro di aver lasciato cadere il cristallo. Rei potrebbe essere forse lo scoglio più duro. Lo sa bene. Rei è sempre la più dura, nonostante tutte le prese in giro, perché a lei Usagi non riesce a nascondere quasi niente. Ma non capirà, non capirà che sta tutto nel modo in cui fa un passo indietro, e si tocca la bocca con i guanti, come ha fatto lei prima, e si forza a ignorare il sorriso doloroso che si è formato sulla sua bocca mentre i loro occhi si incontrano. Sta tutto nel sapore che le inonda la bocca.

Il cristallo smette di brillare, ma Usagi lo ignora. «Adesso hai quello che vuoi,» dice.

«Non ho mai voluto essere una principessa.» Dice Ami. Se ne stanno sedute nel tavolo sul fondo, Makoto accanto a lei e Rei vicina ad Usagi. Usagi continua a cercare di rincorrere i suoi pensieri che vanno e vengono e quando le ragazze ridono offre solo un sorriso timoroso.

«Nemmeno io,» ammette, e tutte si girano a guardarla sorprese. Un breve rossore le sale sulle guance, e non riesce ad alzare lo sguardo per guardarle, ignorando anche Luna che le morde le caviglie sotto il tavolo. È la preoccupazione di Rei che la forza a sollevare lo sguardo sul bancone, dove Motoki e Mamoru stanno seduti, a conversare a bassa voce. Lui ha già parlato con Rei, e lei non s'è persa nemmeno uno degli sguardi che Mamoru continua a lanciare verso il loro tavolo. È triste, pensa lei. È triste, e arrabbiata in un modo che sembra più grande di lei. Da qualche parte, dentro di sé, è disposta a lasciare andare tutto solo per crescere, ma sembra anche che tutta quella crescita sia prematura, dovuta a un altro posto e a un altro momento. Il mantra è sempre lo stesso, nella sua testa: ha perso il cristallo. Ma non sa cosa fare comunque.

«Io non so cosa volessi essere,» aggiunge. «Mia madre non si ricorda. Gliel'ho chiesto l'altro giorno, e mi ha solo detto che... Non volevo essere una principessa.»

Rei le dà un buffetto su uno dei codini. «Completamente fuori dagli schemi, eh?»

Makoto ride. «Davvero! Penso che avrei scommesso che, se una di noi avesse avuto il desiderio di essere principessa saresti stata tu, Usachan! E con tutto il cuore! Sei la più romantica e passionale di noi.»

Usagi sorride. A volte vorrebbe che fosse vero. «Penso che volessi solo essere felice,» dice a bassa voce, e dall'altra parte del tavolo Ami annuisce, in accordo. «Strano, no? È l'unica cosa che ricordo. Volevo essere felice, e che le persone intorno a me fossero felici a loro volta.»

Rei è la prima a sorridere.

Le ragazze se ne sono andate quando finalmente lui viene a sedersi con lei -accanto, non di fronte- e ci vuole tutta l'attenzione in corpo ad Usagi per ignorare il ghigno di Motoki. «Che gli hai detto?» chiede. Luna anche è andata via, con Ami per discutere alcune cose a cui Usagi non ha prestato attenzione. Tutto quello che sa ora che Mamoru è seduto accanto a lei è che lui è troppo vicino e che il suo gomito le sfiora il fianco.

«È importante?» chiede lui di rimando. Lei combatte per guardarlo. I suoi occhi sono soffici, anche fin troppo luminosi e quando si sporge in avanti, le sue dita le accarezzano la guancia. Per un attimo, si chiede cosa pensino tutti quelli intorno a loro.

«No,» risponde, «Immagino di no.» Non c'è niente da dire, comunque, niente di quello che pensa cambierebbe qualcosa, metterebbe le cose a posto come dovrebbero essere. Il suo sguardo non abbandona mai la sua figura, e lei si sente scivolare fra le sue mani, fra le sue braccia, le dita che le accarezzano di nuovo la guancia e poi di nuovo la mascella.

«Non puoi baciarmi di nuovo,» lo ammonisce, e lui ride, la bocca che si incurva. Il suo pollice le accarezza le labbra, e lei si chiede cosa significhi, se sia una dichiarazione o che cavolo d'altro, se sia una scusa per la notte prima, se significhi che tutto è cambiato adesso. «Dico davvero.» aggiunge.

«Non me lo sogno nemmeno,» dice lui. E ride di nuovo.

Usagi si lecca le labbra con la lingua. Velocemente, il tocco del suo pollice diventa elettrico, e lei si lascia scappare un breve sospiro. E quello è il momento in cui decide che odia la principessa. O meglio, la Princess. La odia abbastanza per tutti e due, per far sembrare tutto quello un'impossibile piega nel tempo che nessuno dei due può controllare. Sarà grata per sempre, per avere accanto le ragazze e la loro presenza nella sua vita, per averla formata, per averle fatto desiderare di essere la migliore delle persone che potesse e volesse essere. Ma adesso, è diverso. Con Mamoru è sempre stato tutto diverso. È un altro tipo di peso da sopportare.

«Mi rattristi,» dice. Con la punta delle labbra bacia la punta delle sue dita, e lui lascia cadere la mano. «Ci sono un sacco di cose che vorrei dirti, ma riesco solo a pensare a quanto triste tu riesca a rendermi. E non voglio essere triste, Mamoru-san.»

Il modo in cui la guarda a quel punto è troppo scombussolante; scioglie tutti i nodi nel centro del suo stomaco. Le sue mani restano sul tavolo, morte. «Non-» lui sorride allora, scuotendo la testa. Lei resta più ferma che può. «Tutti dobbiamo fare cose che non ci piacciono o che non vogliamo fare,» dice con calma. «Non sto cercando di approfittarmi di te, né di farti male. È solo che...»

Lei lo interrompe. «Con te sono più al sicuro? Non ti fidi di me? Devi trovare la princess prima?» vomita tutte le domande insieme al sapore della vaniglia che ha cercato di cancellare con il milkshake al cioccolato. Ma è impossibile, dovrebbe ormai averlo imparato. La mascella le si serra. «Tutte queste stronzate le ho già sentite. E lo sai, che non è una gara. Anche noi vogliamo trovarla. E quando la troveremo, sarà più facile per tutti fare... fare... Non so nemmeno cosa. Non lo so proprio, che cosa.»

«Mi fido di te.» Lei scuote la testa, e lui si ritira, piano, in fondo alla panca. Le sue mani sono ancora sul tavolo. «Molto più di quanto pensi,» dice. In quel momento, Mamoru si alza e la folla dentro l'Arcade entra nella fotografia. Usagi ricomincia a sentire le risate. Le ragazze le mancano, e anche la sicurezza che il gruppo le offre. Perfino Motoki, impegnato al bancone, che aiuta i clienti e serve il cibo le manca. Non finisce tutto con lei, pensa allora. Finisce tutto con la princess, di nuovo con lei. Guarda in su quando Mamoru chiama Motoki, salutandolo con la mano. Ma si ferma ancora un attimo. Quando si volta prima di andare via, e la guarda, le mani si infilano dentro alle tasche della giacca. Il suo sorriso è flebile, sparisce, e poi scuote la testa. La fissa.

«È stato quando hai riso,» dice. Lei congela. «È stato quando ti ho vista ridere che ho capito, e qualcosa dentro di me ha unito i pezzi.»

I suoi occhi sono spalancati. La bocca si apre per dire qualcosa. Sente come un suono, non stanco ma soffice provenire dal fondo della gola e non uscire, insieme al sapore di menta, cannella, e vaniglia. Toglie le mani dal bordo del tavolo, e le lascia cadere sui fianchi. Abbassa lo sguardo. Usagi non riesce mai a guardarlo andare via.

...E questo, almeno, non è cambiato.

 
   
 
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