“The world was
sort of our oyster, and we had support, we supported each other.
And he was kind of like this beam of
light sort of above it all.
And to see him
hooked up to machines, uhm… that was the…
I think the death
of the innocence of the scene.
It wasn’t later,
when people surmised that…
that Kurt blowing
his head off was the end of the innocence. It didn’t.
It was that, it was walking into that room.”
— Chris Cornell
Say Hello 2 Heaven –
Temple Of The Dog
{The sky was your playground,
but the cold ground was your
bed}
11 marzo 1990: queste sono le parole
comparse sullo schermo, in basso a destra.
Gossard è lì, intento a parlare con un altro ragazzo, un suo
coetaneo che però dimostra più anni, un tipo che non perde l’occasione per
guardare nella telecamera e ammiccare vistosamente, quasi stesse registrando
una propria performance su Top Of The Pops.
Andrew Patrick Wood è lì, con il suo
cappello da folletto irlandese, la canotta dei Lakers e quella stupida
calzamaglia a pois che Chris non ha mai potuto sopportare: sorride, fa le sue
solite smorfie assurde, finge di schiacciare un pisolino con Bruce… è se
stesso.
Ma
è lì.
Chris invece sta finendo di trascorrere il
proprio schifosissimo 24 marzo 1990, e lo sta facendo nella maniera più giusta
– e allo stesso tempo sbagliata – che esista: lo fa in compagnia di Andy… o
meglio, dei ricordi che ha di lui.
Sono degli strani giorni, quelli che Chris
sta affrontando ultimamente: da una parte c’è la volontà di andare avanti e
continuare a dedicarsi ai progetti che ha – che
hanno – sempre avuto, mentre dall’altra c’è un’onda di rimpianti, dubbi,
rimorsi e dolore pronta a spazzarlo via… e in mezzo c’è lui, lui che non può
far altro che restare lì ad aspettare che queste due fazioni opposte si
scontrino, schiacciandolo senza alcuna pietà.
Ed è uno strano scherzo quello che il
destino ha tirato a loro, a quei ragazzi di Seattle e dintorni che vivrebbero
di musica ma che non possono farlo, costretti come sono ad indossare i panni
così scomodi e ridicoli di lavapiatti, camerieri, aiuto-cuoco, magazzinieri e
chi più ne ha e più ne metta, gente che si lancia frecciatine di continuo ma
che poi, nel momento del bisogno, non esita a farsi un culo così per quelli che
dovrebbero essere i propri rivali.
Chris riavvolge il nastro della
videocassetta e preme ‘play’ per l’ennesima volta, mentre sullo schermo Andy
riprende a darci dentro con boccacce e sorrisi vari, che sparge in giro quasi
fossero becchime per piccioni: l’avrebbe mai detto che soltanto tredici giorni
dopo sarebbe finito sottoterra?
L’uomo si abbandona sul letto e socchiude
gli occhi, mentre in sottofondo continua ad andare Open Letter To a Landlord,
accompagnata dal playback ostentato di Andy.
Chris si concentra sui giorni trascorsi
come coinquilini, quando tornavano a casa distrutti dai turni di lavoro,
buttavano merda sui rispettivi boss e poi si gettavano a capofitto nella
composizione, uno in una stanza e l’altro in quella adiacente: Chris faceva e
disfaceva, un passo avanti e due indietro, mentre Andy si lanciava sparato e
lasciava tutto com’era venuto fuori.
Anche da lì si poteva intuire il loro
differente approcciarsi alla vita: c’era chi la studiava con prudenza e chi
cercava di prenderla come gli capitava, forse premendo un po’ troppo sull’acceleratore.
Ma se Chris c’andava sempre con i piedi di
piombo, analizzando e riflettendo attentamente su ciò che la circondava,
com’era possibile che non si fosse accorto di quello che stava accadendo al
proprio migliore amico?
“Now our kids are living dead, they crack and blow their lives away…”
cantano ancora i Living Colour e, ironia della sorte,
Andy con loro; Chris si alza, spegne tutto e poi gironzola nella stanza,
camminando in tondo senza trovare pace. Si siede per terra, incrocia le gambe, poi
cambia idea, si raccoglie le ginocchia al petto e in mezzo vi nasconde il capo,
ed ora non riesce a far altro che pensare al Paramount tirato a lucido solo per
Andy, ai santoni, all’incenso del cazzo, a quel coglione di Starr
che gli voleva chiedere se voleva farsi una canna con lui e che invece lo aveva
scoperto piangere su un album di foto di Andy, a Layne che era entrato a casa
di Kelly come uno tsunami – così terribilmente simile ad un bambino, lui che
sul palco chiedeva ai dottori della clinica se poteva avere cinquanta sacchi
per comprarsi la roba e che ora piangeva come un agnello diretto verso il
mattatoio – ad Andy così piccolo e trasparente nel letto d’ospedale… Andy
immobile, Andy che voleva conquistare il mondo e che si era afflosciato sul pavimento
qualche giorno prima che i suoi progetti si avviassero, Andy quercia che era
diventato un ammasso di carne e tubicini, Andy faro che si era trasformato in
un encefalogramma piatto, Andy privato dei suoi capelli d’angelo, Andy perso in
un “beeeeeeeeep” lungo come l’eternità e poi nel
silenzio più nero.
Lui, quello che Andy era solito chiamare
‘Re Sole’, non è capace di spiegarsi perché cazzo qualcuno ai piani alti abbia
deciso di tagliare il suo filo.
Non
ora.
Non
ora che stava per sfondare.
Non
ora che potevamo iniziare a fare tournée insieme.
Non
ora che potevamo diventare famosi.
Non
ora che poteva metter su famiglia con Xana.
Non
ora che-
L’appartamento di Chris Cornell è vuoto. I singhiozzi del proprietario echeggiano
in tutte le stanze. È il 25 marzo 1990.
Quando qualche raggio di sole filtra tra
le tapparelle e va a colpire Chris in pieno volto, è ormai mattina. Il suo è
stato un sonno agitato, ma perlomeno ha sortito l’effetto di fargli recuperare
un po’ di forze.
La prima cosa che gli balza in mente è un
verso di Man Of Golden Words, quella che probabilmente è la canzone composta
da Andy che più preferisce:
“Where would I
live, if I were mr. Golden Words? And would I live at
all?”
È sempre stato uno dei maggiori crucci di Andy,
l’aver paura di non essere abbastanza per tutto e tutti, e Chris inizia a
rendersene conto solo ora: il padre, i fratelli, i compagni di band, Xana… ognuno di loro, almeno una volta, si era ritrovato ad
ammettere quanto fosse facile sopraffare Andy, quanto semplice potesse essere
mettere in un angolo lui, che venerava ed imitava gente del calibro di Mercury,
Bolan e David Lee Roth – note bestie da palcoscenico
– ma che in realtà davanti ai problemi si faceva piccino picciò.
Andy aveva passato ventiquattr’anni
cercando il proprio Eldorado, sforzandosi di migliorare se stesso e di trovare
un modo per essere un vero uomo dalle
parole d’oro, senza però rendersi conto che, forse, lui quel traguardo
l’aveva già raggiunto.
Era un vero peccato che nessuno fosse
stato lì con lui ad indicarglielo.
È il 25 marzo 1990. Chris Cornell siede ai piedi del proprio letto e rimugina sulle
parole dei Living Colour: puoi demolire un edificio, ma non puoi cancellare un ricordo.
Ed è vero, sta tutto nel saperci convivere,
tirare dritto lungo la propria strada senza lasciarsi risucchiare dalla
tentazione dolceamara che solo il passato può avere.
Chris sospira, toglie il tappo alla penna
e inizia a scarabocchiare qualcosa con la sua calligrafia secca e decisa: sul foglio
compaiono le parole ‘Say Hello To Heaven’,
ma il ‘to’ viene quasi subito sostituito da un ‘2’ che ricorda Prince e che
Andy non potrebbe che approvare.
Chris fissa il foglio e sorride: non sa
che sta per incominciare un’avventura che lo porterà molto lontano,
un’avventura che vivrà anche per Andy, il folletto che voleva fare del cielo il
proprio parco-giochi e che ora si sta riposando sotto la terra lieve.
Note autrice
So che la gente ormai
sarà stufa di leggere i miei sproloqui su Andy Wood, ma non posso tirarmi
indietro: dopo l’omaggio che ho dedicato a lui e a Vedder, non potevo
ignorare l’amicizia speciale che lo ha legato a Chris Cornell.
Chi ha guardato Pearl Jam Twenty
sarà già al corrente della maggior parte dei fatti narrati in questa storia:
Andy era appena uscito dal rehab e Chris gli aveva
chiesto di diventare suo coinquilino, dando così inizio ad un rapporto intenso
tra due persone che di simile alla fine avevano ben poco.
La storia è ambientata
tra il 24 e il 25 marzo 1990, ovvero nel giorno del (e nella mattinata
successiva al) memorial che l’intera città di Seattle
tenne per omaggiare Andy, morto il 19 marzo.
Mike Starr
(il bassista degli Alice In Chains: lo preciso perché
non se lo caga mai nessuno! è__é) ha effettivamente
fatto la cazzata di chiedere a Chris se volesse una canna – sgamandolo mentre
piangeva sulle foto di Andy – e Layne è effettivamente entrato in casa di Kelly
Curtis (manager dei Mother Love Bone e, in seguito,
dei Pearl Jam) piangendo come un bambino… Chris invece comporrà Say Hello 2 Heaven qualche
settimana dopo, mentre i Soundgarden saranno in
tournée in Europa: questa è l’unica licenza poetica che mi sono concessa –
oltre ovviamente all’aver immaginato il modo in cui Cornell
ha trascorso i giorni seguenti la morte di Andy – o almeno, così mi pare.
Say Hello
2 Heaven è, per chi non lo sapesse, un brano del supergruppo Temple Of The Dog:
questo progetto nacque per l’appunto con l’intento di omaggiare Andy, e come
formazione ebbe praticamente i Pearl Jam odierni (Matt Cameron però all’epoca
era solo il batterista dei Soundgarden, non la
sgualdrina che è oggi! :D) assieme a Chris.
Il video che Chris
guarda nella fanfiction è questo, mentre questa è la canzone dei Living Colour
che viene citata più volte e che effettivamente compare nel video di Andy,
Stone e Bruce. (non c’è bisogno che vi dica che Stone Gossard
e Bruce Fairweather erano i due chitarristi dei Mother Love Bone, vero? Ops,
troppo tardi!)
Questa invece è Man Of
Golden Words: non so scegliere la mia canzone
preferita dei Mother Love Bone – ne ho tre, o forse
anche di più, che si contendono questo premio – ma, sicuramente, questa rientra
tra le fortunate, essendo una delle più belle e toccanti che la band abbia mai
composto.
Mmmm, che altro dire? Ah, sì: la citazione iniziale è tratta dal sopracitato Pearl Jam Twenty:
è uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, sentire la voce di Chris che
s’incrina mentre parla di Andy… non commento ulteriormente, è da guardare e basta.
Oh, dimenticavo! Oltre a
Freddie Mercury, Marc Bolan
e David Lee Roth, Andy adorava anche il già citato Prince: nella sua
autobiografia, Duff McKagan
(ebbene sì, proprio lo storico bassista dei Guns n’ Roses!) racconta di come lui ed Andy avessero in comune una
passione sfrenata per quest’artista, di cui è nota l’abitudine di usare numeri
nei titoli delle proprie canzoni (che fa più tamarro, oh yeah).
Ecco, dovrei aver
finito: so che è melensa, sdolcinata e bla bla bla, ma non m’importa. A volte
anch’io devo abbandonarmi a questi momenti, non posso sempre fare la stronza di
turno :D
Spero che non sia
totalmente oltraggioso, e ringrazio anticipatamente chi si prenderà la briga di
leggere e, perché no?, magari di lasciare un commento :’)
Bacioni,
Dazed;