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Autore: DazedAndConfused    19/03/2014    3 recensioni
[Soundgarden]
[Mother Love Bone]
“Chris invece sta finendo di trascorrere il proprio schifosissimo 24 marzo 1990, e lo sta facendo nella maniera più giusta – e allo stesso tempo sbagliata – che esista: lo fa in compagnia di Andy… o meglio, dei ricordi che ha di lui.”
Song Challenge – Musicians ~ #2
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“The world was sort of our oyster, and we had support, we supported each other.

And he was kind of like this beam of light sort of above it all.

And to see him hooked up to machines, uhm… that was the…

I think the death of the innocence of the scene.

It wasn’t later, when people surmised that…

that Kurt blowing his head off was the end of the innocence. It didn’t.

It was that, it was walking into that room.”

 

— Chris Cornell



Say Hello 2 Heaven Temple Of The Dog

{The sky was your playground,

but the cold ground was your bed}

 

11 marzo 1990: queste sono le parole comparse sullo schermo, in basso a destra.

Gossard è lì, intento a parlare con un altro ragazzo, un suo coetaneo che però dimostra più anni, un tipo che non perde l’occasione per guardare nella telecamera e ammiccare vistosamente, quasi stesse registrando una propria performance su Top Of The Pops.

Andrew Patrick Wood è lì, con il suo cappello da folletto irlandese, la canotta dei Lakers e quella stupida calzamaglia a pois che Chris non ha mai potuto sopportare: sorride, fa le sue solite smorfie assurde, finge di schiacciare un pisolino con Bruce… è se stesso.

Ma è lì.

Chris invece sta finendo di trascorrere il proprio schifosissimo 24 marzo 1990, e lo sta facendo nella maniera più giusta – e allo stesso tempo sbagliata – che esista: lo fa in compagnia di Andy… o meglio, dei ricordi che ha di lui.

 

Sono degli strani giorni, quelli che Chris sta affrontando ultimamente: da una parte c’è la volontà di andare avanti e continuare a dedicarsi ai progetti che ha – che hanno – sempre avuto, mentre dall’altra c’è un’onda di rimpianti, dubbi, rimorsi e dolore pronta a spazzarlo via… e in mezzo c’è lui, lui che non può far altro che restare lì ad aspettare che queste due fazioni opposte si scontrino, schiacciandolo senza alcuna pietà.

Ed è uno strano scherzo quello che il destino ha tirato a loro, a quei ragazzi di Seattle e dintorni che vivrebbero di musica ma che non possono farlo, costretti come sono ad indossare i panni così scomodi e ridicoli di lavapiatti, camerieri, aiuto-cuoco, magazzinieri e chi più ne ha e più ne metta, gente che si lancia frecciatine di continuo ma che poi, nel momento del bisogno, non esita a farsi un culo così per quelli che dovrebbero essere i propri rivali.

Chris riavvolge il nastro della videocassetta e preme ‘play’ per l’ennesima volta, mentre sullo schermo Andy riprende a darci dentro con boccacce e sorrisi vari, che sparge in giro quasi fossero becchime per piccioni: l’avrebbe mai detto che soltanto tredici giorni dopo sarebbe finito sottoterra?

L’uomo si abbandona sul letto e socchiude gli occhi, mentre in sottofondo continua ad andare Open Letter To a Landlord, accompagnata dal playback ostentato di Andy.

Chris si concentra sui giorni trascorsi come coinquilini, quando tornavano a casa distrutti dai turni di lavoro, buttavano merda sui rispettivi boss e poi si gettavano a capofitto nella composizione, uno in una stanza e l’altro in quella adiacente: Chris faceva e disfaceva, un passo avanti e due indietro, mentre Andy si lanciava sparato e lasciava tutto com’era venuto fuori.

Anche da lì si poteva intuire il loro differente approcciarsi alla vita: c’era chi la studiava con prudenza e chi cercava di prenderla come gli capitava, forse premendo un po’ troppo sull’acceleratore.

Ma se Chris c’andava sempre con i piedi di piombo, analizzando e riflettendo attentamente su ciò che la circondava, com’era possibile che non si fosse accorto di quello che stava accadendo al proprio migliore amico?

 

Now our kids are living dead, they crack and blow their lives away” cantano ancora i Living Colour e, ironia della sorte, Andy con loro; Chris si alza, spegne tutto e poi gironzola nella stanza, camminando in tondo senza trovare pace. Si siede per terra, incrocia le gambe, poi cambia idea, si raccoglie le ginocchia al petto e in mezzo vi nasconde il capo, ed ora non riesce a far altro che pensare al Paramount tirato a lucido solo per Andy, ai santoni, all’incenso del cazzo, a quel coglione di Starr che gli voleva chiedere se voleva farsi una canna con lui e che invece lo aveva scoperto piangere su un album di foto di Andy, a Layne che era entrato a casa di Kelly come uno tsunami – così terribilmente simile ad un bambino, lui che sul palco chiedeva ai dottori della clinica se poteva avere cinquanta sacchi per comprarsi la roba e che ora piangeva come un agnello diretto verso il mattatoio – ad Andy così piccolo e trasparente nel letto d’ospedale… Andy immobile, Andy che voleva conquistare il mondo e che si era afflosciato sul pavimento qualche giorno prima che i suoi progetti si avviassero, Andy quercia che era diventato un ammasso di carne e tubicini, Andy faro che si era trasformato in un encefalogramma piatto, Andy privato dei suoi capelli d’angelo, Andy perso in un “beeeeeeeeep” lungo come l’eternità e poi nel silenzio più nero.

 

Lui, quello che Andy era solito chiamare ‘Re Sole’, non è capace di spiegarsi perché cazzo qualcuno ai piani alti abbia deciso di tagliare il suo filo.

Non ora.

Non ora che stava per sfondare.

Non ora che potevamo iniziare a fare tournée insieme. 

Non ora che potevamo diventare famosi.

Non ora che poteva metter su famiglia con Xana.

Non ora che-

L’appartamento di Chris Cornell è vuoto. I singhiozzi del proprietario echeggiano in tutte le stanze. È il 25 marzo 1990.

 

Quando qualche raggio di sole filtra tra le tapparelle e va a colpire Chris in pieno volto, è ormai mattina. Il suo è stato un sonno agitato, ma perlomeno ha sortito l’effetto di fargli recuperare un po’ di forze.

La prima cosa che gli balza in mente è un verso di Man Of Golden Words, quella che probabilmente è la canzone composta da Andy che più preferisce:

 

Where would I live, if I were mr. Golden Words? And would I live at all?

 

È sempre stato uno dei maggiori crucci di Andy, l’aver paura di non essere abbastanza per tutto e tutti, e Chris inizia a rendersene conto solo ora: il padre, i fratelli, i compagni di band, Xana… ognuno di loro, almeno una volta, si era ritrovato ad ammettere quanto fosse facile sopraffare Andy, quanto semplice potesse essere mettere in un angolo lui, che venerava ed imitava gente del calibro di Mercury, Bolan e David Lee Roth – note bestie da palcoscenico – ma che in realtà davanti ai problemi si faceva piccino picciò.

Andy aveva passato ventiquattr’anni cercando il proprio Eldorado, sforzandosi di migliorare se stesso e di trovare un modo per essere un vero uomo dalle parole d’oro, senza però rendersi conto che, forse, lui quel traguardo l’aveva già raggiunto.

Era un vero peccato che nessuno fosse stato lì con lui ad indicarglielo.

 

È il 25 marzo 1990. Chris Cornell siede ai piedi del proprio letto e rimugina sulle parole dei Living Colour: puoi demolire un edificio, ma non puoi cancellare un ricordo.

Ed è vero, sta tutto nel saperci convivere, tirare dritto lungo la propria strada senza lasciarsi risucchiare dalla tentazione dolceamara che solo il passato può avere.

Chris sospira, toglie il tappo alla penna e inizia a scarabocchiare qualcosa con la sua calligrafia secca e decisa: sul foglio compaiono le parole ‘Say Hello To Heaven’, ma il ‘to’ viene quasi subito sostituito da un ‘2’ che ricorda Prince e che Andy non potrebbe che approvare.

Chris fissa il foglio e sorride: non sa che sta per incominciare un’avventura che lo porterà molto lontano, un’avventura che vivrà anche per Andy, il folletto che voleva fare del cielo il proprio parco-giochi e che ora si sta riposando sotto la terra lieve.

 

 

 

Note autrice

So che la gente ormai sarà stufa di leggere i miei sproloqui su Andy Wood, ma non posso tirarmi indietro: dopo l’omaggio che ho dedicato a lui e a Vedder, non potevo ignorare l’amicizia speciale che lo ha legato a Chris Cornell.

Chi ha guardato Pearl Jam Twenty sarà già al corrente della maggior parte dei fatti narrati in questa storia: Andy era appena uscito dal rehab e Chris gli aveva chiesto di diventare suo coinquilino, dando così inizio ad un rapporto intenso tra due persone che di simile alla fine avevano ben poco.

La storia è ambientata tra il 24 e il 25 marzo 1990, ovvero nel giorno del (e nella mattinata successiva al) memorial che l’intera città di Seattle tenne per omaggiare Andy, morto il 19 marzo.

Mike Starr (il bassista degli Alice In Chains: lo preciso perché non se lo caga mai nessuno! è__é) ha effettivamente fatto la cazzata di chiedere a Chris se volesse una canna – sgamandolo mentre piangeva sulle foto di Andy – e Layne è effettivamente entrato in casa di Kelly Curtis (manager dei Mother Love Bone e, in seguito, dei Pearl Jam) piangendo come un bambino… Chris invece comporrà Say Hello 2 Heaven qualche settimana dopo, mentre i Soundgarden saranno in tournée in Europa: questa è l’unica licenza poetica che mi sono concessa – oltre ovviamente all’aver immaginato il modo in cui Cornell ha trascorso i giorni seguenti la morte di Andy – o almeno, così mi pare.

Say Hello 2 Heaven è, per chi non lo sapesse, un brano del supergruppo Temple Of The Dog: questo progetto nacque per l’appunto con l’intento di omaggiare Andy, e come formazione ebbe praticamente i Pearl Jam odierni (Matt Cameron però all’epoca era solo il batterista dei Soundgarden, non la sgualdrina che è oggi! :D) assieme a Chris.

Il video che Chris guarda nella fanfiction è questo, mentre questa è la canzone dei Living Colour che viene citata più volte e che effettivamente compare nel video di Andy, Stone e Bruce. (non c’è bisogno che vi dica che Stone Gossard e Bruce Fairweather erano i due chitarristi dei Mother Love Bone, vero? Ops, troppo tardi!)

Questa invece è Man Of Golden Words: non so scegliere la mia canzone preferita dei Mother Love Bone – ne ho tre, o forse anche di più, che si contendono questo premio – ma, sicuramente, questa rientra tra le fortunate, essendo una delle più belle e toccanti che la band abbia mai composto.

Mmmm, che altro dire? Ah, sì: la citazione iniziale è tratta dal sopracitato Pearl Jam Twenty: è uno dei miei pezzi preferiti in assoluto, sentire la voce di Chris che s’incrina mentre parla di Andy… non commento ulteriormente, è da guardare e basta.

Oh, dimenticavo! Oltre a Freddie Mercury, Marc Bolan e David Lee Roth, Andy adorava anche il già citato Prince: nella sua autobiografia, Duff McKagan (ebbene sì, proprio lo storico bassista dei Guns n’ Roses!) racconta di come lui ed Andy avessero in comune una passione sfrenata per quest’artista, di cui è nota l’abitudine di usare numeri nei titoli delle proprie canzoni (che fa più tamarro, oh yeah).

Ecco, dovrei aver finito: so che è melensa, sdolcinata e bla bla bla, ma non m’importa. A volte anch’io devo abbandonarmi a questi momenti, non posso sempre fare la stronza di turno :D

Spero che non sia totalmente oltraggioso, e ringrazio anticipatamente chi si prenderà la briga di leggere e, perché no?, magari di lasciare un commento :’)

Bacioni,

 

Dazed;

   
 
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