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Autore: kenjina    19/03/2014    3 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Rieccomi! Credevo di aggiornare dopo la laurea, e invece in una notte insonne sono riuscita a buttare giù questo capitolo – qualunque cosa esso sia.

Capitolo cortino, poca azione ma tanti dialoghi, vi avverto. Ma era un lavoraccio che andava fatto, soprattutto tra i miei nostri due eroi preferiti – B&B. ;)

Probabilmente questa è la volta buona in cui, al prossimo aggiornamento, sarò finalmente architetto – se tutto andrà bene, ovviamente.

Quindi sparisco e vi lascio al capitolo!
Prima però vorrei ringraziarvi ancora una volta per il vostro supporto e la vostra pazienza. Significa davvero tanto per me.

E chiedo scusa se ancora non ho risposto alle ultime recensioni, ma prometto che lo farò appena riuscirò a liberarmi la testa dal progetto per una decina di minuti.

È il minimo che posso fare per ringraziarvi a dovere. :)

Sappiate che vi abbraccio virtualmente forte forte, intanto. <3

Vi adoro,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

23.

 

30 Settembre 3019 T. E.

 

Trán fu lesta a terminare la colazione. Non aveva appetito neppure quella mattina, ma si sforzò di mandar giù più di qualche briciola di pane, notando quanto Thorin e Káel la stessero controllando affinché non s’indebolisse troppo. Persino Dwalin le aveva spinto sotto il naso una bella fetta di formaggio, con lo sguardo di uno che non avrebbe accettato facilmente un rifiuto. I Nani parlarono quietamente del lavoro che li attendeva anche quel giorno e lei si appuntò mentalmente di spedire una parola al Signore dei Rohirrim, per informarlo che era a sua completa disposizione e a quella delle armi dei suoi soldati.

Aiutò Balin a sparecchiare il tavolo ed accatastarono le stoviglie sporche dentro una tinozza d’acqua, sapendo per certo che qualcuno sarebbe passato a ripulire tutto. Trán li ringraziò profusamente per la colazione e per la loro ospitalità, giacché aveva scoperto che anche Káel e Trión avessero dormito in quegli stessi alloggi durante le notti precedenti. Dwalin fece per batterle un’impacciata manona sulla testa, ma si ritrasse subito, ricordandosi che quella un giorno sarebbe potuta diventare la sua Regina, e si limitò a borbottare qualcosa come “Sciocchezze”, prima di sparire alle officine con il fratello e i più giovani.

Rimasti soli, Thorin si avvicinò alla compagna, prendendole una mano tra le sue e baciandone il dorso. «Bada che potresti non trovare dama Brethil nella sua stanza.»

«Come no?» domandò Trán. «È ferita e debole, perché non dovrebbe stare a letto?»

«Perché è testarda ed insofferente. Ed è preoccupata per le persone che ama, proprio come te.»

La Nana sospirò. «Grazie per avermelo detto. Se avessi trovato la sua stanza vuota avrei pensato al peggio.»

Come sempre. «Vorresti che ti accompagnassi?»

«No, non preoccuparti. Sei richiesto alle forge.» Gli accarezzò il viso con la mano libera e sorrise quando lo vide chiudere gli occhi, tendendosi verso la morbidezza delle sue carezze. «Non impiegherò molto; voglio solo assicurarmi che stia bene... e voglio... voglio sentirlo con le sue parole.»

«E sia.» Thorin si chinò per baciarle le labbra. «Attenderò con pazienza di vederti nuovamente lavorare al mio fianco. Nonostante le officine siano piene, per me sono tremendamente vuote senza la tua presenza.»

«Oh, Thorin.» mormorò lei, abbracciandolo e lasciandosi scappare un singhiozzo. Temendo di aver detto qualcosa di inappropriato, il Nano si scostò il tanto che serviva per osservarla e sbarrò gli occhi quando vide i suoi lucidi di lacrime. «No, non preoccuparti.» lo zittì prima ancora che potesse parlare, affondando il viso contro il collo ispido del Re, stringendolo con forza. «Mi hai semplicemente commossa. Lo sai che sono... facile alle lacrime.»

«Finché sono di gioia, ben vengano.» Thorin trovò difficile lasciarla andare, quando l’unica cosa che avrebbe voluto fosse di riportarla in camera da letto e tenerla tra le braccia per il resto della giornata. Con un ultimo, leggero bacio, i due si salutarono momentaneamente e Trán, riempito un cesto di frutta fresca, si diresse alla volta di Brethil, impaziente di rivederla muoversi e di sentire la sua voce. Come Thorin le aveva annunciato, non udì risposta quando bussò alla porta della sua stanza, ma riconobbe il suono della sua risata, proveniente da un paio di porte poco lontane. Si avvicinò lentamente, tentando di riconoscere le numerose voci gioviali, tra cui quella di Legolas, dei due gemelli di Rivendell e persino quella del Re di Gondor.

Sospirando, si poggiò contro il muro in pietra, stringendo il cesto tra le braccia e osservando le volte a crociera del corridoio, indecisa se annunciare la sua presenza, se attendere qualche altro minuto oppure recarsi a lavoro, per non disturbare il loro momento di lietezza. Stava per optare proprio per l’ultima opzione, quando le sagome di Faramir ed Éomer comparvero dietro un angolo, bloccando i suoi passi sul posto e sentendo il sangue fluirle sulle gote.

«Dama Trán se non erro.» la salutò il giovane Re, con un inchino del capo. «Mi domandavo quando avrei potuto incontrarti per parlare del lavoro che vorrei commissionarti.»

La Nana si inchinò più volte, stringendo ora il manico della cesta con forza. S’impose un po’ di calma, ricordandosi che non avrebbe dovuto essere tanto a disagio a trattare con un sovrano ed un principe, giacché era la compagna di uno e l’amica di due. «Mio signore Éomer, avevo intenzione di informarti poco più tardi che oggi avrei ripreso a lavorare, e che i tuoi soldati possono venire alle forge quando meglio credono.»

«Molto bene.» replicò l’altro, osservandola ora con perplessità. «Anche tu sei qui per far visita al Sovrintendente?»

«Il... Sovrintendente?»

«Mio fratello ha ripreso conoscenza.» fece Faramir, con un sorriso gioviale e sollevato sulle labbra. «E pare che stiano festeggiando, là dentro.»

Trán scosse il capo, imbarazzata. «Oh, io credevo che dama Brethil fosse... oh, lasciate perdere. Non voglio intromettermi; ma porgete i miei più cari saluti al Sovrintendente e... potete dargli questo.» aggiunse, porgendo loro il suo regalo.

«Conoscendo Brethil sarà proprio qui.» Éomer aveva già aperto la porta, quando si voltò verso di lei e la esortò ad entrare con un cenno del capo. E né il suo udito, né le supposizioni del giovane Rohirrim furono errate, giacché la donna era seduta sul letto accanto al Capitano di Gondor, entrambi circondati dagli amici. Trán si sentì oltremodo fuori luogo e rimase in un angolo ad osservare gli uomini ridere e abbracciarsi, mentre nessuno pareva accorgersi di lei.

Nessuno, tranne Brethil.

Gli occhi grigi della Dúnadan luccicavano per la felicità e Trán non ricordava di averglieli mai visti così luminosi, in quel poco tempo che avevano trascorso insieme. Le allungò una mano affinché si avvicinasse e fu solo allora che i visitatori si voltarono verso la Nana, che divenne nuovamente paonazza, e si spostarono per farla passare. Ma nel momento in cui le due amiche si abbracciarono, Trán dimenticò di essere il centro dell’attenzione di tutti e pianse di gioia.

«Mahal.» sussurrò, la voce spezzata. «Ero così preoccupata! Continuavi a dormire e a non muoverti, avevi la febbre e non sapevo più cosa fare–»

«Ero solo molto stanca.» la rassicurò la donna, accarezzandole i capelli intrecciati; fu in quel momento che le dita sfiorarono una clip metallica e Brethil poté osservare alla luce del sole gli intarsi geometrici, così simili a quelli che ricordava di aver visto nella cintura dei Durin. «Sire Thorin mi ha detto che non ti sei allontanata un attimo. Non avresti dovuto trascurarti così, amica mia.»

«Non riuscivo a pensare ad altro se non a mio–» Terminò la frase a metà, la Nana, scuotendo il capo. «Sono così felice che stia meglio. Il fianco?»

«Sta lentamente guarendo. Tu, piuttosto, come stai?»

Quella chinò gli occhi, stringendosi nelle spalle. Non sapeva darle una risposta, in realtà. Non voleva preoccuparla dicendole che il lutto la stava lentamente logorando, ma d’altra parte l’affetto che aveva ricevuto in quei giorni e il sollievo di sapere che almeno il resto delle persone che amava fosse salvo, non poteva che alleggerirle il peso sul cuore.

Spostò lo sguardo sul Sovrintendente, che da qualche tempo osservava la sua donna e ora la Nana con crescente curiosità. «Mi ricordo di te, giacché eri nella carovana che visitò l’Ithilien qualche settimana fa.»

La Nana si chiese quanto tempo fosse passato da quel giorno e si sorprese di quante cose, invece, fossero cambiate. «Trán, figlia di Rulin, mio signore.» gli disse, la voce che tremò nel pronunciare il nome del padre. Brethil le strinse una mano, probabilmente perché sapeva cosa fosse accaduto.

Boromir corrugò la fronte e lei si sentì sotto stretto scrutinio. Quei penetranti occhi chiari parevano cercare qualche risposta sul suo viso e Trán non sapeva se temere la domanda. Ma l’espressione crucciata  dell’Uomo si stese in un sorriso. «Devi essere una persona particolarmente interessante, Trán figlia di Rulin, se hai conquistato l’amicizia di Brethil.»

Elladan le batté una mano sulla spalla, vedendola a disagio per il complimento. «Oh, lo è parecchio, Boromir.»

«Le ha tenuto compagnia per tutto il tempo della tua e della nostra assenza.» aggiunse Elrohir.

Il Sovrintendente chinò il capo. «Allora permettimi di ringraziarti.»

«Non devi farlo, mio signore. Sono io che devo ringraziare Brethil della sua amicizia, giacché anche lei, come me, regala la sua fiducia a poche persone.» La donna sorrise e la baciò una tempia. «Oh, quasi dimenticavo! Vi ho portato un pensiero, spero che non abbiate già fatto colazione.» fece Trán, recuperando la frutta e poggiandola sul bordo del letto. «E prego, è per tutti voi, non solo per i degenti.»

Boromir fu il primo ad allungare una mano verso una mela, senza fare troppi complimenti, poiché da quando aveva riscoperto il piacere di mangiare, sentiva che non avrebbe potuto far altro fino alla fine dei suoi giorni.

«Ma come?» lo punzecchiò Aragorn. «Non ti fai dare una mano d’aiuto dalla tua signora?»

Con gli occhi ridotti ad una fessura, il Sovrintendente gli lanciò un’altra mela, centrandogli la fronte con precisione chirurgica.

«Osi attaccare il tuo Re?»

Boromir ghignò. «E che il Re ringrazi la mia poca voglia di alzarmi dal letto.»

D’altra parte, Éomer e Faramir non colsero la battuta e i gemelli furono oltremodo felici di spiegare loro cosa avessero visto poco prima.

Il fratello del Capitano di Gondor, così, gli batté una mano sulla spalla, sorridendo sornione. «Se non ricordo male, ero io quello che veniva imboccato da te quando ero piccolo.»

«Eri anche quello che bagnava il letto.» replicò l’altro in un borbottio.

«Suvvia signori.» fece Éomer, tentando di zittire tutti e trattenendo una risata. «Non dovremmo accanirci così; il nostro Boromir è solo vecchio e stanco.»

«Vecchio?» domandò attonito l’Uomo, che si voltò verso Brethil. «Credi che sia vecchio?»

Lei gli accarezzò una mano, lo sguardo basso pur di non incontrare il suo scioccato ed arrabbiato per le continue provocazioni e non rischiare di ridergli in faccia. «No, non direi vecchio... diciamo che non sei più un ragazzino, ecco.»

Boromir si lasciò cadere sui cuscini alle sue spalle, chiudendo gli occhi e tagliando fuori chiunque. «Mi domando quanto tempo ancora passerà prima che riceva una lettera dagli Hobbit con il testo di una ballata in merito. Non ne vedrò la fine, accidenti a voi.»

«Oh, se solo Pipino fosse qui.» disse Brethil, birichina. «Riesco a vederlo chiaramente mentre ti salta sul letto e cerca di ficcarti qualche fungo in bocca.»

Nonostante l’orgoglio ferito ripetutamente nel giro di pochi minuti, Boromir sorrise nel ripensare ai piccoletti e si domandò se prima o poi sarebbe giunta l’occasione di incontrarli, un giorno.

Trán, che aveva ascoltato i loro battibecchi con un sorriso sulle labbra, si congedò poco dopo, ringraziandoli per averla messa a suo agio e promettendo che sarebbe tornata presto a trovarli. Éomer le diede appuntamento a poco più tardi e lei si sentì finalmente elettrizzata dall’idea di tornare a lavorare il ferro e di servire uno dei Re degli Uomini. Si diresse alle forge con una certa fretta, impaziente di occupare la mente con il ritmico suono del martello sul metallo incandescente.

Káel fu il primo ad accorgersi del suo arrivo e senza preavviso le si lanciò contro, abbracciandola con così tanta forza che la lasciò letteralmente senza fiato. «Finalmente.» le sussurrò con voce tremante, baciandole una tempia. «Finalmente sei tornata.»

Trán ricacciò indietro le lacrime e ricambiò la stretta con altrettanto vigore. Intercettò lo sguardo di Thorin, che aveva interrotto il suo lavoro per osservarli, e si scambiarono un sorriso. «Sì, sono tornata.»

I primi uomini di Éomer iniziarono ad arrivare dopo una decina di minuti e Trán fu letteralmente sommersa di armi da affilare, lucidare e riparare. Il fatto che l’avessero avvertita di altri soldati che sarebbero passati entro la mattinata, le parve più una minaccia che un sollievo, ma fu ben felice di avere il resto del giorno occupato dal lavoro.

«Oi, Trán.» la chiamò Kili, dopo qualche tempo, spezzando il silenzio battuto solo dal martello sull’incudine. «Mi sono sempre chiesto, cosa c’è in quella cassa?»

La Nana spostò l’attenzione dalla spada su cui stava lavorando al baule, ricordandosi che contenesse i pugnali che ancora doveva dargli. «Oh, niente, solo qualche attrezzo di famiglia.»

Fili le guardò oltre le spalle, crucciato. «E lo tieni chiuso a chiave?»

«Sono attrezzi preziosi. Mio... mio padre me li regalò anni fa.» Evitò accuratamente lo sguardo del fratello, perplesso giacché non ricordava di un dono simile, e fu sicura di essere arrossita per la menzogna.

«Ah, sì?» incalzò Káel.

Thorin, che invece ben ricordava le armi che le aveva visto intagliare qualche tempo addietro, tagliò ogni curiosità sul nascere, con un imperioso “Testa china sul vostro lavoro, voi tre”. Il sospiro di sollievo della Nana gli fece capire che gli fosse oltremodo grata. Non aveva ancora pensato al momento giusto per darglieli, né era totalmente convinta del risultato. Avrebbe chiesto consiglio a Thorin prima di pranzo, quando sarebbero rimasti soli per qualche minuto prima di raggiungere gli altri.

 

 

 

 

Brethil si stiracchiò le gambe per l’ennesima volta, i muscoli che gridavano per essere messi in uso dopo tutti quei giorni di immobilità. Aveva tentato più volte, dopo la scappatella alla stanza di Boromir, di muovere qualche passo tra l’erba fresca dei giardini, ma la ferita al fianco continuava a pulsarle incessantemente nonostante si stesse rimarginando velocemente, e le succhiava tutte le energie di cui disponeva. Si sentiva tremendamente inutile, bloccata sul letto delle Case di Guarigione, e non poteva sopportarlo. Abituata alla movimentata vita dei Raminghi, che riposavano poco e correvano tanto, le parve di essere rinchiusa in una prigione, polsi e caviglie incatenati saldamente al pavimento.

Sospirò con pesantezza e l’uomo sdraiato accanto a lei parve ridacchiare. «Sei più insofferente di Gimli circondato da alberi.»

«È esattamente così che mi sento.» borbottò Brethil, lo sguardo che osservava quel soffitto che ormai conosceva a memoria. Avrebbe potuto ridisegnare ogni concio di pietra e ogni trave in legno di quella stanza anche ad occhi chiusi.

«Presto tornerai in forze. E così anche io.» rispose Boromir, girandosi su un fianco ed osservando l’espressione crucciata della donna. «Non sei l’unica ad essere così entusiasta di rimanere ferma nella stessa stanza da giorni.»

Con un sorriso, Brethil spostò il capo verso la sua direzione, accoccolandosi meglio contro il cuscino. Rimase qualche secondo di troppo ad osservare quegli occhi chiari che tanto le erano mancati, prima di parlare. «Ritieniti fortunato per la compagnia.»

«Fortunato, dici?» Boromir aggrottò la fronte. «È per causa tua che devo sorbirmi le lamentele della vecchia Ioreth sul tuo comportamento indecoroso. Come se potessi prenderti di peso e farti riposare su un altro letto che non sia già occupato da me.»

«Oh, allora mi affretto a togliere il disturbo, mio signore

Il tono canzonatorio della donna, in contrasto con l’assoluta mancanza di sforzi per mantenere fede alle sue parole, lo fece sorridere. Le accarezzò il viso, seguendo la linea delle cicatrici con un polpastrello ruvido; fu piacevole vedere come la pelle le si intirizzì immediatamente. «Ho imparato a non ascoltare più le voci dentro la mia testa... quelle voci così insistenti e dolorose che mi hanno perseguitato per tutti i mesi passati; posso riuscire a non ascoltare la sua voce.»

 «Ioreth ha le corde vocali più acute di Sauron, ti ricordo.» L’ombra di disagio sul volto dell’uomo la fece pentire delle sue parole. Sapeva bene quanto Boromir avesse sofferto sotto l’influenza dell’Anello; l’aveva visto con i suoi occhi. «Scusami, ho parlato a sproposito.»

Il Sovrintendente non rispose subito, lo sguardo perso nei ricordi di quei giorni funesti, quando credeva di aver perso completamente la testa, quando aveva sperato di morire piuttosto che vivere con il senso di colpa per ciò che aveva fatto. Scacciò quei pensieri con una scrollata del capo, i capelli biondi che gli ricaddero sugli occhi. Brethil allungò una mano, liberandogli il viso, e prima che potesse ritrarla lui l’aveva già afferrata sulla sua, baciandone il palmo e solleticandole la pelle con la barba ispida un po’ più lunga del solito.

«No, forse hai ragione.» le disse piano, abbozzando un sorriso. «La chiamiamo cornacchia per un motivo, del resto.»

Brethil sospirò, incerta di quel lieve tentativo di rassicurarla. «Hai più avuto incubi?»

Avevano speso ore a raccontarsi cosa fosse successo dal giorno in cui si erano salutati, da quando si erano lasciati con la consapevolezza che nessuno dei due andasse in guerra e che si sarebbero presto rivisti. Lui le aveva raccontato dei Nani e di come lavoravano alacremente; di come Azdor aveva attaccato la città e di come avevano tentato di difenderla prima dell’arrivo di Aragorn. E lei di quanto avesse legato in così poco tempo con Trán, del giorno in cui giunse il messaggero moribondo dall’Harad, della partenza verso i confini, di come fosse stato difficile prendere la decisione di tornare indietro. Ma nessuno dei due aveva osato raccontare delle proprie paure ed angosce – l’uno con gli incubi del passato, l’altra con il terrore di non trovare un posto nella sua nuova vita a Gondor; di quanto avessero sofferto per la loro lontananza e di quanto avessero contato i giorni che li separavano al loro prossimo incontro. Perché nonostante ormai fossero talmente uniti da sentire l’aria mancare quando non si trovavano l’uno al fianco dell’altra, erano entrambi molto orgogliosi per permettere alle proprie debolezze di intaccare quella corazza di fierezza.

Eppure entrambi erano estremamente fragili e proprio questa loro vulnerabilità li aveva uniti in primo luogo. Fu così che, dopo qualche istante di esitazione, Boromir annuì. «Di tanto in tanto, quando ero ad Osgiliath. Quando tu non c’eri.» le confessò, lo sguardo sulla mano intrecciata con la sua. «Rividi le fiamme di Mordor avvolgere la mia città; rividi il giorno in cui attaccai Frodo. Da questo punto di vista ringrazio che fossi incosciente per così tanti giorni; ho avuto il sonno senza sogni migliore della mia vita.»

«Felice di saperlo; per me, tuo fratello ed Aragorn è stato un incubo, invece.»

«Lo posso immaginare; e me ne dispiace.»

«Non è colpa tua, Boromir.»

Il Capitano della Torre Bianca s’inumidì le labbra, insicuro sulle parole che avrebbe dovuto usare. «Avrei dovuto essere più forte. Avrei dovuto resistere e tenere gli occhi aperti anche quando... anche quando sentivo le forze scivolare insieme al mio sangue. E invece, invece sono stato debole. Debole! Come quando l’Anello prese il sopravvento della mia mente. Io, che credevo di avere almeno un corpo che potesse combattere qualsiasi nemico, se non un animo resistente come quello di mio fratello, sono stato sopraffatto da due miseri tagli.»

«Boromir–»

«E continuavo a pensare che la fine fosse giunta, che tutto ciò che avevo guadagnato con il dolore e la fatica sarebbe stato distrutto quella stessa notte. Oh Brethil, se solo sapessi quanto male provai quando vidi la mia Osgiliath, sul piede della rinascita, nuovamente distrutta ed infuocata, alla mercé di selvaggi ed Olifanti. Fu come se mi avessero strappato il cuore dal petto e calpestato senza remore più e più volte.

E poi ti vidi, quando sentii il freddo della morte accarezzarmi ancora una volta: ti vidi, bella e sorridente, e mi vergognai, perché non riuscii a farmi forza neppure pensando a te. Mi feci sopraffare dall’insicurezza e dalla paura che tu stessa avresti incontrato la morte, perché presto il nemico sarebbe giunto anche a Minas Tirith, perché il tuo esercito avrebbe incontrato resistenza nell’Harad; cosicché l’unica consolazione che ebbi, prima di abbandonarmi alle tenebre, fu che ti avrei rivista nelle Aule di Mandos.» Le accarezzò via una lacrima, scappata al suo autocontrollo senza che potesse impedirselo. «Sono un debole, Brethil. Non sarò mai l’uomo che mio padre avrebbe voluto.»

«Sì, sei un uomo, Boromir.» ripeté lei, catturando la sua mano e stringendola. «Sei un uomo con le sue debolezze, come chiunque altro. Nessuno, neppure Aragorn è senza macchia e senza paura. Non siamo Orchi; siamo persone che hanno visto troppo nella propria vita, e sofferto altrettanto. Non oso immaginare i momenti che hai dovuto trascorrere, prima di svenire; nessuno dovrebbe vivere momenti come quelli – tranne cani come Mardil.» aggiunse, a denti stretti. «Non biasimarti se il tuo corpo ti ha tradito, né se la tua mente ha visto il buio senza uno spiraglio di luce. Anche io ho temuto il peggio, Boromir. Quando partii per l’Harad sapevo che non sarei tornata; sapevo che non ti avrei più rivisto. Ma egoisticamente una parte di me ne era sollevata, e sai perché?» L’uomo scosse il capo, incuriosito eppure intimorito da quello che avrebbe udito poco dopo. «Perché avevo finalmente trovato uno scopo dopo mesi di stallo. Quando decisi di rimanere a Gondor non sapevo cosa avrei fatto della mia vita; sì, Aragorn mi diede la divisa della Guardia Reale e proteggerlo era ciò per cui ero stata addestrata. Ma iniziai a sentirmi oppressa dalle mura di questa città; il desiderio di riprendere a viaggiare e vivere nelle terre selvagge si fece sempre più insistente e mi domandai più volte se questo fosse realmente il mio posto. Mi dissi di darmi tempo per abituarmi, giacché il cambiamento era sostanzioso; ma non ci riuscii. Ero costantemente messa sotto pressione dalle dicerie di Ecthirion e di chiunque gli desse ragione e, nonostante non abbia mai dato troppo peso agli insulti degli altri, iniziai invece a capitolare. Temevo che nessuno mi avrebbe accettata, tranne il Re e te: non li hai sentiti, mentre parlavano di me come se non fossi mai stata nella loro stessa stanza; non li hai sentiti mentre insinuavano che avessi raggiunto la mia posizione solo per i favori al Re e a te.» Riprese fiato, tentando di calmare il tono irato della sua voce, mentre Boromir le accarezzava il dorso della mano con un pollice, per tranquillizzarla. «Volevo tornare al Nord, riprendermi indietro la mia vita di Ramingo. Volevo tornare a vivere nella foresta, dormire sotto le stelle, appostarmi per ore e difendere il nostro popolo. Non sono nata per essere rinchiusa tra quattro mura e subire le dicerie di chicchessia.»

«Dunque–» la interruppe Boromir, la delusione e la rabbia ora visibile sul suo viso. «Dunque volevi abbandonare Aragorn? Volevi scappare nuovamente?»

«No, io–»

«Sì, invece, è quello che volevi fare. Non hai ancora imparato che non è aggirando gli ostacoli che li supererai? Aragorn non ti ha onorato di quella divisa per vederla gettata in un angolo del suo Regno!»

Brethil sospirò, strizzandosi gli occhi con due dita, tentando di scacciare il groppo alla gola che il senso di colpa le stava causando. Perché Boromir aveva ragione: c’era stato un lungo momento, durante quelle settimane, in cui aveva quasi capitolato, per sellare Nerian e dirigersi lontano da lì.

Come la codarda che era già stata tempo addietro.

«E non avresti abbandonato solo il tuo Re; avresti abbandonato anche me.» aggiunse l’Uomo, la voce che gli tremava. «Dimmi, Brethil: è ancora questo il tuo desiderio?»

La donna aprì gli occhi di scatto, mentre un deciso no lasciò le sue labbra prima ancora che potesse rendersene conto.

«Allora non ti capisco.» replicò lui, scuotendo il capo e lasciando la presa sulla sua mano. Se non fosse stato così debole avrebbe volentieri lasciato quel caldo letto per mettere qualche metro di distanza tra lui e la donna e calmare lo stato di agitazione in cui stava crollando.

«Boromir, guardami.» Si rifiutò ostinatamente di assecondare quell’ordine, finché Brethil lo costrinse. «L’unica sicurezza che ho sempre avuto nella mia vita era ciò per cui sono nata, ciò per cui la mia famiglia mi ha cresciuta e addestrata, ciò per cui è morta. Io sono niente, Boromir, al di fuori di un Ramingo. Non ho conosciuto altro se non quella vita. E quando mi hai chiesto di rimanere a Minas Tirith, con te... ho avuto paura. Io, che ho combattuto tutti gli anni della mia esistenza contro il Nemico e contro i pregiudizi, ho temuto di perdere ciò che ero e che sono sempre stata: la mia natura, la mia essenza.

E me ne sono resa conto in questi mesi, costantemente: non ci sarebbe alcun luogo che avrei potuto considerare come la mia casa: non Gondor, né il Nord, perché non ho mai avuto una fissa dimora. Ma quando sei partito per Osgiliath e io per l’Harad, sapendo che probabilmente non ci saremmo più rivisti... ho capito. Ho capito che non avrei mai avuto un luogo da chiamare casa, perché tu sei la mia casa, Boromir. E ovunque mi chiederai di andare, ovunque tu andrai... io sarò con te. A casa. Per questo quando partii mi sentii leggera: perché preferivo andare incontro alla morte, piuttosto che sapere che la mia casa probabilmente non sarebbe più tornata da me.»

Boromir non trovò subito le parole giuste per replicare, poiché la profondità di ciò che aveva appena udito lo destabilizzò. Sapeva bene che la donna che aveva di fronte, che aveva imparato a rispettare ed amare, non fosse solo la fredda guerriera che appariva e che avesse le sue forze così come le sue debolezze. Ma udirlo direttamente dalle sue labbra, vedere quegli occhi grigi inumidirsi per le lacrime, fu lacerante. Erano cresciuti in ambienti e circostanze così diversi che a stento capiva come potessero sorreggersi a vicenda; eppure condividevano la stessa paura di smarrirsi, di non riconoscere più se stessi dopo tutto ciò che avevano vissuto.

L’attirò tra le sue braccia con forza, allentando un poco la presa solo quando la sentì gemere a denti stretti per il dolore al fianco. «Perdonami.» Se fosse per averle causato dolore alla ferita o per aver dubitato della sua devozione verso di lui non seppe dirlo; forse lo fece per entrambi i motivi, pensò mentre le baciava la fronte. La sentì sospirare di sollievo, mentre le dita sottili di lei gli accarezzavano il mento.

«Io sono niente se non una Dúnadan.» ripeté Brethil, a bassa voce. «Ma sono niente anche senza di te.»

«Sei la mia Vita e la mia Coscienza, ricordi?» le domandò, in un sorriso. «Sarei morto, fisicamente e non, se non fosse stato per te.»

Rimasero in silenzio per lunghi minuti, ognuno perso nelle proprie riflessioni, godendo del caldo abbraccio in cui si erano uniti.

Fu Boromir il primo a spezzare la quiete. «Se fossi stata già mia moglie, il pensiero di lasciarmi indietro non ti avrebbe neppure sfiorata.» mormorò, con evidente sarcasmo.

«Se fossi già stata tua moglie, non ti avrei comunque permesso di domarmi come un cavallo selvaggio.» Boromir rise, ora di sincero divertimento. «E comunque, non sarei andata troppo lontana prima di rendermi conto dell’enorme sbaglio che avrei commesso. Né ho intenzione di andare da alcuna parte, ora che ti ho ritrovato.»

«E di...» Il Sovrintendente si schiarì la gola, improvvisamente secca. «... di diventare mia moglie? Ne hai ancora l’intenzione?»

Quegli occhi grigi e sottili trovarono subito i suoi, in trepida attesa di una risposta positiva. Ricordavano entrambi del giorno in cui lui le aveva proposto il matrimonio, quel giorno in cui il loro rapporto aveva oltrepassato un nuovo livello. Eppure nessuno dei due aveva più parlato di quell’eventualità, né dei preparativi di una celebrazione, non di una data. Forse per i troppi doveri a cui dovevano rispondere le loro cariche dopo la fine della Guerra dell’Anello, o forse perché l’idea di sposarsi li eccitava e spaventava contemporaneamente. Due guerrieri come loro cosa potevano saperne della vita coniugale?

Vide i suoi stessi pensieri attraversarle il volto e temette il peggio; l’avrebbe certo amata anche senza una cerimonia ufficiale, ma il suo orgoglio sarebbe andato in frantumi. Eppure, quando la vide sorridere ed annuire, si rese conto di aver trattenuto il fiato e la baciò finalmente sulle labbra, esigente e possessivo, mentre un’idea bizzarra ed allettante si faceva largo nella sua mente.

 

 

 

*

 

Chiedo scusa se il capitolo è risultato più noioso del previsto, ma la lunga chiacchierata di chiarimento tra Brethil e Boromir andava fatta. Mi ronzava in testa da mesi ed era ora di metterla per iscritto!

Oh, e ovviamente si accettano scommesse sull’idea bizzarra del Sovrintendente! :)

Avrei dovuto scriverla in questo capitolo, ma preferisco tagliarlo qui e lasciarvi con la curiosità. Non vedo l’ora di scriverla... sarà oltremodo divertente. ;)

A presto (?),

Marta.

 

   
 
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