Rieccomi! Credevo di aggiornare dopo la laurea,
e invece in una notte insonne sono riuscita a buttare giù questo capitolo –
qualunque cosa esso sia.
Capitolo cortino, poca azione ma tanti dialoghi,
vi avverto. Ma era un lavoraccio che andava fatto, soprattutto tra i miei
nostri due eroi preferiti – B&B. ;)
Probabilmente questa è la volta buona in cui, al
prossimo aggiornamento, sarò finalmente architetto – se tutto andrà bene,
ovviamente.
Quindi sparisco e vi lascio al capitolo!
Prima però vorrei ringraziarvi ancora una volta per il vostro supporto e la
vostra pazienza. Significa davvero tanto per me.
E chiedo scusa se ancora non ho risposto alle
ultime recensioni, ma prometto che lo farò appena riuscirò a liberarmi la testa
dal progetto per una decina di minuti.
È il minimo che posso fare per ringraziarvi a
dovere. :)
Sappiate che vi abbraccio virtualmente forte
forte, intanto. <3
Vi adoro,
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
23.
30 Settembre 3019 T. E.
Trán fu lesta a
terminare la colazione. Non aveva appetito neppure quella mattina, ma si sforzò
di mandar giù più di qualche briciola di pane, notando quanto Thorin e Káel la
stessero controllando affinché non s’indebolisse troppo. Persino Dwalin le
aveva spinto sotto il naso una bella fetta di formaggio, con lo sguardo di uno
che non avrebbe accettato facilmente un rifiuto. I Nani parlarono quietamente
del lavoro che li attendeva anche quel giorno e lei si appuntò mentalmente di
spedire una parola al Signore dei Rohirrim, per informarlo che era a sua completa
disposizione e a quella delle armi dei suoi soldati.
Aiutò Balin a
sparecchiare il tavolo ed accatastarono le stoviglie sporche dentro una tinozza
d’acqua, sapendo per certo che qualcuno sarebbe passato a ripulire tutto. Trán
li ringraziò profusamente per la colazione e per la loro ospitalità, giacché
aveva scoperto che anche Káel e Trión avessero dormito in quegli stessi alloggi
durante le notti precedenti. Dwalin fece per batterle un’impacciata manona
sulla testa, ma si ritrasse subito, ricordandosi che quella un giorno sarebbe
potuta diventare la sua Regina, e si limitò a borbottare qualcosa come “Sciocchezze”, prima di sparire alle
officine con il fratello e i più giovani.
Rimasti soli,
Thorin si avvicinò alla compagna, prendendole una mano tra le sue e baciandone
il dorso. «Bada che potresti non trovare dama Brethil nella sua stanza.»
«Come no?»
domandò Trán. «È ferita e debole, perché non dovrebbe stare a letto?»
«Perché è
testarda ed insofferente. Ed è preoccupata per le persone che ama, proprio come
te.»
La Nana
sospirò. «Grazie per avermelo detto. Se avessi trovato la sua stanza vuota
avrei pensato al peggio.»
Come sempre. «Vorresti che ti accompagnassi?»
«No, non preoccuparti. Sei richiesto alle forge.» Gli
accarezzò il viso con la mano libera e sorrise quando lo vide chiudere gli
occhi, tendendosi verso la morbidezza delle sue carezze. «Non impiegherò molto;
voglio solo assicurarmi che stia bene... e voglio... voglio sentirlo con le sue
parole.»
«E sia.» Thorin si chinò per baciarle le labbra. «Attenderò
con pazienza di vederti nuovamente lavorare al mio fianco. Nonostante le
officine siano piene, per me sono tremendamente vuote senza la tua presenza.»
«Oh, Thorin.» mormorò lei, abbracciandolo e lasciandosi
scappare un singhiozzo. Temendo di aver detto qualcosa di inappropriato, il
Nano si scostò il tanto che serviva per osservarla e sbarrò gli occhi quando
vide i suoi lucidi di lacrime. «No, non preoccuparti.» lo zittì prima ancora
che potesse parlare, affondando il viso contro il collo ispido del Re,
stringendolo con forza. «Mi hai semplicemente commossa. Lo sai che sono...
facile alle lacrime.»
«Finché sono di gioia, ben vengano.» Thorin trovò difficile
lasciarla andare, quando l’unica cosa che avrebbe voluto fosse di riportarla in
camera da letto e tenerla tra le braccia per il resto della giornata. Con un
ultimo, leggero bacio, i due si salutarono momentaneamente e Trán, riempito un cesto
di frutta fresca, si diresse alla volta di Brethil, impaziente di rivederla
muoversi e di sentire la sua voce. Come Thorin le aveva annunciato, non udì
risposta quando bussò alla porta della sua stanza, ma riconobbe il suono della
sua risata, proveniente da un paio di porte poco lontane. Si avvicinò
lentamente, tentando di riconoscere le numerose voci gioviali, tra cui quella
di Legolas, dei due gemelli di Rivendell e persino quella del Re di Gondor.
Sospirando, si poggiò contro il muro in pietra, stringendo
il cesto tra le braccia e osservando le volte a crociera del corridoio,
indecisa se annunciare la sua presenza, se attendere qualche altro minuto
oppure recarsi a lavoro, per non disturbare il loro momento di lietezza. Stava
per optare proprio per l’ultima opzione, quando le sagome di Faramir ed Éomer
comparvero dietro un angolo, bloccando i suoi passi sul posto e sentendo il
sangue fluirle sulle gote.
«Dama Trán se non erro.» la salutò il giovane Re, con un
inchino del capo. «Mi domandavo quando avrei potuto incontrarti per parlare del
lavoro che vorrei commissionarti.»
La Nana si inchinò più volte, stringendo ora il manico della
cesta con forza. S’impose un po’ di calma, ricordandosi che non avrebbe dovuto
essere tanto a disagio a trattare con un sovrano ed un principe, giacché era la
compagna di uno e l’amica di due. «Mio signore Éomer, avevo intenzione di
informarti poco più tardi che oggi avrei ripreso a lavorare, e che i tuoi
soldati possono venire alle forge quando meglio credono.»
«Molto bene.» replicò l’altro, osservandola ora con
perplessità. «Anche tu sei qui per far visita al Sovrintendente?»
«Il... Sovrintendente?»
«Mio fratello ha ripreso conoscenza.» fece Faramir, con un
sorriso gioviale e sollevato sulle labbra. «E pare che stiano festeggiando, là
dentro.»
Trán scosse il capo, imbarazzata. «Oh, io credevo che dama
Brethil fosse... oh, lasciate perdere. Non voglio intromettermi; ma porgete i
miei più cari saluti al Sovrintendente e... potete dargli questo.» aggiunse,
porgendo loro il suo regalo.
«Conoscendo Brethil sarà proprio qui.» Éomer aveva già
aperto la porta, quando si voltò verso di lei e la esortò ad entrare con un
cenno del capo. E né il suo udito, né le supposizioni del giovane Rohirrim
furono errate, giacché la donna era seduta sul letto accanto al Capitano di
Gondor, entrambi circondati dagli amici. Trán si sentì oltremodo fuori luogo e
rimase in un angolo ad osservare gli uomini ridere e abbracciarsi, mentre
nessuno pareva accorgersi di lei.
Nessuno, tranne Brethil.
Gli occhi grigi della Dúnadan luccicavano per la felicità e
Trán non ricordava di averglieli mai visti così luminosi, in quel poco tempo
che avevano trascorso insieme. Le allungò una mano affinché si avvicinasse e fu
solo allora che i visitatori si voltarono verso la Nana, che divenne nuovamente
paonazza, e si spostarono per farla passare. Ma nel momento in cui le due
amiche si abbracciarono, Trán dimenticò di essere il centro dell’attenzione di
tutti e pianse di gioia.
«Mahal.» sussurrò,
la voce spezzata. «Ero così preoccupata! Continuavi a dormire e a non muoverti,
avevi la febbre e non sapevo più cosa fare–»
«Ero solo molto stanca.» la rassicurò la donna, accarezzandole
i capelli intrecciati; fu in quel momento che le dita sfiorarono una clip
metallica e Brethil poté osservare alla luce del sole gli intarsi geometrici,
così simili a quelli che ricordava di aver visto nella cintura dei Durin. «Sire
Thorin mi ha detto che non ti sei allontanata un attimo. Non avresti dovuto trascurarti
così, amica mia.»
«Non riuscivo a pensare ad altro se non a mio–» Terminò la
frase a metà, la Nana, scuotendo il capo. «Sono così felice che stia meglio. Il
fianco?»
«Sta lentamente guarendo. Tu, piuttosto, come stai?»
Quella chinò gli occhi, stringendosi nelle spalle. Non
sapeva darle una risposta, in realtà. Non voleva preoccuparla dicendole che il
lutto la stava lentamente logorando, ma d’altra parte l’affetto che aveva
ricevuto in quei giorni e il sollievo di sapere che almeno il resto delle
persone che amava fosse salvo, non poteva che alleggerirle il peso sul cuore.
Spostò lo sguardo sul Sovrintendente, che da qualche tempo
osservava la sua donna e ora la Nana con crescente curiosità. «Mi ricordo di
te, giacché eri nella carovana che visitò l’Ithilien qualche settimana fa.»
La Nana si chiese quanto tempo fosse passato da quel giorno
e si sorprese di quante cose, invece, fossero cambiate. «Trán, figlia di Rulin,
mio signore.» gli disse, la voce che tremò nel pronunciare il nome del padre.
Brethil le strinse una mano, probabilmente perché sapeva cosa fosse accaduto.
Boromir corrugò la fronte e lei si sentì sotto stretto
scrutinio. Quei penetranti occhi chiari parevano cercare qualche risposta sul
suo viso e Trán non sapeva se temere la domanda. Ma l’espressione
crucciata dell’Uomo si stese in un
sorriso. «Devi essere una persona particolarmente interessante, Trán figlia di
Rulin, se hai conquistato l’amicizia di Brethil.»
Elladan le batté una mano sulla spalla, vedendola a disagio
per il complimento. «Oh, lo è parecchio, Boromir.»
«Le ha tenuto compagnia per tutto il tempo della tua e della
nostra assenza.» aggiunse Elrohir.
Il Sovrintendente chinò il capo. «Allora permettimi di
ringraziarti.»
«Non devi farlo, mio signore. Sono io che devo ringraziare Brethil
della sua amicizia, giacché anche lei, come me, regala la sua fiducia a poche
persone.» La donna sorrise e la baciò una tempia. «Oh, quasi dimenticavo! Vi ho
portato un pensiero, spero che non abbiate già fatto colazione.» fece Trán,
recuperando la frutta e poggiandola sul bordo del letto. «E prego, è per tutti
voi, non solo per i degenti.»
Boromir fu il primo ad allungare una mano verso una mela,
senza fare troppi complimenti, poiché da quando aveva riscoperto il piacere di
mangiare, sentiva che non avrebbe potuto far altro fino alla fine dei suoi
giorni.
«Ma come?» lo punzecchiò Aragorn. «Non ti fai dare una mano
d’aiuto dalla tua signora?»
Con gli occhi ridotti ad una fessura, il Sovrintendente gli
lanciò un’altra mela, centrandogli la fronte con precisione chirurgica.
«Osi attaccare il tuo Re?»
Boromir ghignò. «E che il Re ringrazi la mia poca voglia di
alzarmi dal letto.»
D’altra parte, Éomer e Faramir non colsero la battuta e i
gemelli furono oltremodo felici di spiegare loro cosa avessero visto poco
prima.
Il fratello del Capitano di Gondor, così, gli batté una mano
sulla spalla, sorridendo sornione. «Se non ricordo male, ero io quello che
veniva imboccato da te quando ero piccolo.»
«Eri anche quello che bagnava il letto.» replicò l’altro in
un borbottio.
«Suvvia signori.» fece Éomer, tentando di zittire tutti e
trattenendo una risata. «Non dovremmo accanirci così; il nostro Boromir è solo
vecchio e stanco.»
«Vecchio?» domandò
attonito l’Uomo, che si voltò verso Brethil. «Credi che sia vecchio?»
Lei gli accarezzò una mano, lo sguardo basso pur di non
incontrare il suo scioccato ed arrabbiato per le continue provocazioni e non
rischiare di ridergli in faccia. «No, non direi vecchio... diciamo che non sei
più un ragazzino, ecco.»
Boromir si lasciò cadere sui cuscini alle sue spalle,
chiudendo gli occhi e tagliando fuori chiunque. «Mi domando quanto tempo ancora
passerà prima che riceva una lettera dagli Hobbit con il testo di una ballata
in merito. Non ne vedrò la fine, accidenti a voi.»
«Oh, se solo Pipino fosse qui.» disse Brethil, birichina.
«Riesco a vederlo chiaramente mentre ti salta sul letto e cerca di ficcarti
qualche fungo in bocca.»
Nonostante l’orgoglio ferito ripetutamente nel giro di pochi
minuti, Boromir sorrise nel ripensare ai piccoletti e si domandò se prima o poi
sarebbe giunta l’occasione di incontrarli, un giorno.
Trán, che aveva ascoltato i loro battibecchi con un sorriso
sulle labbra, si congedò poco dopo, ringraziandoli per averla messa a suo agio
e promettendo che sarebbe tornata presto a trovarli. Éomer le diede
appuntamento a poco più tardi e lei si sentì finalmente elettrizzata dall’idea
di tornare a lavorare il ferro e di servire uno dei Re degli Uomini. Si diresse
alle forge con una certa fretta, impaziente di occupare la mente con il ritmico
suono del martello sul metallo incandescente.
Káel fu il primo ad accorgersi del suo arrivo e senza
preavviso le si lanciò contro, abbracciandola con così tanta forza che la
lasciò letteralmente senza fiato. «Finalmente.» le sussurrò con voce tremante,
baciandole una tempia. «Finalmente sei tornata.»
Trán ricacciò indietro le lacrime e ricambiò la stretta con
altrettanto vigore. Intercettò lo sguardo di Thorin, che aveva interrotto il
suo lavoro per osservarli, e si scambiarono un sorriso. «Sì, sono tornata.»
I primi uomini di Éomer iniziarono ad arrivare dopo una
decina di minuti e Trán fu letteralmente sommersa di armi da affilare, lucidare
e riparare. Il fatto che l’avessero avvertita di altri soldati che sarebbero
passati entro la mattinata, le parve più una minaccia che un sollievo, ma fu
ben felice di avere il resto del giorno occupato dal lavoro.
«Oi, Trán.» la chiamò Kili, dopo qualche tempo, spezzando il
silenzio battuto solo dal martello sull’incudine. «Mi sono sempre chiesto, cosa
c’è in quella cassa?»
La Nana spostò l’attenzione dalla spada su cui stava
lavorando al baule, ricordandosi che contenesse i pugnali che ancora doveva
dargli. «Oh, niente, solo qualche attrezzo di famiglia.»
Fili le guardò oltre le spalle, crucciato. «E lo tieni
chiuso a chiave?»
«Sono attrezzi preziosi. Mio... mio padre me li regalò anni
fa.» Evitò accuratamente lo sguardo del fratello, perplesso giacché non
ricordava di un dono simile, e fu sicura di essere arrossita per la menzogna.
«Ah, sì?» incalzò Káel.
Thorin, che invece ben ricordava le armi che le aveva visto
intagliare qualche tempo addietro, tagliò ogni curiosità sul nascere, con un
imperioso “Testa china sul vostro lavoro,
voi tre”. Il sospiro di sollievo della Nana gli fece capire che gli fosse oltremodo
grata. Non aveva ancora pensato al momento giusto per darglieli, né era totalmente
convinta del risultato. Avrebbe chiesto consiglio a Thorin prima di pranzo,
quando sarebbero rimasti soli per qualche minuto prima di raggiungere gli
altri.
Brethil si stiracchiò le gambe per l’ennesima volta, i
muscoli che gridavano per essere messi in uso dopo tutti quei giorni di
immobilità. Aveva tentato più volte, dopo la scappatella alla stanza di
Boromir, di muovere qualche passo tra l’erba fresca dei giardini, ma la ferita
al fianco continuava a pulsarle incessantemente nonostante si stesse
rimarginando velocemente, e le succhiava tutte le energie di cui disponeva. Si
sentiva tremendamente inutile, bloccata sul letto delle Case di Guarigione, e
non poteva sopportarlo. Abituata alla movimentata vita dei Raminghi, che
riposavano poco e correvano tanto, le parve di essere rinchiusa in una
prigione, polsi e caviglie incatenati saldamente al pavimento.
Sospirò con pesantezza e l’uomo sdraiato accanto a lei parve
ridacchiare. «Sei più insofferente di Gimli circondato da alberi.»
«È esattamente così che mi sento.» borbottò Brethil, lo
sguardo che osservava quel soffitto che ormai conosceva a memoria. Avrebbe
potuto ridisegnare ogni concio di pietra e ogni trave in legno di quella stanza
anche ad occhi chiusi.
«Presto tornerai in forze. E così anche io.» rispose
Boromir, girandosi su un fianco ed osservando l’espressione crucciata della
donna. «Non sei l’unica ad essere così entusiasta di rimanere ferma nella
stessa stanza da giorni.»
Con un sorriso, Brethil spostò il capo verso la sua
direzione, accoccolandosi meglio contro il cuscino. Rimase qualche secondo di
troppo ad osservare quegli occhi chiari che tanto le erano mancati, prima di
parlare. «Ritieniti fortunato per la compagnia.»
«Fortunato, dici?» Boromir aggrottò la fronte. «È per causa
tua che devo sorbirmi le lamentele della vecchia Ioreth sul tuo comportamento
indecoroso. Come se potessi prenderti di peso e farti riposare su un altro
letto che non sia già occupato da me.»
«Oh, allora mi affretto a togliere il disturbo, mio signore.»
Il tono canzonatorio della donna, in contrasto con
l’assoluta mancanza di sforzi per mantenere fede alle sue parole, lo fece
sorridere. Le accarezzò il viso, seguendo la linea delle cicatrici con un
polpastrello ruvido; fu piacevole vedere come la pelle le si intirizzì
immediatamente. «Ho imparato a non ascoltare più le voci dentro la mia testa...
quelle voci così insistenti e dolorose che mi hanno perseguitato per tutti i
mesi passati; posso riuscire a non ascoltare la sua voce.»
«Ioreth ha le corde
vocali più acute di Sauron, ti ricordo.» L’ombra di disagio sul volto dell’uomo
la fece pentire delle sue parole. Sapeva bene quanto Boromir avesse sofferto
sotto l’influenza dell’Anello; l’aveva visto con i suoi occhi. «Scusami, ho
parlato a sproposito.»
Il Sovrintendente non rispose subito, lo sguardo perso nei
ricordi di quei giorni funesti, quando credeva di aver perso completamente la
testa, quando aveva sperato di morire piuttosto che vivere con il senso di
colpa per ciò che aveva fatto. Scacciò quei pensieri con una scrollata del
capo, i capelli biondi che gli ricaddero sugli occhi. Brethil allungò una mano,
liberandogli il viso, e prima che potesse ritrarla lui l’aveva già afferrata
sulla sua, baciandone il palmo e solleticandole la pelle con la barba ispida un
po’ più lunga del solito.
«No, forse hai ragione.» le disse piano, abbozzando un
sorriso. «La chiamiamo cornacchia per
un motivo, del resto.»
Brethil sospirò, incerta di quel lieve tentativo di
rassicurarla. «Hai più avuto incubi?»
Avevano speso ore a raccontarsi cosa fosse successo dal
giorno in cui si erano salutati, da quando si erano lasciati con la consapevolezza
che nessuno dei due andasse in guerra e che si sarebbero presto rivisti. Lui le
aveva raccontato dei Nani e di come lavoravano alacremente; di come Azdor aveva
attaccato la città e di come avevano tentato di difenderla prima dell’arrivo di
Aragorn. E lei di quanto avesse legato in così poco tempo con Trán, del giorno
in cui giunse il messaggero moribondo dall’Harad, della partenza verso i
confini, di come fosse stato difficile prendere la decisione di tornare
indietro. Ma nessuno dei due aveva osato raccontare delle proprie paure ed
angosce – l’uno con gli incubi del passato, l’altra con il terrore di non
trovare un posto nella sua nuova vita a Gondor; di quanto avessero sofferto per
la loro lontananza e di quanto avessero contato i giorni che li separavano al
loro prossimo incontro. Perché nonostante ormai fossero talmente uniti da
sentire l’aria mancare quando non si trovavano l’uno al fianco dell’altra,
erano entrambi molto orgogliosi per permettere alle proprie debolezze di intaccare
quella corazza di fierezza.
Eppure entrambi erano estremamente fragili e proprio questa
loro vulnerabilità li aveva uniti in primo luogo. Fu così che, dopo qualche
istante di esitazione, Boromir annuì. «Di tanto in tanto, quando ero ad
Osgiliath. Quando tu non c’eri.» le confessò, lo sguardo sulla mano intrecciata
con la sua. «Rividi le fiamme di Mordor avvolgere la mia città; rividi il
giorno in cui attaccai Frodo. Da questo punto di vista ringrazio che fossi
incosciente per così tanti giorni; ho avuto il sonno senza sogni migliore della
mia vita.»
«Felice di saperlo; per me, tuo fratello ed Aragorn è stato
un incubo, invece.»
«Lo posso immaginare; e me ne dispiace.»
«Non è colpa tua, Boromir.»
Il Capitano della Torre Bianca s’inumidì le labbra, insicuro
sulle parole che avrebbe dovuto usare. «Avrei dovuto essere più forte. Avrei
dovuto resistere e tenere gli occhi aperti anche quando... anche quando sentivo
le forze scivolare insieme al mio sangue. E invece, invece sono stato debole. Debole! Come quando l’Anello prese il
sopravvento della mia mente. Io, che
credevo di avere almeno un corpo che potesse combattere qualsiasi nemico, se
non un animo resistente come quello di mio fratello, sono stato sopraffatto da
due miseri tagli.»
«Boromir–»
«E continuavo a pensare che la fine fosse giunta, che tutto
ciò che avevo guadagnato con il dolore e la fatica sarebbe stato distrutto
quella stessa notte. Oh Brethil, se solo sapessi quanto male provai quando vidi
la mia Osgiliath, sul piede della rinascita, nuovamente distrutta ed infuocata,
alla mercé di selvaggi ed Olifanti. Fu come se mi avessero strappato il cuore
dal petto e calpestato senza remore più e più volte.
E poi ti vidi, quando sentii il freddo della morte
accarezzarmi ancora una volta: ti vidi, bella e sorridente, e mi vergognai,
perché non riuscii a farmi forza neppure pensando a te. Mi feci sopraffare
dall’insicurezza e dalla paura che tu stessa avresti incontrato la morte,
perché presto il nemico sarebbe giunto anche a Minas Tirith, perché il tuo
esercito avrebbe incontrato resistenza nell’Harad; cosicché l’unica
consolazione che ebbi, prima di abbandonarmi alle tenebre, fu che ti avrei
rivista nelle Aule di Mandos.» Le accarezzò via una lacrima, scappata al suo
autocontrollo senza che potesse impedirselo. «Sono un debole, Brethil. Non sarò
mai l’uomo che mio padre avrebbe voluto.»
«Sì, sei un uomo, Boromir.» ripeté lei, catturando la sua
mano e stringendola. «Sei un uomo con le sue debolezze, come chiunque altro.
Nessuno, neppure Aragorn è senza macchia e senza paura. Non siamo Orchi; siamo
persone che hanno visto troppo nella propria vita, e sofferto altrettanto. Non
oso immaginare i momenti che hai dovuto trascorrere, prima di svenire; nessuno
dovrebbe vivere momenti come quelli – tranne cani come Mardil.» aggiunse, a
denti stretti. «Non biasimarti se il tuo corpo ti ha tradito, né se la tua
mente ha visto il buio senza uno spiraglio di luce. Anche io ho temuto il
peggio, Boromir. Quando partii per l’Harad sapevo che non sarei tornata; sapevo
che non ti avrei più rivisto. Ma egoisticamente una parte di me ne era
sollevata, e sai perché?» L’uomo scosse il capo, incuriosito eppure intimorito
da quello che avrebbe udito poco dopo. «Perché avevo finalmente trovato uno
scopo dopo mesi di stallo. Quando decisi di rimanere a Gondor non sapevo cosa
avrei fatto della mia vita; sì, Aragorn mi diede la divisa della Guardia Reale
e proteggerlo era ciò per cui ero stata addestrata. Ma iniziai a sentirmi
oppressa dalle mura di questa città; il desiderio di riprendere a viaggiare e
vivere nelle terre selvagge si fece sempre più insistente e mi domandai più
volte se questo fosse realmente il mio posto. Mi dissi di darmi tempo per
abituarmi, giacché il cambiamento era sostanzioso; ma non ci riuscii. Ero
costantemente messa sotto pressione dalle dicerie di Ecthirion e di chiunque
gli desse ragione e, nonostante non abbia mai dato troppo peso agli insulti
degli altri, iniziai invece a capitolare. Temevo che nessuno mi avrebbe
accettata, tranne il Re e te: non li
hai sentiti, mentre parlavano di me come se non fossi mai stata nella loro
stessa stanza; non li hai sentiti mentre insinuavano che avessi raggiunto la
mia posizione solo per i favori al Re e a te.» Riprese fiato, tentando di
calmare il tono irato della sua voce, mentre Boromir le accarezzava il dorso
della mano con un pollice, per tranquillizzarla. «Volevo tornare al Nord, riprendermi
indietro la mia vita di Ramingo. Volevo tornare a vivere nella foresta, dormire
sotto le stelle, appostarmi per ore e difendere il nostro popolo. Non sono nata
per essere rinchiusa tra quattro mura e subire le dicerie di chicchessia.»
«Dunque–» la
interruppe Boromir, la delusione e la rabbia ora visibile sul suo viso. «Dunque
volevi abbandonare Aragorn? Volevi scappare nuovamente?»
«No, io–»
«Sì, invece, è
quello che volevi fare. Non hai ancora imparato che non è aggirando gli
ostacoli che li supererai? Aragorn non ti ha onorato di quella divisa per vederla
gettata in un angolo del suo Regno!»
Brethil sospirò, strizzandosi
gli occhi con due dita, tentando di scacciare il groppo alla gola che il senso
di colpa le stava causando. Perché Boromir aveva ragione: c’era stato un lungo
momento, durante quelle settimane, in cui aveva quasi capitolato, per sellare
Nerian e dirigersi lontano da lì.
Come la codarda che
era già stata tempo addietro.
«E non avresti
abbandonato solo il tuo Re; avresti abbandonato anche me.» aggiunse l’Uomo, la
voce che gli tremava. «Dimmi, Brethil: è ancora questo il tuo desiderio?»
La donna aprì gli
occhi di scatto, mentre un deciso no
lasciò le sue labbra prima ancora che potesse rendersene conto.
«Allora non ti
capisco.» replicò lui, scuotendo il capo e lasciando la presa sulla sua mano.
Se non fosse stato così debole avrebbe volentieri lasciato quel caldo letto per
mettere qualche metro di distanza tra lui e la donna e calmare lo stato di
agitazione in cui stava crollando.
«Boromir, guardami.»
Si rifiutò ostinatamente di assecondare quell’ordine, finché Brethil lo
costrinse. «L’unica sicurezza che ho sempre avuto nella mia vita era ciò per
cui sono nata, ciò per cui la mia famiglia mi ha cresciuta e addestrata, ciò
per cui è morta. Io sono niente, Boromir, al di fuori di un Ramingo. Non ho
conosciuto altro se non quella vita. E quando mi hai chiesto di rimanere a
Minas Tirith, con te... ho avuto paura. Io, che ho combattuto tutti gli anni
della mia esistenza contro il Nemico e contro i pregiudizi, ho temuto di
perdere ciò che ero e che sono sempre stata: la mia natura, la mia essenza.
E me ne sono resa
conto in questi mesi, costantemente: non ci sarebbe alcun luogo che avrei
potuto considerare come la mia casa: non Gondor, né il Nord, perché non ho mai
avuto una fissa dimora. Ma quando sei partito per Osgiliath e io per l’Harad,
sapendo che probabilmente non ci saremmo più rivisti... ho capito. Ho capito
che non avrei mai avuto un luogo da chiamare casa, perché tu sei la mia casa,
Boromir. E ovunque mi chiederai di andare, ovunque tu andrai... io sarò con te.
A casa. Per questo quando partii mi
sentii leggera: perché preferivo andare incontro alla morte, piuttosto che
sapere che la mia casa probabilmente non sarebbe più tornata da me.»
Boromir non trovò
subito le parole giuste per replicare, poiché la profondità di ciò che aveva
appena udito lo destabilizzò. Sapeva bene che la donna che aveva di fronte, che
aveva imparato a rispettare ed amare, non fosse solo la fredda guerriera che
appariva e che avesse le sue forze così come le sue debolezze. Ma udirlo
direttamente dalle sue labbra, vedere quegli occhi grigi inumidirsi per le
lacrime, fu lacerante. Erano cresciuti in ambienti e circostanze così diversi
che a stento capiva come potessero sorreggersi a vicenda; eppure condividevano la
stessa paura di smarrirsi, di non riconoscere più se stessi dopo tutto ciò che
avevano vissuto.
L’attirò tra le sue
braccia con forza, allentando un poco la presa solo quando la sentì gemere a
denti stretti per il dolore al fianco. «Perdonami.» Se fosse per averle causato
dolore alla ferita o per aver dubitato della sua devozione verso di lui non
seppe dirlo; forse lo fece per entrambi i motivi, pensò mentre le baciava la
fronte. La sentì sospirare di sollievo, mentre le dita sottili di lei gli
accarezzavano il mento.
«Io sono niente se
non una Dúnadan.» ripeté Brethil, a bassa voce. «Ma sono niente anche senza di
te.»
«Sei la mia Vita e
la mia Coscienza, ricordi?» le domandò, in un sorriso. «Sarei morto,
fisicamente e non, se non fosse stato per te.»
Rimasero in silenzio
per lunghi minuti, ognuno perso nelle proprie riflessioni, godendo del caldo
abbraccio in cui si erano uniti.
Fu Boromir il primo
a spezzare la quiete. «Se fossi stata già mia moglie, il pensiero di lasciarmi
indietro non ti avrebbe neppure sfiorata.» mormorò, con evidente sarcasmo.
«Se fossi già stata tua
moglie, non ti avrei comunque permesso di domarmi come un cavallo selvaggio.»
Boromir rise, ora di sincero divertimento. «E comunque, non sarei andata troppo
lontana prima di rendermi conto dell’enorme sbaglio che avrei commesso. Né ho
intenzione di andare da alcuna parte, ora che ti ho ritrovato.»
«E di...» Il
Sovrintendente si schiarì la gola, improvvisamente secca. «... di diventare mia
moglie? Ne hai ancora l’intenzione?»
Quegli occhi grigi e
sottili trovarono subito i suoi, in trepida attesa di una risposta positiva.
Ricordavano entrambi del giorno in cui lui le aveva proposto il matrimonio,
quel giorno in cui il loro rapporto aveva oltrepassato un nuovo livello. Eppure
nessuno dei due aveva più parlato di quell’eventualità, né dei preparativi di
una celebrazione, non di una data. Forse per i troppi doveri a cui dovevano
rispondere le loro cariche dopo la fine della Guerra dell’Anello, o forse
perché l’idea di sposarsi li eccitava e spaventava contemporaneamente. Due
guerrieri come loro cosa potevano saperne della vita coniugale?
Vide i suoi stessi
pensieri attraversarle il volto e temette il peggio; l’avrebbe certo amata
anche senza una cerimonia ufficiale, ma il suo orgoglio sarebbe andato in
frantumi. Eppure, quando la vide sorridere ed annuire, si rese conto di aver
trattenuto il fiato e la baciò finalmente sulle labbra, esigente e possessivo,
mentre un’idea bizzarra ed allettante si faceva largo nella sua mente.
*
Chiedo scusa se il capitolo è risultato più noioso
del previsto, ma la lunga chiacchierata di chiarimento tra Brethil e Boromir
andava fatta. Mi ronzava in testa da mesi ed era ora di metterla per iscritto!
Oh, e ovviamente si accettano scommesse sull’idea bizzarra del Sovrintendente! :)
Avrei dovuto scriverla in questo capitolo, ma preferisco tagliarlo qui e lasciarvi con la curiosità. Non vedo l’ora di scriverla... sarà oltremodo
divertente. ;)
A presto (?),
Marta.