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Autore: ki_ra    21/03/2014    5 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Fin da bambino, conosceva il nome dell’uomo che lo aveva generato.
Quando all’età di dieci anni, colui che lo aveva creduto suo unico figlio, lo aveva scacciato dalla propria casa, tolto il cognome e marchiato come un indegno frutto del peccato, gli aveva anche rivelato l’identità di quegli che aveva sedotto sua madre, infangando onore e rispettabilità della propria casata.
Da quell’istante, Eìos era rimasto solo, bistrattato ed emarginato da coloro che fino a quel momento aveva considerato suoi pari. Senza alcun asilo, sporco e lacero, aveva vissuto di espedienti, per il pane duro che era il suo unico pasto; per un rifugio arrangiato nelle notti di uragani che sferzavano la costa. Aveva rubato, lavorato i campi, indurendo le mani; era andato per mare, inaridendo la pelle al sole ed al vento; aveva forgiato i muscoli di un corpo che maturava sotto il peso del lavoro. Aveva affilato la rabbia, come la lama tagliente di uno stiletto, ingabbiando l’anima in attesa della vendetta.
Fino a quella notte, la notte benedetta in cui aveva salvato la vita a colui che era divenuto suo padre.
Lo aveva strappato all’aggressione di tre banditi che cercavano di togliergli il denaro che portava indosso.
Era un medico, il migliore si diceva, non solo per l’attenzione e la solerzia con cui si dedicava agli infermi, ma ancor più, per la passione, la dedizione con cui curava anche anime e paure di uomini e donne che spesso non avevano di che ricambiare.
Aveva solo quindici anni, quella notte, Eìos, ma il corpo era già forte, quanto quello di un uomo. L’impeto, il disprezzo del pericolo lo rendevano incosciente e folle, tanto da lanciarsi nello scontro senza paure; il senso di giustizia, che nessuno gli aveva insegnato, ma che animava ogni suo intento, lo rinvigoriva contro la sopraffazione del più debole.
Non aveva paura né della morte, né del dolore poiché, credeva, che gli uomini che ne hanno timore sono solo coloro che hanno qualcosa da perdere.
Erano tornati a casa insieme, quella sera. Si erano sorretti a vicenda: il vecchio medico gli aveva curato il sopracciglio sanguinante ed il labbro rotto, le escoriazioni sulle nocche delle dita, i lividi violacei sul torso sporco, scoprendo cicatrici invecchiate di profonde ferite. Era divenuto il figlio che non aveva mai avuto, e da quel momento, Eìos aveva acquietato la rabbia cieca, il dolore per le ingiustizie subite e si era messo in attesa che le ferite rimarginassero, rimanendo solo pelle nuova e glabra, soltanto il segno di un passato doloroso, ma lontano.
Ma alcune cicatrici non segnano solo la carne.
Alcune trasfigurano l’anima, la soffocano, la induriscono, come pietra, e non guariscono mai.
Il dolore di Eìos era rimasto sopito, ardente sotto ceneri volatili, in attesa di divampare come fuoco feroce.
Ed all’ennesimo affronto, balzava fuori, come un predatore nella macchia. Ruggiva, al pari di una belva incatenata, digrignava i denti aguzzi e affilava la sua furia, coltivando, nel petto paziente, la vendetta.
Giunse alla tenuta, spronando il suo cavallo fino allo stremo, le mani ruvide strette alle redini, il viso duro e gli occhi vitrei.
Era uno dei luoghi più belli che si potessero vedere: il paradiso in terra. I campi di grano maturo si spandevano morbidi, sfiorati dal vento; le colline a nord erano coperte da lunghi filari di viti pregiate, che regalavano un vino armonioso e fruttato; gli ulivi secolari e carichi di frutti erano un vanto per quelle terre e l’olio puro che se ne estraeva aveva nome anche oltre i confini della regione; a sud, invece, dove la pianura  declinava verso il mare,  alberi da frutto profumati e fecondi catturavano la vista e olfatto.
La rabbia gli divorò la poca ragione sopravvissuta: non poté fare a meno di pensare che la metà di quelle terre fosse sua, come il nome che il figlio di suo padre portava.
Lo conosceva bene quel giovane di quattro anni più piccolo: l’aveva incontrato quando il suo vero padre, scoperta la sua identità, l’aveva accolto nella propria casa, con il proposito di riconoscerlo, come un uomo degno deve fare. Aveva nascosto i suoi intendimenti a tutti gli altri, moglie e figlio legittimo compresi, e avviato le pratiche burocratiche al registro civile. Voleva che i propri figli si conoscessero, si stimassero, finissero per considerarsi fratelli, prima che il legame di sangue  fosse confessato.
Ma prima che tutto prendesse forma, era morto, caduto da cavallo, la testa fracassata su di una roccia ed il futuro di quel figlio perduto nel suo sangue rappreso.
Lo ricordava bene, Eìos quel ragazzo.
Avrebbe persino potuto lodarne l’altruismo, la nobiltà d’animo, la schiettezza; quella sua strana, fraterna disponibilità nei confronti di un estraneo, quasi il sangue l’avesse riconosciuto istintivamente.
La propria furia però non concedeva sconti: Miran, suo fratello, non aveva colpe, era vittima di inganni, peccati, falsi moralismi e di un destino beffardo.
Esattamente come lui.
Egli però dalla vita, al contrario di Eìos, aveva avuto ogni cosa: nome, ricchezza, rispettabilità, amore, anche nella misura in cui non gli spettava. Ed ora si prendeva anche la sua donna.
L’avrebbe ucciso. Lo decise nell’istante in cui giunse all’ingresso della grande casa secolare.
Avrebbe ucciso lui, lei e chiunque si fosse messo di mezzo.
E all’inferno la sua vita, al diavolo la sua miserabile vita; tanto all’inferno bruciava da quando era venuto al mondo.
 

********
 

Il grande arco di pietra segnava l’ingresso alla corte interna della casa. Un giardino rigoglioso profumava di menta ed i rami sottili di un gelsomino, come fili di seta bianchi, ricamavano, sulle pareti di pietra viva,  odorosi arabeschi. Aiuole di piccoli fiori vermigli, come oasi, contornavano i tronchi nodosi dei tigli e la luce del giorno morente si insinuava pigra tra le foglie più alte, disegnando chiazze di chiaroscuro sull’erba.
Eìos penetrò il patio, riducendo la velocità del suo cavallo, portandosi dietro la polvere del selciato e l’odore acre della terra battuta dalla folle corsa; l’animale pestò la ghiaia biancastra con gli zoccoli, insofferente come il suo cavaliere, sbuffò più volte, scuotendo la testa e stringendo il morso che gli costringeva la bocca.
Smontò dalla sella con agilità felina, il petto in subbuglio, come se fossero state le sue stesse gambe a percorrere quel tragitto infinito; prese un respiro, nel tentativo di dominarsi, e guardandosi intorno, scorse la figura di una donna seduta su di una panca di granito scuro.
Lo scalpiccio dei passi di Eìos, ne richiamò l’attenzione, tanto che ella volse lo sguardo nella sua direzione, distogliendolo dal libro che leggeva.
- Dov’è Miran? – chiese con voce dura, la mano sull’impugnatura del pugnale, che portava al fianco sinistro, e la mascella contratta.
- Voi chi siete, signore? – domandò, a sua volta la donna, sollevandosi.
Era alta e sottile, timidamente bella: il viso ovale vantava, come rose di un raro colore scarlatto, labbra luminose e occhi blu, del blu degli oceani, e di essi contemplavano anche le profondità. La sua figura era fasciata da un abito dell’identico colore degli occhi, cangiante ai colpi di luce che lo aggredivano; la pelle di madreperla era in armonioso contrasto con esso: una notte di stelle rischiarata dalla luna.
- Cerco il padrone di questa tenuta, signora. – fu la sua vaga risposta, - … E la sua sposa! – concluse con la voce accaldata, attraverso la quale si mostrava tutto il suo furore.
- Sono a cavallo, verso i confini della tenuta. Il signore di queste terre mostra i suoi possedimenti alla sua sposa, mia sorella. – rispose con grazia e distacco.
- Vostra … sorella? – ripeté, meccanicamente, sorpreso: quelle due donne non avrebbero potuto essere più diverse, i tratti del viso, il colore degli occhi, le forme del corpo, tutto le rendeva lontane ed opposte come i poli della terra.
Una smorfia gli sporcò i tratti del viso ed un sorriso beffardo gli tese le labbra scure.
- Allora dovreste sapere chi sono! – affermò, avvicinando il proprio corpo a quello della donna. – Non è forse, consuetudine, tra membri della stessa famiglia, confidare intenti, sentimenti e … pulsioni? – chiese sfacciatamente, reclinando il capo per cercare gli occhi di lei.
- Non … vi comprendo … - rispose, intimidita dal tono ruvido e ancor più dagli occhi duri, come lava solida.
Azzardò un passo verso l’ingresso della casa, rivolgendogli le spalle, ma la voce di lui, ancora più dura degli occhi, le inchiodò il respiro nella gola ed i piedi al suolo, costringendola a voltarsi.
- Sono il suo amante … Beh, lo sono stato … - precisò, senza alcuna vergogna, - Vostra sorella, signora, ha riso, ansimato, urlato nel mio letto. E’ stata mia … - disse cattivo, con l’intento di offendere e fare male; di ingiuriare ed inorridire quella sconosciuta solo perché portava nelle vene lo stesso sangue dell’altra.
La donna lo guardò indignata, il petto pulsò a scatti impedendole il respiro, il sangue affluì alle gote pallide, colorandole violentemente.
- Non osate! – intimò, offesa, - Non osate calunniare mia sorella. Chi siete voi per infangare il suo buon nome ed il mio? – insistette, con una determinazione che non le apparteneva. Quell’uomo la inquietava, come una notte di tenebra, le rubava il respiro, ma al contempo, la indispettiva, estraeva forza e determinazione dal carattere pacato, come linfa spremuta dalle “vene” delle foglie. La rendeva stranamente fiera, quasi altezzosa, più forte e pronta a difendersi: una gatta in bilico su di un cornicione.
- Solo questo vi opprime il cuore? Il fango sul buon nome della vostra casa? – domandò, - E non vi repelle ed offende la sola idea che vostra sorella abbia giaciuto nel letto di un uomo, prima che in quello del suo legittimo sposo? – insistette, con scherno, ormai ad un palmo da lei.
Le convenzioni, le assurde convenienze che regolavano quel mondo fatto di apparenze e menzogne, lo disgustavano: egli apparteneva ad un altro universo, in cui chi ama è libero, nel corpo e nell’anima, senza restrizioni dovute a falsi pudori o moralismi; senza precetti morali e bigotti, che costringono a rifuggire gli impeti, le passioni ed i desideri.
- Andate via … - soffiò disarmata, - Andatevene … - ripeté, con voce flebile. Gli rivolse, di nuovo le spalle, per allontanarsi, cercando riparo dagli occhi di lui, come un viandante sorpreso dalla notte, ma Eìos la fermò, con un gesto inatteso anche per sé stesso, le afferrò il polso sottile, senza riguardo, né delicatezza; l’attirò a sé così vicina, che i corpi rimasero separati solo dalle loro braccia.
Il profumo di lei era lieve, eppure riconoscibile: un marchio che vantava solo la sua pelle.
Sapeva di acqua sorgiva mescolata ai petali delle rose il giorno dell’Ascensione,* placido, come quello dei bambini ed infiammante come olio per lo stoppino delle lampade.
Eìos ne rimase stordito e sorpreso, socchiuse gli occhi, inspirandolo lentamente.
- Non toccatemi …. - cercò di divincolarsi, senza riuscirvi. Per contenere il bruciore della stretta sul polso, si morse le labbra rendendole, per la pressione dei denti, ancora più vermiglie ed invitanti, tanto che Eìos sentì le proprie intorpidirsi, tendersi alla ricerca di quelle di lei, vittime di un richiamo inconsapevole e, per questo, ancora più avvincente.
- Ariela° … - chiamò una voce d’uomo dall’interno della corte. – Ariela? – ripeté, la stessa voce, avvicinandosi. Eìos allentò la stretta, si concesse ancora un istante per guardarla, occhi negli occhi, poi ruotò il busto verso il punto dal quale la voce, che lo aveva riportato al mondo, proveniva e si ritrovò a pochi passi da lui: l’uomo che portava il nome che avrebbe dovuto essere anche il suo; il signore delle terre che anche a lui appartenevano; l’uomo che riempiva la donna che era stata sua, colui che, nonostante lo stesso sangue, non sarebbe mai stato suo fratello.




 

* Per l’intera notte precedente il giorno dell’Ascensione (40 giorni dopo la Pasqua), una vecchia tradizione dell’Italia meridionale, suggerisce di lasciare, all’esterno della propria casa, in infusione, i petali di rose e diverse erbe odorose, soprattutto menta, in un catino d’acqua, ed, il mattino dopo, usare l’infuso per detergersi il viso.
° Ariela è un libero adattamento del nome di uno dei sette Arcangeli della tradizione ebraica: Uriele (luce di Dio), l’angelo di fuoco, guardia dei cancelli dell’Eden. Citato anche nel “Paradiso perduto” di Milton, in cui, inconsapevolmente, guida Satana verso la Terra.

 

  
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