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Autore: faithlesslips    22/03/2014    15 recensioni
[Forgetting The Girl]
"Ma perché? Perché lei? Perché non me? Non ci voleva molto, doveva solo provarci. Se ci provava, sicuramente ci riusciva. Potevo piacergli, doveva solo provarci. [...] Eravamo fatti l’uno per l’altra. Saremmo potuti essere così felici."
Genere: Drammatico, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Movieverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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FORGETTING THE BOY
 
Il suono della sveglia mi ricordava che ancora una volta ero costretta ad alzarmi da quel magnifico e comodissimo letto per trascinarmi stancamente fino a lavoro. Perché? Perché, mi chiedevo ogni giorno, ero costretta a quella farsa? Non ero un’attrice, come le ragazze che David era solito fotografare. Non stavo recitando. Eppure, mi sembrava di star recitando in una parte che odiavo essere costretta a recitare. Lasciavo che le cose mi scivolassero addosso, in attesa di qualcuno che mi dicesse che era arrivato il momento di fare una pausa. Anzi, forse era proprio quello che mi serviva. Una pausa. Mmh, non esistono pause in questa città frenetica. Nemmeno gli uccellini si fermano più sugli alberi a cinguettare spensierati. L’unica pausa che potevo permettermi era quel breve istante di riposo che avevo tra uno scatto e l’altro. Lui fotografa le più belle ragazze di New York. “Sei un’attrice?”, chiedeva sempre. “Sì”, rispondevano loro. Con la maggior parte di loro riusciva persino a concludere qualcosa, come una cena o un drink al bar sotto il loft dove aveva lo studio. Ma negli ultimi giorni, non faceva altro che parlare di questa ragazza, che a quanto pare gli aveva rubato il cuore. Rose, si chiamava. Era bella, nulla di ridire. Ma perché? Perché lei? Perché non me? Non ci voleva molto, doveva solo provarci. Se ci provava, sicuramente ci riusciva. Potevo piacergli, doveva solo provarci. Era lui l’unico a cui pensavo. L’amore della mia vita. Lavoravo per lui da oltre cinque anni, e dal primo attimo in cui lo vidi, pensai che doveva essere mio. L’avevo capito dal suo sguardo, dal modo in cui si muoveva, dalla dolcezza con cui teneva in mano la sua Canon che pareva appena comprata ogni volta che iniziava a scattare foto a quelle ragazze. Le ragazze. Quelle che, a suo dire, dovevano avere più fama e soldi di quanti non avessero già. La maggior parte di loro erano ricche. Insomma, i costi di David non erano bassi. Era uno dei migliori fotografi di Manhattan; e lo sapeva bene Rose. Lei non aveva chiesto di farsi fotografare da lui. Semplicemente era successo. Si erano incontrati in un teatro. Lui, come era solito fare, l’aveva abbordata e, parlando del più e del meno, le aveva chiesto di posare per lui. Lei era rimasta sbigottita, inizialmente, ma poi lui doveva aver tirato in ballo la carta del “hey, mi conosci di sicuro, i miei volantini sono in giro per tutta la città, tutti parlano di me e delle mie foto.” e lei aveva accettato. Quando, la mattina dopo, lei bussò alla porta, sapevo già tutto della sua vita. Quello era uno dei difetti di David che amavo: non sapeva mantenere nessun segreto. Se conosceva qualcuno fuori dallo studio doveva farmelo sapere per forza. Ed io ogni volta mi chiedevo se a volte parlava di me a qualcuno. E quello forse era l’unica cosa a cui pensavo. Persino mentre le modelle erano sedute di fronte a me ed io ero intenta a spalmargli in faccia chili di fondotinta e ombretto, lanciavo sempre qualche occhiata verso di lui, intento a sistemare le luci del set e le impostazioni della Canon, e lasciavo che quell’enorme punto interrogativo riempisse il vuoto che sentivo dentro di me.
Lei se ne stava lì seduta, a sorridere alle sue battute. E lui, da dietro la camera, rideva, perdendosi nei suoi meravigliosi occhi castani. Ed io, invece, ero semplicemente la sua truccatrice. Non rideva con me. Io ero quella su cui sfogarsi per l’affitto da pagare. Ero quella a cui raccontare delle serate intense come le sue clienti. Ero quella a cui raccontare ogni singolo piccolo particolare. Ma non ero mai l’argomento della conversazione.
Una mattina David mi disse che sarebbe andato a far colazione assieme a Rose. Fantastico, pensai, lo stai perdendo e nemmeno te ne stai rendendo conto. Li seguii. Che altro potevo fare? Li vedevo, scherzare e ridere; vedevo lo sguardo che David continuava a lanciare a Rose. Quello che non aveva mai lanciato a me. Ne avevo abbastanza, di Rose, di David, di me stessa. Nemmeno mi ricordavo più come avevo fatto a finire in quello studio. Era accaduto tutto troppo velocemente. Avevo trovato l’inserzione, avevo conosciuto David, avevo iniziato a truccare quelle ragazze perfette. E cosa avevo, dopo anni di lavoro al fianco di David? Solo una vasta gamma di ombretti e ciprie.
Erano una bella coppia, David e Rose. Stavano sempre assieme. Lei ogni tanto veniva ad assistere David tra un photoshoot e l’altro, e ci scappava sempre il bacio. Non invidiavo Rose. Anzi, la odiavo semplicemente. Perché lei aveva ottenuto tutto quello che avevo cercato di avere per anni in pochi giorni? Perché David non riusciva a farsi piacere me? Potrebbe riuscirci benissimo, se solo ci provasse. Potremmo essere una coppia meravigliosa, io e lui. Lui il ragazzo strambo con gli occhiali spessi e con la Canon sempre a portata di mano, ed io, ragazza riservata coi capelli rosa. Eravamo uguali. Eravamo fatti l’uno per l’altra. O forse era proprio questa uguaglianza a non permetterci di stare assieme. Saremmo potuti essere così felici. Sicuramente insieme avremmo superato molti più problemi di quanti ne stesse superando con Rose. In effetti, era proprio Rose il problema. E andava eliminata. Se lei non ci fosse stata, David sarebbe stato solo per me. A disposizione ed utilizzo mio personale. Solo io. E lui. Insieme. Per sempre.
 
Quella mattina decisi di avviarmi verso lo studio prima delle otto. Arrivai sotto il portone nero, citofonai a Fred, il portinaio, ed entrai nel cortile spoglio. Entrai nell’ascensore che scricchiolava ad ogni respiro, ed aspettai che raggiungesse l’ultimo piano del palazzo. Quando arrivò, inserì la chiave nella serratura della porta dello studio di David, ma non riuscì ad aprirla. Chiamai diverse volte David. Sapevo che era lì dentro. Lo sentivo. Sentivo il suo respiro affannato che lacerava la porta. “Perché non vuoi farmi entrare?”, chiesi. Nessuna risposta. “Devo chiamare Fred, hai dei problemi?”. La porta cigolò. Si aprì per uno spiraglio, attraverso il quale vidi un terzo della faccia di David. “Se ti faccio entrare, prometti di non dare di matto.”. Promisi. In effetti non mostrai nessuna emozione quando mi trovai accanto al corpo senza vita di Rose. Attorno al suo corpo indifeso, spoglio, bianco, buttato sul parquet come uno straccio, c’era una pozza di sangue che si estendeva a macchia d’olio. E così, il caro e vecchio David aveva sfasciato il cranio di Rose con un martello. “Ti aiuto a disfartene.” dissi semplicemente. Lui, coi capelli e la faccia sporca di sangue, restava lì, a fissare il corpo della sua ragazza, morta. “Pensaci tu.”, mi disse solo. Quindi non ero solo l’inutile truccatrice, ma anche l’inutile mezzo per far scomparire le sue malefatte. Trascinai il corpo senza vita di Rose fin sopra un enorme telo bianco, usato da David per far da sfondo alle modelle, e le lo arrotolai attorno. Il sangue continuava ad affluire dalla testa, sporcando sempre più il telo chiaro. “Dobbiamo portarla via da qui.”, farfugliò lui, girando in tondo per la stanza con sguardo perso. “La porta via io, tu pensa a tranquillizzarti.”. “Solo, non dire a nessuno di quello che ho fatto.”. “Tranquillo,” dissi infilando il corpo arrotolato nel telo in un sacco, “so che non è la prima volta.”. Lui mi guardò sorpreso. “Mi chiedo solo che fine hanno fatto Ginny. E Lory. E Katia. E Willow.”, continuai, trascinando fuori dalla stanza il sacco. Lui tenne lo sguardo fisso su di me, e quando richiusi la porta dello studio sembrò che i suoi occhi potessero continuare ad osservarmi mentre salivo in ascensore col cadavere allegato.
Mi sbarazzai in fretta di Rose. La caricai in macchina e la mollai fuori città, in campagna, dove non passava mai nessuno, se non i cani randagi. David era ancora sconvolto dal fatto che io sapessi che fine avevano fatto tutte le altre sue modelle. Tutte avevano rifiutato i suoi inviti ad uscire per un caffè, oppure, quelle poche che l’avevano accettato, erano state uccise semplicemente perché erano state viste a parlare con un altro uomo. David era così: geloso. Ma avrei mille volte preferito fosse geloso di me, piuttosto che di quelle puttane che adescava continuamente. Un giorno, per convincerlo che avrei mantenuto il segreto, gli dissi che avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse ordinato di fare. “Usciresti con me, allora?”. Era stato così inaspettato, che quasi pensai di star sognando. Cercai di svegliarmi, non volevo vivere ancora una volta quel sogno e svegliarmi per scoprire la cruda realtà. Ma era tutto vero. Eravamo veri, io e lui. Finalmente. La sera mi portò nella sua nuova casa. L’aveva comprata con Rose, avrebbero dovuto trasferirsi lì, insieme, alcuni giorni dopo. Ma la gelosia era stata troppo potente. E ora ero pronta a prendere il posto di Rose, nella vita di David. Quella sera, dopo una serata passata a bere vino rosso e a parlare con gli occhi, entrammo in casa e la prima cosa che feci, ancora prima di richiudermi la porta dietro le spalle, fu spogliarmi. David mi imitò. Eravamo entrambi ubriachi fradici, cosa mai sarebbe successo? David era pericoloso solo quando era lucido, ma da ubriaco era solo un cagnolino pronto ad obbedire ad ogni ordine. L’avevo scoperto quando la mattina, dopo una notte passata a bere con la ragazza di turno, fece qualsiasi cosa gli chiedevo. Solitamente tendeva ad ignorarmi, o a rispondere il solito “Pensaci tu”. Quando aveva bevuto era solo uno schiavetto indifeso. Mi trascinò in camera, mentre tentavo di abbassare la zip del vestito nuovo comprato apposta per l’occasione. Mi scaraventò sul letto e mi si buttò addosso appena si levò la camicia. Passammo la notte a baciarci, nel suo letto, mezzi nudi. Io e lui. Insieme. Lo saremmo stati per sempre, di questo ero certa.
La mattina mi svegliai col sapore dell’alcool in gola. Accanto a me, di David, rimaneva solo la forma del suo corpo disegnata sulle lenzuola. Sul comodino giaceva un pezzo di carta. “Ci vediamo in ufficio.”, diceva. Niente “xo”, niente “Buongiorno”, niente “Ti amo”. Semplicemente niente. Rintracciai il vestito della sera precedente nel corridoio, poi mi avviai verso lo studio. La mia mente era talmente debole che più pensavo, più idee perdevo. Nemmeno riuscivo a capire dove mi trovassi. Mi sentivo le gambe cedere, lo sguardo annebbiarsi e la mente iniziò a girovagare ovunque, in cerca di spiegazioni di David. Perché aveva scritto quel bigliettino? Perché non mi aveva svegliata? Mi aveva almeno baciata su una guancia prima di uscire? Si era svegliato all’alba apposta per vedermi dormire? Tutte domande a vuoto. Non ottenni mai una risposta. Quando arrivai vacillando allo studio, attaccandomi alle pareti per non cadere dai tacchi, lo trovai ad aspettarmi seduto sullo sgabello al centro del set. Dietro, solo uno sfondo bianco. Davanti a lui, io. Mi guardò con sguardo spento. Non mi salutò nemmeno. “Quello che è successo ieri sera è stato un errore.”, disse soltanto. Cercai di ricacciare le lacrime, ma dopo poco sentii gli occhi umidi e qualcosa mi rotolò giù da una guancia. Non poteva finire così. Non ora. Non qui. Non doveva finire e basta. Eravamo troppo perfetti per poterci dividere. Eravamo fatti l’uno per l’altra. “Ma io ti amo”, singhiozzai tra le lacrime. Lui si mise a ridere. “Ma io amo Rose.”, disse, tra le risate. “Rose è morta.” gridai, cercando di asciugarmi il viso, “L’hai uccisa.”. Lui scosse la testa. “Ti sbagli. Tu l’hai uccisa.”. La testa riprese a girarmi e la vista si annebbiò nuovamente. Mi sdraiai a terra, con la testa tra le mani, e continuai a piangere ininterrottamente. Sentii le scarpe di David ticchettare sul parquet fino alla porta, che si richiuse con un tonfo. Alzai lo sguardo singhiozzando e vidi David sopra di me. Aveva una faccia diversa. Non era il solito David. Una lacrima gli stava scendendo sulla guancia destra. “Perché l’hai fatto?” gli chiesi sospirando e cercando di non singhiozzare. Lui piegò la testa e mi accarezzò il viso. Poi si allontanò da me, girandosi di spalle e camminò verso la finestra che dava sulla strada. In quel momento avrei solo voluto alzarmi e urlargli di fermarsi, ma quando mi decisi a radunare le forze per tirarmi su, era troppo tardi. David aveva già aperto la finestra ed era scomparso. Dopo, sentii solo il rumore dello stridere dei freni delle macchine e un tonfo seguito da delle urla.
 
E alla fine, quando mi affacciai alla finestra e guardai giù, verso la strada, l’unica cosa che avevo la forza di fare mentre gli occhi mi lacrimavano, era immaginare di prendere un barattolo di pillole, aprirlo e rovesciare il contenuto sul mio letto, sdraiarmi, con la musica che andava avanti nelle cuffiette, prendere una pillola alla volta ed ingoiarle tutte, una dopo l’altra. Forse in quel modo avrei finalmente finito di soffrire, piangere e pensare a ciò che sarebbe potuto accadere se non ci fosse stata in mezzo a noi due quella Rose. Era colpa sua se l’aveva fatta finita. Era colpa sua se non mi voleva più. Era colpa sua se David si era innamorato di lei, più di quanto potesse rendersene conto. R-O-S-E. La persona che mi aveva allontanato dall’unico che mi aveva mai fatto provare qualcosa in tutta la mia inutile esistenza. L’unico che era riuscito a riempirmi il cuore di amore. L’unico che era riuscito a farmi cambiare. L’unico a cui riuscivo a pensare mentre la vista sbiadiva e la musica svaniva lentamente.
  
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